Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 48550 del 20/09/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 48550 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: GRASSO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
TRIESTE
nei confronti di:
CIGLIANI LIVIO N. IL 18/08/1970
avverso la sentenza n. 892/2012 TRIBUNALE di TRIESTE, del
05/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dot G USE3ti E GRASSO;
lette/spatittle conclusioni del PG Dott.

Data Udienza: 20/09/2013

,

RITENUTO IN FATTO

,

1. Il Tribunale di Trieste con sentenza del 5/11/2012, applicò a
Cigliani Livio, imputato del reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. c) del
codice della str., commesso il 4/6/2011, la pena sospesa concordata dalle
parti di mesi due e giorni dieci di arresto ed C. 934,00 di ammenda.

2. Il Procuratore Generale di Trieste proponeva ricorso per cassazione

aveva applicato una pena detentiva inferiore al limite minimo edittale, stante
che, collocandosi la condotta sotto l’impero della I. n. 120/2010, partendo
dalla pena detentiva minima di mesi sei di arresto si giunge, riconosciute le
attenuanti generiche nel massimo ed effettuata la riduzione massima del rito,
alla pena di mesi due e giorni venti di arresto. Viceversa, il Tribunale, pur
essendo correttamente partito dalla pena di mesi sei di arresto, ridotta a mesi
quattro per effetto delle attenuanti generiche, ha poi erroneamente fissato in
mesi due e giorni dieci la sanzione detentiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è fondato.
Esatte le osservazioni del P.G. ricorrente, appare evidente che, a causa di
materiale errore di calcolo il Tribunale, effettuando la riduzione per il rito in
misura superiore ad 1/3, ha finito con l’irrogare una sanzione illegale.
S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, senza che
per ciò venga meno il patto, con il quale le parti avevano concordato
applicarsi il minimo assoluto legalmente previsto per la pena detentiva, previo
riconoscimento nella sua massima estensione delle attenuanti generiche e
applicazione, anche in questo caso nel massimo, della diminuente del rito.
Trattandosi, in definitiva, di ipotesi nella quale questa Corte può
rimediare all’inconveniente, senza necessità di disporre rinvio o trasmissione
degli atti (art. 619, comma 2, cod. proc. pen.), non resta che rettificare, come
per legge, la pena in mesi due e giorni venti di arresto ed C. 934,00 di
ammenda, ferma ogni altra statuizione di cui all’impugnata sentenza.
Non ignora il Collegio che secondo un orientamento non minoritario
maturato in sede di legittimità si è affermato non essere possibile un
intervento rettificativo ex art. 619 c.p.p. da parte di questa Corte, tenuto
conto che l’accordo processuale formatosi tra le parti prevede una
determinata entità della pena che, se oggetto di una eventuale variazione,

lamentando con l’unitaria censura violazione di legge, in quanto il Tribunale

dovuta anche ad errore, dovrà essere risottoposta alla valutazione concordata
tra le due parti originarie; con la conseguenza che la illegalità della pena
comporta l’esclusione della validità dell’accordo siglato fra le parti del
processo e ratificato dal giudice (da ultimo, cfr. Cass., Sez. III, n. 1883/2012
del 22/9/2011, Rv. 251796).
Tuttavia, reputa questo Collegio che le ragioni poste a base dell’opposto
orientamento (cfr., tra le altre, Cass., Sez. V, n. 44711 del 3/10/2003, Rv.
227014) persuadono maggiormente in relazione alla concreta fattispecie qui al

è stata indicata in misura appena lievemente inferiore a quella risultante da
un corretto calcolo matematico e il giudice, non rilevando l’errore, ha
applicato la pena nella misura così indicata; risultando, per converso,
pienamente apprezzabile la reale volontà delle parti, tesa all’individuazione
della pena minima assoluta consentita dalla legge penale, applicando le
attenuanti generiche e la riduzione per il rito nella loro massima estensione
sul minimo edittale.
In definitiva, in fattispecie come questa, si mostra conforme ad una
interpretazione sistematica e teleologicamente orientata ritenere che,
evidenziato nitidamente il percorso logico attraverso il quale le parti hanno
individuato l’entità della sanzione sulla quale concordano, l’incongrua
indicazione della pena definitiva, contrastante con il risultato matematico,
derivante dall’applicazione di norma la quale inequivocamente impone
contenersi la riduzione nel limite di 1/3, debba attribuirsi ad un mero errore di
calcolo, che in alcun modo inficia o pone in dubbio la reale volontà negoziale,
diretta, come si è visto, a quantificare nel minimo assoluto legale la sanzione.
Inoltre, per ovvie ragioni, non è possibile ipotizzare che, travolto il patto,
l’imputato possa avere interesse ad un nuovo negozio per lui maggiormente
favorevole. Non può, del pari, congetturarsi che costui si sarebbe determinato
all’accordo sol perché convinto dall’entità della pena indicata in misura
illegale: dati i presupposti negoziati (pena edittale nel minimo, attenuanti
generiche e riduzione per il rito nel massimo) non era possibile, infatti,
giungere a diversa quantificazione, rispetto a quella legale, se non a causa di
un mero errore di calcolo, il quale, sulla falsariga dei principi generali in
materia di negozio giuridico (art. 1430, c.c.), non essendo determinante del
consenso, dà luogo solo a rettifica.
Infine, non ultima deve valutarsi l’esigenza di assicurare la soddisfazione
del principio della ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2, ultima
alinea, Cost.), assai pregnante in scelte processuali che denotano
inequivocamente la predilezione dell’imputato per una rapida fuoriuscita dal
processo penale.

2

vaglio, nella quale è di tutta evidenza che per mero errore di computo la pena

P.Q. M .

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla
determinazione della pena; pena che determina in mesi due e giorni venti di
arresto ed euro 934,00 di ammenda.

Così deciso in Roma 20/9/2013.

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