Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49145 del 12/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 49145 Anno 2015
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: CALVANESE ERSILIA

SENTENZA

Sui ricorsi proposti da
1. Toscano Rinaldo, nato a Reggio Calabria il 15/03/1952
2. Minniti Giovanna, nata a Reggio Calabria 1’8/03/1956
avverso la sentenza del 21/10/2014 della Corte di appello di Reggio Calabria
visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paolo
Canevelli, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
udito per gli imputati, l’avv. Alberto Prassede Grimaldi, che ha concluso insistendo per
l’accoglimento dei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria riformava
parzialmente la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della medesima
città del 15 ottobre 2012 che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato Rinaldo Toscano
responsabile di vari episodi di millantato di credito e truffa e Giovanna Minniti responsabile del
reato di truffa, dichiarando nei confronti del Toscano per alcune delle imputazioni non doversi
procedere per intervenuta prescrizione (capi da 13 a 15) e, per l’effetto, rideterminando la
pena per le restanti imputazioni, e confermando nel resto.

Data Udienza: 12/11/2015

In sede di merito veniva evidenziato che il presente procedimento costituiva il secondo
troncone di indagini per fatti analoghi commessi dal Toscano tra il 2000 e il 2008 e per i quali
lo stesso era già stato condannato con sentenza definitiva.
Quanto alle odierne imputazioni, veniva accertato che, come riferito dalle parti offese, il
Toscano agiva con un collaudato modus operandi: agganciato il malcapitato di turno, sempre
persona bisognosa e alla ricerca per sé o i propri familiari, di un posto fisso di lavoro, si faceva
dare o promettere somme di danaro, spesso i risparmi di una vita o somme per le esigenze

funzionari, talvolta nominativamente indicati, presso il comune di Reggio Calabria, l’Inps,
l’Inail, l’USL, consiglieri regionali, la Prefettura, ovvero presso società a partecipazione
maggioritaria del Comune di Reggio Calabria, dei quali garantiva l’intervento finalizzato ad
assicurare l’assunzione presso pubblici uffici ovvero l’esito positivo di pratiche per il
riconoscimento della pensione di invalidità civile,
Alla Minniti, moglie del Toscano, era invece stato contestato di aver concorso con
quest’ultimo in un episodio di truffa, consistita nel farsi consegnare varie somme di danaro da
una persona, prospettando alla vittima di poter così accelerare la pratica di assunzione delle
figlie e di ottenere una falsa attestazione del pagamento dei canoni di locazione.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorrono per cassazione personalmente con atti distinti
entrambi gli imputati.
Toscano articola tre motivi di annullamento, e segnatamente:
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art.
346 cod. pen. (capi 1, 1-bis, 2, 5, 7, 8, 10, 12, 14, 16, 18, 19-bis, 20, 22, 23): la sentenza
impugnata avrebbe erroneamente ravvisato quali “referenti” delle millanterie soggetti privi
della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice di soggetti pubblici, non potendosi ritenere
tale il presidente del consiglio di amministrazione di società a capitale misto, neppure
richiamato nei capi di imputazione; inoltre non avrebbe preso in considerazione, come rilevato
nell’appello, che le condotte di millanteria sarebbero intervenute dopo la dazione o la promessa
di denaro.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 15,
640 e 346 cod. pen. (capi 3, 4, 6, 9, 11, 13, 15, 17, 19, 20-bis, 21, 24): la sentenza
impugnata avrebbe erroneamente ritenuto compatibile il concorso formale tra i reati di truffa
con quelli di millantato credito, sulla base della diversità dell’oggetto della tutela penale.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 61
n. 7 cod. pen. (capi 3, 4, 6, 9, 11, 13, 15, 21, 24): la sentenza impugnata, ai fini
dell’applicazione dell’aggravante de qua, ha erroneamente ritenuto che la rilevanza del danno
patrimoniale dovesse essere tratta dalle condizioni personali delle persone offese e valutan

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indispensabili, con il pretesto, il più delle volte, di dover comprare il favore di pubblici

tutte le fattispecie complessivamente. In ogni caso difetterebbero nella contestazione gli
elementi da cui trarre i presupposti di fatto necessari per l’esercizio del diritto di difesa.
Minniti ha dedotto tre motivi di annullamento e segnatamente:
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt.
110 e 640 cod. pen.: la sentenza impugnata avrebbe ravvisato il concorso dell’imputata solo
per la mera presenza dell’imputata sul luogo del delitto o per una non meglio precisata
supposta “cooperazione alla concretizzazione” del disegno criminoso realizzato dal marito, che

specie, il comportamento dell’imputata sarebbe stato meramente passivo, inidoneo ad
apportare alcun contributo causale alla realizzazione del delitto. Inoltre, le dichiarazioni della
parte offesa, sarebbero risultate prive di fondamento.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt.
61, n. 7 e 133 cod. pen.: la sentenza impugnata, ai fini dell’applicazione dell’aggravante

de

qua, avrebbe ritenuto che la rilevanza del danno patrimoniale dovesse essere tratta dalle
condizioni personali della persona offesa, in assenza di qualunque indagine sulle condizioni
economiche della vittima. In ogni caso difetterebbero nella contestazione gli elementi da cui
trarre i presupposti di fatto necessari per l’esercizio del diritto di difesa. Inoltre il giudice
dell’appello non avrebbe reso congrua motivazione con riferimento alla dosimetria della pena,
considerato che questa è stata determinata con discostamento sensibile dal minimo edittale.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 114 cod.
pen.: la sentenza impugnata avrebbe illogicamente escluso l’applicabilità dell’attenuante

de

qua, definendo decisivo il ruolo assunto dall’imputata, quando lo stesso era consistito nella
mera presenza della donna.
In data 15 ottobre 2015, l’avv. Alberto Prassede Grimaldi, difensore d’ufficio degli
imputati, ha presentato una memoria illustrativa dei motivi di ricorso, ribadendo le ragioni già
espresse nei ricorsi per l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi di entrambi gli imputati sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.

2. Il primo motivo di ricorso di Toscano è manifestamente infondato.
La millanteria che integra il reato di cui all’art. 346 cod. pen. può essere sia esplicita sia
implicita (tra tante, Sez. 6, n. 13479 del 17/03/2010, D’Alesio, Rv. 246734). In tale ultimo
caso, non è necessario che l’agente vanti espressamente credito presso un pubblico ufficiale o
presso un pubblico impiegato che presti un servizio pubblico, essendo sufficiente un
comportamento che ingeneri la ragionevole persuasione di essere in grado di potere usare un

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verrebbero a configurare tuttavia una mera connivenza penalmente irrilevante. Nel caso di

particolare ascendente sulle decisioni di organi della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 1400
del 16/11/1970 – dep. 19/01/1971, Merola, Rv. 116275).
E ciò in quanto, l’interesse primario tutelato dalla norma di cui all’art. 346 cod. pen. è il
prestigio della pubblica amministrazione, che è offeso quando un suo organo, anche se non
specificamente indicato, viene fatto apparire come corrotto o corruttibile o quando la sua
attività funzionale viene fatta apparire come ispirata a caratteri incompatibili con quelli di
imparzialità o correttezza cui la stessa pubblica amministrazione deve ispirarsi ex lege (tra

17/06/1999, Fatone, Rv. 214125).
Venendo al caso in esame, in cui è contestata tra l’altro esclusivamente o
congiuntamente la autonoma ipotesi di cui all’art. 346, comma 2 cod. pen., nella quale il
soggetto di cui si prospetta la remunerazione è un ufficiale o impiegato pubblico (l’art. 346
c.p., comma 2, non richiede, a differenza del comma 1, che l’impiegato pubblico svolga anche
un servizio pubblico), dall’accertamento compiuto dai giudici di merito emerge che la
millanteria, oltre ai casi in cui abbia fatto espresso riferimento a pubblici funzionari
nominativamente indicati (capi 12 e 14), aveva ad oggetto influenze su soggetti in grado di
consentire l’assunzione in pubblici uffici di coloro che si erano rivolti dall’imputato o la
certificazione del pagamento di canoni locatizi, che ragionevolmente non potevano che essere
soggetti che rivestivano la qualifica soggettiva prevista dalla norma incriminatrice, anche se
non espressamente indicati.
A ciò deve essere aggiunto che i giudici di merito hanno accertato che nel modus operandi
dell’imputato la persuasione di poter influire su soggetti pubblici veniva indotta con fittizie
telefonate al fantomatico funzionario pubblico, “dominus” della prospettata assunzione, ovvero
fissando appuntamenti presso il Palazzo del Comune per un colloquio propedeutico
all’assunzione.
Quanto al Presidente del REGES, società mista a partecipazione maggioritaria del Comune
di Reggio Calabria concessionaria del servizio tributi, la censura appare del tutto priva di
pregio, posto che nel capo di imputazione si fa espresso riferimento alla millanteria riferita ad
un funzionario del REGES e che l’attività di riscossione dei tributi va inquadrata nell’ambito
dell’esercizio di una pubblica funzione, come esattamente rilevato dai giudici a quibus, con
la conseguenza che va riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale a tutti i soggetti
pubblici e privati ai quali sono affidati compiti espressione dello svolgimento delle attività di
accertamento e riscossione dei tributi comunali.
Quanto alla censura relativa a condotte sussumibili in un post factum, la doglianza appare
inammissibile perché formulata in modo assolutamente generico, anche alla luce del fatto che
la sentenza impugnata esaminando le singole ipotesi delittuose di cui all’art. 346 cod. pen. ha
fornito esauriente risposta al riguardo (pag. 14 in ordine al capo 8).

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tante, Sez. U, n. 12822 del 21/01/2010, Marcarino, Rv. 246270; Sez. 6, n. 9425 del

3. Il secondo motivo di ricorso di Toscano è del tutto privo di pregio giuridico.
Va ribadito il principio di diritto secondo cui il reato di millantato credito può concorrere
formalmente con quello di truffa, stante la diversità dell’oggetto della tutela penale,
rispettivamente consistente nel prestigio della P.A. e nella protezione del patrimonio (tra tante,
Sez. 6, n. 9470 del 05/11/2009 – dep. 10/03/2010, Sighinolfi, Rv. 246399; Sez. 6, n. 35340
del 23/04/2008, Zocco, Rv. 241246, entrambe relative all’ipotesi di millantato credito di cui al

4. Palesemente infondato è anche il terzo motivo proposto da Toscano.
A prescindere dalla considerazione che, nella quantificazione della pena la circostanza
aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. non risulta menzionata espressamente dal giudice
dell’appello in relazione all’aumento per la continuazione per i reati satellite (la pena base è
stata infatti calcolata sul reato più grave di millantato credito di cui al capo 1), va evidenziato
che in sede di appello l’imputato aveva solo dedotto la carenza della motivazione sulla verifica
della situazione di fatto.
Pertanto, dovendo l’esame in questa sede essere limitato soltanto a tale profilo, si
osserva che la motivazione offerta dalla sentenza impugnata in ordine alla rilevante gravità del
danno cagionato è adeguata – avendo il giudice dell’appello evidenziato le condizioni
particolarmente disagiate in cui le singole vittime venivano a trovarsi (soggetti privi di
occupazione lavorativa e disponibilità economiche), e rispondente al principio secondo cui la
capacità economica del danneggiato costituisce legittimo parametro di valutazione ai fini della
configurabilità della circostanza aggravante de qua, cui è possibile ricorrere in via sussidiaria
nei casi in cui il danno sia di entità tale da rendere dubbia la sua oggettiva rilevanza (tra tante,
Sez. 2, n. 42351 del 24/10/2007, Claris P., Rv. 238761; Sez. 4, n. 5908 del 08/01/2013,
Spada, Rv. 255101).
Inammissibili sono le restanti censure in quanto, come sopra precisato, si tratta di
questioni non prospettate nei motivi di appello (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012 – dep.
07/03/2013, Bonaffini, Rv. 256631).

4. Generico e comunque manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso di Minniti.
La ricorrente non si confronta infatti con le ragioni esposte dal giudice di appello a
sostegno della decisione impugnata, che sul punto hanno fornito un’adeguata risposta alle
deduzioni difensive, senza incorrere in vizi logici o giuridici.
In ogni caso, va ribadito che il concorso nel reato può concretarsi non soltanto attraverso
atti che si inseriscono nel processo esecutivo materiale del reato medesimo, ma anche
attraverso atteggiamenti e comportamenti che costituiscono, comunque, contributi causali alla
realizzazione dell’evento. La presenza fisica allo svolgimento dei fatti si risolve in forma
concreta di cooperazione delittuosa, allorché si attui in modo da realizzare un rafforzame

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secondo comma dell’art. 346 cod. pen.).

del proposito dell’autore e dell’agevolazione della sua opera (tra tante, Sez. 1, n. 12089 del
11/10/2000, Moffa e altri, Rv. 217347).
La condotta dell’imputata infatti, lungi dal realizzare una mera presenza passiva agli
incontri del marito con la vittima, come dedotto nel ricorso, è consistita nella collaborazione
prestata a quest’ultimo attraverso la sua amicale presenza nell’avvicinare prima la vittima per
instaurare con essa un rapporto di amicizia (l’adescamento della vittima), propedeutico alla
realizzazione del progetto criminoso, e poi nel tranquillizzare la vittima negli incontri avuti

Ciò premesso, va ritenuto del tutto infondato anche il terzo motivo avanzato da Minniti in
ordine all’attenuante ex art. 114 cod. pen., in quanto, una volta così configurato il contributo
prestato dall’imputata nella realizzazione del progetto criminale del marito, non appare affatto
illogica, come sostenuto nel ricorso, la decisione della Corte adita di escludere l’applicazione
dell’attenuante de qua.
Va ribadito che quest’ultima è configurabile solo quando l’opera prestata da un
concorrente sia stata non solo minore rispetto a quella degli altri concorrenti, ma addirittura
minima, sì da aver esplicato un’efficacia eziologica del tutto marginale e quasi irrilevante nella
produzione dell’evento (tra tante, Sez. 2, n. 18582 del 07/04/2009, Zedda, Rv. 244445; Sez.
1, n. 26031 del 09/05/2013, P.G. e Di Domenico, Rv. 256035).
Del tutto generiche e implicanti valutazioni di merito sono infine le doglianze relative
all’attendibilità della parte offesa.

5. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso di Minniti.
In ordine alla doglianza relativa alla aggravante di cui all’art. 61, n. 7 cod. pen., anche per
la ricorrente va osservato che in appello si era censurata la motivazione della sentenza emessa
in prime cure

solo con riferimento alla omessa verifica delle condizioni per applicare

l’aggravante de qua.
Pertanto va ritenuta inammissibile ogni altra censura sul punto che lamenta il difetto di
motivazione.
Come già detto sub § 3, va evidenziato che la Corte distrettuale ha fornito puntuale
motivazione al riguardo, uniformandosi ai principi di diritto espressi da tempo da questa Corte
di legittimità.
Quanto alla dosimetria della pena, la censura è del tutto priva di fondamento, in quanto i
Giudici dell’appello hanno adeguatamente esposto le ragioni della decisione di mantenere
fermo il trattamento sanzionatorio nei confronti dell’imputata, facendo ricorso ai criteri stabiliti
dall’art. 133 cod. pen. per stabilire la gravità del reato, evidenziando in particolare che si
trattava di fatti di grave entità in quanto posti in essere nei confronti di soggetti
psicologicamente deboli a causa delle loro precarie condizioni economiche.

successivamente, sostenendo così il marito nell’esecuzione di detto progetto.

6. Per le considerazioni su esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati
inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali
ed al versamento ciascuno alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle
questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di euro mille.

P.Q.M.

e ciascuno a quello della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 12/11/2015.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali

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