Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4934 del 27/11/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 4934 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Lu Xianli, nato in Cina il 5/3/1960

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Firenze in data
17/3/2014
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14/6/2012, il Tribunale di Firenze giudicava Xianli Lu
colpevole del delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2, comma 1-bis, d.l. 12
settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla I. 11 novembre
1983, n. 638, per aver omesso di versare all’Inps le ritenute assistenziali e
previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti in varie mensilità degli anni
2005, 2006 e 2007, e lo condannava alla pena di tre mesi di reclusione e 500,00
euro di multa.

Data Udienza: 27/11/2014

2. Con successiva pronuncia del 17/3/2014, in parziale riforma, la Corte di
appello di Firenze dichiarava non doversi procedere quanto alle mensilità fino a
febbraio 2006 compreso, per intervenuta prescrizione, e quindi rideterminava la
pena nella misura di due mesi, 12 giorni di reclusione e 340,00 euro di multa;
confermava nel resto la prima sentenza.
3. Propone ricorso per cassazione il Lu, a mezzo del proprio difensore,
argomentando tre motivi:
– inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità. La Corte di

primo grado, sollevata per omessa traduzione in lingua cinese del decreto penale
di condanna e del decreto di citazione a giudizio; la mancata conoscenza della
lingua italiana da parte dell’imputato, peraltro, sarebbe stata desumibile da una
sentenza del Tribunale di Prato del 9/2/2011, che avrebbe confermato la
circostanza;
– mancanza, illogicità o contraddittorietà della motivazione in ordine alla
sussistenza del fatto. La Corte avrebbe ritenuto la responsabilità del Lu sulla
base della sola deposizione del funzionario dell’I.n.p.s., il quale avrebbe svolto
l’accertamento non già recandosi presso la società, ma soltanto in via
informatica e sulla base dei soli modelli DM 10; il che, peraltro, non avrebbe
consentito di far emergere in dibattimento un dato importante, quale
l’identificazione dei dipendenti ai quali si riferiva la violazione;
– mancanza, illogicità o contraddittorietà della motivazione in ordine alla
portata eccessiva della pena ed al mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche. La Corte di merito avrebbe applicato una pena troppo
elevata, oltre che motivato in modo illogico quanto al diniego delle circostanze ex
art. 62-bis cod. pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, occorre premettere che, per consolidata
giurisprudenza di questa Corte, il riconoscimento del diritto all’assistenza
dell’interprete non discende automaticamente, come atto dovuto e
imprescindibile, dal mero “status” di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore
presupposto, in capo a quest’ultimo, dell’accertata ignoranza della lingua italiana
(Sez. U., n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239693; Sez. 4, n. 39157 del
18/1/2013, Burkhart, Rv. 256389); con l’ulteriore, speculare precisazione per cui
la verifica della conoscenza della stessa lingua spetta al giudice di merito,
costituendo un’indagine di mero fatto non censurabile in sede di legittimità se

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appello avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di nullità della sentenza di

motivata in termini corretti ed esaustivi (Sez. Sez. 6, n. 28697 del 17/4/2012,
Wu, Rv. 253250).
Ciò premesso, osserva il Collegio che il ricorrente si è limitato a riproporre la
medesima censura già fatta valere con il primo gravame, senza però in alcun
modo considerare, né tantomeno confutare, le argomentazioni svolte al riguardo
dalla Corte di merito; la quale – con motivazione ampia, articolata e priva di vizi
logici – ha desunto la conoscenza della lingua italiana in capo al Lu da plurimi
elementi oggettivi, peraltro giammai contestati nel presente gravame (tra i quali

difensore di fiducia, con procura speciale ed elezione di domicilio redatte in
italiano).
5. Anche il secondo motivo è infondato.
La sentenza impugnata – nel motivare sul medesimo argomento di censura ha ritenuto il Lu colpevole del reato ascrittogli sulla base dei modelli DM10 dallo
stesso inviati all’I.n.p.s., contenenti la specifica indicazione delle retribuzioni
corrisposte ai dipendenti, dei contributi dovuti e degli eventuali conguagli;
modelli, ancora, sui quali ha deposto il funzionario dell’I.n.p.s..
Orbene, così operando la Corte ha fatto buon governo del principio costantemente affermato in questa sede di legittimità – in forza del quale l’onere
incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle
retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la produzione del modello DM
10, che ha natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro; con
l’effetto che la sua compilazione e presentazione equivale all’attestazione all’ente
di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali non sono stati versati i
contributi (Sez. 3, n. 37145 del 10/4/2013, Deiana, Rv. 256957; Sez. 3, n.
46451 del 7/10/2009, Carella, Rv. 245619). Ne deriva, ulteriormente, che grava
poi sull’imputato il compito di provare, in difformità dalla situazione
rappresentata nelle denunce retributive inoltrate, l’assenza del materiale esborso
delle somme (Sez. 3, n. 7772 del 5/12/2013, Di Gianvito, Rv. 258851; Sez. 3, n.
32848 dell’8/7/2005, Smedile, Rv. 232393); prova, quest’ultima, che deve
possedere un’intrinseca forza persuasiva, non potendosi certo esaurire nella
mera negazione di aver retribuito i dipendenti nei mesi di interesse.
Ciò premesso, si osserva che il ricorrente non ha fornito alcun elemento in
tal senso, ma si è limitato a contestare che l’istruttoria non avrebbe
compiutamente identificato i lavoratori in ordine ai quali l’omissione si sarebbe
compiuta Na.t.e—i12__sé_l.r.41txte,‘I né avrebbe accertato l’importo dovuto in
relazione a ciascun anno (Tdesumibili, invece, proprio da quei modelli DM10
valorizzati nella sentenza impugnata).
6. Manifestamente infondato, da ultimo, il terzo motivo.

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la residenza in Italia dell’imputato almeno dal 1998, nonché la nomina di un

Quanto alla pena, infatti, il ricorso si limita ad affermare che la stessa
«appare in ogni caso eccessiva»; orbene, ritiene il Collegio che questa non
costituisca una censura ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
ma una doglianza meramente assertiva e priva di ogni motivazione. La quale,
peraltro, in nulla contrasta l’adeguato e logico argomento sviluppato sul punto
dalla Corte di appello, che ha fatto riferimento al numero delle omissioni,
all’importo evaso non modesto ed ad un precedente penale a carico del Lu.
Negli stessi termini, poi, quanto alle circostanze attenuanti generiche, in

motivazione, richiamando gli elementi testé citati e l’assenza di altri, eventuali,
da valutare positivamente.
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 27/11/2014

Il

sigliere estensore

Il Presidente

ordine al cui diniego la sentenza gravata si connota per un’adeguata

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