Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 49133 del 29/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 49133 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: IPPOLITO FRANCESCO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
BATTAGLIA Lorenzo, n. a Palermo il 9/8/1954
contro la sentenza della Corte d’appello di Palermo del 23/4/2012;
– letti il ricorso e il provvedimento impugnato;
– udita la relazione del cons. F. Ippolito;
– udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore
generale, G. D’Angelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data
29 giugno 2011, con cui il giudice dell’udienza preliminare del locale tribunale,
all’esito di rito abbreviato, aveva condannato Lorenzo Battaglia, con il
riconoscimento del vincolo della continuazione e della circostanza attenuante di cui
all’art. 323-bis c.p., alla pena di due anni di reclusione per i delitti di peculato (art.
314 c.p.) e di rivelazione di segreto ufficio (art. 326 c.p.).

2. Il Battaglia, cancelliere in servizio presso il tribunale di Palermo, è stato
ritenuto colpevole di essersi appropriato di un contributo unificato di C 35 (fatto
commesso il 14 marzo 2008) e di una marca da bollo di C 14,62 (fatto commesso il
2 aprile 2008), nonché di aver fatto visionare, il 2 aprile 2008, tre fascicoli relativi a
ricorsi per decreto ingiuntivo, custoditi nel suo ufficio, a Francesco Bacile
(rappresentante della “Schiavi macchine Industriali s.p.a.), del tutto estraneo sia
all’ufficio giudiziario sia ai procedimenti visionati.

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Data Udienza: 29/10/2013

Le indagini erano stata avviate a seguito di denuncia del dirigente del ruolo
generale degli affari civili del tribunale, che aveva segnalato alla Procura della
Repubblica che erano stati rinvenuti cinque fascicoli, custoditi in armadi situati nel
corridoio, relativi a procedimenti monitori privi della nota di iscrizione a ruolo su cui
vengono applicati contributo unificato e marca di bollo. I fatti contestati e ascritti al
Battaglia erano stati poi accertati attraverso un servizio di videosorveglianza
attivata dai Carabinieri nell’ufficio del funzionario.

fiducia, che deduce:
a)

“violazione o falsa applicazione dell’art. 314 c.p. – insussistenza del danno
patrimoniale della pubblica amministrazione ed assenza di danno significativo al
buon andamento della pubblica amministrazione”;

b) “violazione dell’art. 192 c.p.p. e difetto di motivazione della sentenza” in ordine alla
ritenuta incidenza della condotta dell’imputato sull’attività complessiva della
cancelleria civile del tribunale di Palermo;
c)

“violazione dell’art. 326 c.p. – insussistenza del pericolo alla pubblica
amministrazione o a terzi derivanti dalla diffusione della notizia”.

Considerato in diritto

1. Premesso che i fatti accertati dai giudici di merito sono pacifici e non sono
contestati dal ricorrente, l’impugnazione non merita accoglimento.

2. Il primo motivo è infondato. Il delitto di peculato è integrato nel momento
in cui ha luogo l’appropriazione della “res” o del danaro da parte dell’agente, la
quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla
pubblica amministrazione, ***omunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato
dall’art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento
del suo operato (Cass. Sez. 6, n. 26476 del 09/06/2010, Rao, Rv. 248004; Sez. U,
n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190).

2. Assolutamente infondato è anche il secondo motivo che deduce la
violazione dell’art. 192 c.p.p., laddove non censura gli accertamenti e le valutazioni
fattuali operati dai giudici. Irrilevante, alla luce di quanto rilevato a proposito del
precedente motivo, risulta ogni questione relativa alla incidenza della condotta

2

3. Contro la sentenza ricorro per cassazione l’imputato, tramite difensore di

dell’imputato sull’attività complessiva della cancelleria civile del tribunale di
Palermo.

3. In relazione al capo B) dell’imputazione, il ricorrente assume che non
integra il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio l’aver fatto
prendere conoscenza dei ricorsi per decreto ingiuntivo al sig. Francesco Bacile, non
rientrando tali atti tra le “notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete” (art.
326 c.p.).

La disciplina del segreto d’ufficio per l’impiegato pubblico è prevista dall’art.
28 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che ha sostituito l’art. 15 del D.P.R. n. 3 del
1957 (testo unico degli impiegati civili dello Stato).
Tale norma non si limita a disporre l’obbligo di “mantenere il segreto
d’ufficio”, ma ne definisce anche l’ambito e l’estensione, specificando che
l’impiegato “non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti
provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di
cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e
delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso”.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema
di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio da parte degli impiegati dello Stato,
per notizie di ufficio che devono rimanere segrete si intendono non solo le
informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque,
ma anche quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso,
perché effettuata senza il rispetto delle modalità previste ovvero nei confronti di
soggetti non titolari del relativo diritto (Cass. Sez. 6, n. 9726 del 21/02/2013,
Carta, Rv. 254593; Sez. 6, n. 11001 del 26/02/2009, Richero, Rv. 243578; Sez. 6,
n. 30148 del 23/04/2007, Lazzaro, Rv. 237605).
Del resto, non c’è alcuna ragione per cui il contenuto della richiesta di un
decreto ingiuntivo – che ben può comprendere notizie personali “sensibili”
(economiche, finanziaria, sanitarie…) destinate, per necessità funzionale, alla
conoscenza della controparte e dei competenti magistrati e funzionari
dell’amministrazione giudiziaria – non dovrebbe godere della tutela rafforzata
prevista dalla norma penale, la quale punisce il pubblico ufficiale e la persona
incaricata di pubblico servizio che rivela notizie d’ufficio che debbano rimanere
segrete o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, violando i doveri inerenti alle
funzioni o al servizio.

3

L’assunto non può condividersi.

In proposito, mette conto sottolineare che l’art. 159 della legge 23 ottobre
1960, n. 1196, norma specificamente diretta al personale degli uffici giudiziari,
dispone che “il funzionario di cancelleria e segreteria e il dattilografo devono
osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia
diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a
operazioni o provvedimenti giudiziari o comunque amministrativi di qualsiasi natura
e dei quali siano venuti a conoscenza a causa del loro ufficio”.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Roma 29 ottobre 2013
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P.Q.M.

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