Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 48482 del 12/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 48482 Anno 2013
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Barzotti Denise, nata a Cagli il 27.10.1971 e da
Palanca Fabio, nato a Esch sur Alzette (Lussemburgo) il 19.9.1965;
avverso la sentenza emessa il 21 giugno 2012 dalla corte d’appello di Ancona;
udita nella pubblica udienza del 12 novembre 2013 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Francesco Salzano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Anna Marta Balestra;
Svolgimento de/processo
Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Ancona confermò la sentenza in data 08.11.2011 del giudice del tribunale di Pesaro, sezione distaccata di
Fano, che aveva dichiarato Barzotti Denise e Palanca Fabio colpevoli del reato di
cui agli artt. 181 d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e 44, lett. c), d.p.R. 6 giugno
2001, n. 380, per avere realizzato una cava abusiva di materiale ghiaioso con
scavo della profondità di circa metri 2 e una superficie di circa 1.530 mq con asportazione di circa 241 mc di ghiaia, ricadente in zona sottoposta alle tutele paesaggistiche di cui all’art. 142 comma 1 lett. c) d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 quale
fascia di rispetto del fiume Cinisco, in assenza della prescritta autorizzazione, e li
aveva condannati alla pena di giorni 20 di arresto ed E 21.000,00 di ammenda,
con la sospensione condizionale della pena.
Gli imputati, a mezzo dell’avv. Anna Marta Balestra, propongono ricorso
per cassazione deducendo:
1) mancanza o manifesta illogigità della motivazione per avere il giudice
non considerato o travisato alcune escussioni testimoniali, in relazione alla rit

,1L

Data Udienza: 12/11/2013

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nuta colpevolezza degli imputati per il reato contestato. Lamentano che la corte
d’appello ha omesso di rispondere alle numerose ed analitiche deduzioni formulate nei motivi di gravame e di prendere in esame risultanze probatorie pacifiche e
fondamentali, le quali avevano spiegato pienamente la circostanza relativa allo
scavo effettuato sul terreno in questione. Invero, la corte d’appello ha ritenuto
non convincente quanto affermato dal geom. Paci poiché il suo accesso si era verificato in un momento successivo al ripristino ed ha posto a fondamento della
sua decisione quanto dichiarato dalla teste del P.M. Manocchi, la quale anche però, pur recatasi in loco, non aveva appurato de visu la violazione contestata. Anche l’accertamento volto a verificare se e quanto i lavori avevano interessato la
zona sottoposta a tutela, è stato effettuato successivamente al rilievo, semplicemente sovrapponendo delle cartografie per giunta riproduttive dei luoghi in scale
differenti.
2) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonché inosservanza
ed erronea applicazione dell’art. 181, comma quinquies d.lgs. 42/04 con riferimento all’invocata estinzione del reato. Lamentano che la corte d’appello non ha
fornito alcuna valida argomentazione giuridica al fine di escludere che il vincolo
del sequestro, cui era sottoposta l’area de qua, non costituiva legittimo impedimento alla spontanea attività di ripristino, stante il fatto che la predetta misura
cautelare era stata applicata contestualmente alla verifica della violazione. Vi era
quindi una concreta impossibilità di agire.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato non essendo riscontrabili nella motivazione della
sentenza impugnata i vizi dedotti dai ricorrenti.
Quanto al primo motivo, invero, la sentenza impugnata ha, con congrua ed
adeguata motivazione, fondato la dichiarazione di responsabilità degli imputati
sulle dichiarazioni testimoniali dell’agente di polizia provinciale Manocchi Tania e del tecnico comunale Landini Fabio. Ha in particolare osservato la sentenza che, a fronte delle argomentazioni del consulente di parte geom. Paci Maurizio, che, come si desumeva dalla sua relazione in data 25.01.2010, aveva svolto
accertamenti in loco quando ormai, con il ripristino nel suo stato originario del
terreno agricolo interessato dalla estrazione, la situazione del luogo era mutata,
la teste Manocchi aveva riferito di avere riscontrato de visu uno sbancamento
della profondità in alcuni punti da mt 6 (nella zona non soggetta al vincolo paesaggistico), fino a 1 metro circa (nella zona di rispetto del fiume); mentre il geom. Landini aveva precisato che la distanza rispetto al corso d’acqua era stata
calcolata attraverso le elaborazioni planimetriche, e sovrapposizione della cartografia rappresentativa del vincolo paesaggistico, con inquadramento generale
scala 1 a 10.000, e planimetria di dettaglio riscontrando che alcuni di questi
punti erano all’interno della fascia di mt 150 di rispetto. Ha quindi osservato la
corte d’appello, sempre con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, che la mancanza
di autorizzazione alla esecuzione del lavoro si era tradotta in una modifica non
trascurabile dell’assetto paesaggistico della zona, anche nella zona interessata
dal vincolo della distanza dal corso di acqua; e che il mutamento non poteva essere relegato all’ambito di un modesto cedimento del terreno verificatosi a ri- iit.,…._

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i

dosso dell’area non soggetta a vincolo, a causa della asserita scarsa solidità e
compattezza del terreno stesso.
Quanto al secondo motivo, la corte d’appello ha correttamente ritenuto non
applicabile la speciale causa estintiva del reato ambientale di cui all’art. 181,
comma 1 quinquies, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per il motivo che la rimessione in pristino dello stato dei luoghi non era stata eseguita spontaneamente,
ma su impulso dell’autorità amministrativa esplicatosi attraverso l’ordinanza di
ripristino. Erano poi irrilevanti gli argomenti difensivi basati sul vincolo del sequestro che avrebbe costituito un impedimento di fatto al ripristino spontaneo,
ovvero sulla difficoltà di reperire il materiale ghiaioso qualitativamente idoneo,
che avrebbe anch’essa impedito il ripristino, in quanto si trattava di limiti che
sarebbero stati rimovibili in funzione di una attività di rimessione in pristino
dello stato dei luoghi e che comunque avrebbero potuto avere rilievo prima della ordinanza impositiva. L’istanza di dissequestro, invece, era successiva alla
ordinanza di ripristino.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 12
novembre 2013.

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