Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 48341 del 07/10/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 48341 Anno 2015
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: PALLA STEFANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LO PRESTI CALOGERO N. IL 13/12/1952
DI GIOVANNI TOMMASO N. IL 07/06/1966
MILANO NICOLO’ N. IL 28/05/1974
PUTANO FRANCESCO PAOLO N. IL 24/03/1975
ZARCONE ANTONINO N. IL 26/06/1971
BUCCHERI GABRIELE N. IL 10/03/1979
PARISI GASPARE N. IL 29/06/1977
TOSCANO FABRIZIO N. IL 16/01/1988
TOSCANO GIOVANNI N. IL 15/10/1960
TERIACA FILIPPO N. IL 22/04/1957
MANNINO GIOVANNI N. IL 15/10/1986
avverso la sentenza n. 954/2014 CORTE APPELLO di PALERMO, del
03/11/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/10/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. STEFANO PALLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. F. *R.
che ha concluso per l’e
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T.G i (ovre. GR°0v-enivvr.:.
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Data Udienza: 07/10/2015

FATTO E DIRITTO

Con sentenza 10.6.13 il G.u.p. di Palermo condannava Toscano Fabrizio e Mannino Giovanni,per i reati di
cui agli artt.81 cpv., 110, c.p. e 73, commi 1 e 6, I.stup. (capo f); rapina aggravata in concorso (capo i);
lesioni personali in concorso (capo l); furto aggravato in concorso (capo m), nonché ancora Toscano

personali in concorso (capo o), tutti unificati dal vincolo della continuazione; Teriaca Filippo per il reato di
cui al cpv. dell’art.378 c.p. (capo t) , alle pene ritenute di giustizia, oltre le pene accessorie di legge e
Toscano Fabrizio e Mannino Giovanni anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile Russo
Giuseppa, in relazione alle condotte di cui al capo m), liquidati in complessivi C 10.000,00.
Con sentenza 18.7.13, il G.u.p. di Palermo condannava Lo Presti Calogero (detto ‘Pietro’), Di Giovanni
Tommaso, Milano Nicolò, Putano Francesco Paolo, Zarcone Antonino, Buccheri Gabriele e Parisi Gaspare,
per il reato di associazione mafiosa pluriaggravata (capo A); Lo Presti anche per due reati di tentata
estorsione aggravata continuata, in concorso (capi B e C); Di Giovanni anche per i reati di cui all’art.74
I.stup. (capo D); 56, 81 cpv., 110, 648-bis c.p. e7 d.l.n. 152/91 (capi E e F), tutti unificati dal vincolo della
continuazione e ritenuta la recidiva così come contestata, alle pene di giustizia, oltre le pene accessorie di
legge, la misura di sicurezza della libertà vigilata per il periodo di almeno tre anni,e il risarcimento, in solido,
dei danni cagionati alle costituite parti civili, riconoscendo in favore del Comune di Palermo una
provvisionale di C 100.000,00 e alle altre parti civili di C 10.000,00.
Veniva dal g.u.p. ricostruito il quadro probatorio derivante, precipuamente, dalle indagini dei Carabinieri di
Palermo relativamente ad alcuni soggetti ritenuti appartenenti al mandamento mafioso di ‘Porta Nuova’,
attribuendosi rilievo agli esiti delle disposte intercettazioni telefoniche ed ambientali, alle dichiarazioni
della collaboratrice di giustizia Vitale Monica, a riscontro degli accertamenti dei carabinieri, nonché delle
dichiarazioni dei collaboranti Casano Angelo, Manno Fabio e Giordano Salvatore, soggetti intranei
all’organizzazione mafiosa in argomento.
Con sentenza 3.11.14, la Corte di appello di Palermo, previa riunione dei due procedimenti per ragioni di
connessione oggettiva, in parziale riforma della sentenza 10.6.13, assolveva Toscano Fabrizio e Mannino

Fabrizio, Mannino Giovanni e Toscano Giovanni, per i reati di concorso in rapina aggravata (capo n); lesioni

Giovanni dall’imputazione di cessione di due dosi di sostanza stupefacente a Sallitto Girolamo (capo f), per
– non aver commesso il fatto; dichiarava non doversi procedere nei confronti del Mannino in ordine alla
cessione di sostanze stupefacenti a Sìmonetti Carlo (capo f) per il vincolo del precedente giudicato ;
qualificati i residui fatti di reato di cui al capo f) ai sensi del comma 5 dell’art.73 I.stup. come modificato
dalla I.n.10/14, rideterminava la pena per il Toscano in anni 5, mesi 9 di reclusione ed C 2.600,00 di multa e

per Mannino, esclusa la natura reiterata della già contestata recidiva, in anni cinque, mesi otto di reclusione
ed C 2.400,00 di multa; riduceva a Teriaca la pena inflitta ad anni uno e mesi otto di reclusione e
confermava nel resto la sentenza appellata.
In parziale riforma della sentenza 18.7.13, la Corte palermitana, escluse le aggravanti di cui ai commi 4 e 6
dell’art.416-bis c.p. (capo A), in quanto non contestate, rideterminava la pena per Lo Presti in anni 11 e
mesi 4 di reclusione; riqualificati i fatti ascritti a Di Giovanni Tommaso al capo D) ai sensi del comma 6
dell’art.74 I.stup. e ritenuti assorbiti nel capo A) i fatti al medesimo contestati ai capi E),F), rideterminava la
pena per i residui reati in anni 12 di reclusione; rideterminava in anni sei di reclusione la pena inflitta a
Milano Nicolò; esclusa la natura reiterata della già contestata recidiva rideterminava la pena complessiva
inflitta a Putano in anni 12 di reclusione (di cui anni 8 per il più grave reato sub A ed anni 4 per la già
riconosciuta continuazione con il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso di cui alla sentenza
23.1.03 della Corte di assise di appello di Palermo, irrevocabile il 14.5.04 ); concesse a Zarcone le attenuanti
generiche prevalenti sulla contestata recidiva, rideterminava la pena inflitta al prevenuto in anni 6 di
reclusione; rideterminava in anni 8 di reclusione la pena inflitta a Buccheri; in anni 8 e mesi 8 quella inflitta
a Parisi e confermava nel resto l’appellata sentenza.
Tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.
Lo Presti Calogero, a mezzo del proprio difensore, deduce, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata
sentenza, con il primo motivo violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p., in relazione all’art.416bis c.p., lamentando come a suo carico non vi siano elementi idonei, ai sensi dei commi 2 e 3 dell’art.192
c.p.p., a dimostrare la sua partecipazione all’associazione mafiosa di cui al capo A) dell’imputazione, dal
momento che il vincolo parentale con taluno dei coimputati non poteva costituire elemento idoneo e
sufficiente al riguardo, rappresentando solo un elemento meramente suggestivo, tanto che la sua c.d.

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’riscontrata assenza’ nell’ambito del contesto mafioso, indicata dai carabinieri, non costituiva una
-. ‘manovra’ al fine di sottrarsi alle indagini, quanto invece indicava la sua estraneità alla mafia.
Mancavano — prosegue il ricorrente — elementi probatori attestanti a suo carico il ‘giuramento di mafia’ o
comunque dimostrativi del suo impegno di mettersi al servizio dell’organizzazione mafiosa, ma la Corte di
appello non aveva reputato indispensabile il giuramento di mafia ed aveva omesso di considerare le

doglianze formulate con l’atto di impugnazione circa la insussistenza dei c.d. facta concludentia, come pure
non aveva fornito risposta circa la sussistenza dell’elemento soggettivo, cioè del dolo specifico sempre
negato dall’imputato e che non poteva essere confuso con la mera partecipazione a singoli ed eventuali
fatti contingenti od episodici, non destinati a dare efficacia al mantenimento in vita dell’associazione
mafiosa o al perseguimento dei suoi scopi.
Quanto al contenuto delle intercettazioni, la conversazione del 16.9.10, riguardante tale Gagliano Giusto,
non consentiva di dimostrare che egli stesse chiedendo il pagamento del ‘pizzo’, trattandosi di opinione
soggettiva dei giudici al di fuori dei corretti criteri di valutazione della prova, mentre le propalazioni della
collaborante Vitale Monica erano inidonee a fini probatori, provenendo da soggetto estraneo alla mafia e
prive dei necessari riscontri, come pure quelle del collaboratore Manno Fabio, del tutto difformi da quelle
rese dalla Vitale, tanto che in base alle dichiarazioni di quest’ultima l’organigramma mafioso ricostruito
dalla sentenza di primo grado non comprendeva il Lo Presti.
Generiche e lecite erano poi le conversazioni captate nei locali di via Della Rovere 3, concernendo svariati
argomenti di contenuto familiare, in cui il termine ‘zio’ esprimeva un legame parentale, che il primo giudice
aveva confuso con il termine ‘zu’ sì da riferii° ad ambiente mafioso, a nulla rilevando che nella
conversazione del 15.9.10 (progr.620) ci si riferisse a taluni parenti detenuti, mai parlandosi della
commissione di reati, ma solo di fatti familiari.
Ad analoghe conclusioni doveva pervenirsi, secondo il ricorrente, anche con riferimento al contenuto della
conversazione intercettata tra Lo Presti e Rovetto Matteo, ex agente della Polizia di Stato che coltivava un
terreno adiacente alla stalla del Lo Presti e che, salutatolo cordialmente, come avviene tra vicini, gli aveva
regalato un mazzo di verdura per poi limitarsi ad un pour parler non certo significativo in termini di
appartenenza dell’imputato a ‘Cosa nostra’, mentre il contenuto della conversazione intercorsa il 6.12.10

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tra Castello e Bellini sì riferiva ad un pranzo presso il ristorante di Piazza Ingastone di Palermo, che la p.g.
” aveva indicato come un ‘evento straordinario’ al quale avrebbero partecipato elementi di spicco della
mafia, tra cui esponenti dei tre diversi mandamenti di Pagliarelli, Porta Nuova e Uditore, nominativamente
indicati, ma non il Lo Presti, privo quindi di un ruolo di spicco nella associazione o anche di semplice sodale.
Inoltre, dalle indagini patrimoniali non erano emerse disponibilità economiche dell’imputato, mentre la

Corte di appello di Palermo-sezione delle misure di prevenzione, nella sua ordinanza 27.5.09, aveva
affermato che non sussistevano elementi indiziari idonei a dimostrare l’appartenenza mafiosa di Lo Presti
Calogero, ma i giudici di appello avevano, con motivazione generica, ritenuto plausibile .
Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione con riferimento
al reato di tentata estorsione in concorso con Auteri Giuseppe, di cui al capo B) in danno di Gagliano Giusto,
dal momento che quest’ultimo, nel corso della conversazione intercettata, aveva manifestato solo
l’intenzione di rilevare la gioielleria Dipaola, senza altro aggiungere, e l’esistenza del fatto estorsivo si
basava esclusivamente sull’opinione dei giudici, in carenza di prove idonee ai fini della condanna.
Analoghe doglianze concernono l’episodio estorsivo di cui al capo C), dal momento che la conversazione
ambientale intercettata il 16.9.10 non consentiva, secondo la difesa, di ritenere provato né il tentativo di
estorsione in danno della società che aveva in esercizio la realizzazione della fiction ‘Squadra Antimafia’, né
la partecipazione al fatto del Lo Presti, così come del coimputato Auteri Giuseppe, in quanto difettavano
elementi idonei a dimostrare sia che Teriaca Filippo fosse stato avvicinato da Lo Presti Calogero o da altro
soggetto da questi incaricato, sia che il ‘Filippo’ che sarebbe stato in grado di assicurare gli interessi
dell’associazione mafiosa sul set della fiction fosse da individuarsi in Teriaca Filippo, tanto che i giudici del
riesame avevano annullato l’ordinanza custodiale emessa, per il reato di cui all’art.378 c.p., nei confronti
del Teriaca per la carenza dei presupposti di cui all’art.273 c.p.p., con conseguente valore escludente anche
a favore del Lo Presti.
Con il terzo motivo si deduce violazione di legge, in relazione agli artt.99 e 63 comma 2 c.p., per la mancata
esclusione dell’aumento di pena dipendente dalla contestata recidiva per il concorso con altra circostanza

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aggravante ad effetto speciale più grave, che rende applicabile solo la pena prevista per la circostanza più
grave.
Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art.606, comma 1, lett.c) c.p.p. per avere la Corte territoriale
adottato disposizioni risarcitorie in favore di una serie di Enti ed Associazioni che avevano esercitato
l’azione civile nel processo penale .
Di Giovanni Tommaso, a mezzo dei propri difensori, deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606,
comma 1, lett.b) ed e) c.p.p., con riferimento ai decreti autorizzativi delle intercettazioni n.272/10 ; 140/10
e 34/11, il primo dei quali, seguito da quello di convalida del g.i.p., conteneva un mero richiamo all’allegata
nota di p.g. dell’8.2.10, senza alcuna indicazione da cui desumere che p.m. e g.i.p. avessero preso visione e
meditato il contenuto di tale atto, facendolo proprio, mentre erano mancanti i decreti di convalida dei g.i.p.
relativi alle riprese video effettuate nei pressi della rivendita di carne del Di Giovanni (decreto n.140/10) e
nella polleria Di Marco di via Paimerino (decreto n.34/11), definite dai g.u.p. ‘intercettazioni video’,
ammesse e qualificate erroneamente come ‘produzioni documentali’, in violazione di quanto statuito dalla
sentenza ‘Prisco’ delle Sezioni unite della Cassazione in data 28.7.06 che, nel ritenere necessario il
provvedimento motivato dell’a.g. se le riprese attengono — come nel caso in esame — a luoghi ‘riservati’, ha
stabilito che solo le videoriprese effettuate al di fuori del procedimento penale costituiscono dei documenti
che seguono la disciplina prevista dall’art.234 c.p.p.
Pertanto — secondo il ricorrente — dovevano ritenersi inutilizzabili le immagini intercettate, con la
conseguenza che i ‘sufficienti indizi’ che si sarebbero dovuti desumere dalla nota di p.g. 8.2.10 erano
costituiti da dati inutilizzabili e quindi inidonei a legittimare il nuovo provvedimento di autorizzazione alle
intercettazioni, come pure i vari decreti di proroga, mentre i decreti autorizzativi del p.m. erano inoltre
motivati anche in base alla supposta urgenza di procedere ex art.267, comma 2, c.p.p., fondata
esclusivamente sulla ‘natura dei reati’ e sull’attività ‘in corso’, senza alcuna concreta contezza delle ragioni
di urgenza, al di là di una cartolare indicazione della tipologia dei reati.

scrittura autenticata dalle persone offese, in numero superiore a quello di uno espressamente fissato dalla

Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p. assumendosi che
l’animo del g.u.p. non era sereno ed imparziale in quanto nel corso dell’udienza preliminare celebratasi nei
confronti di trenta imputati per il delitto di cui all’art.416-bis c.p., undici imputati avevano formulato la
richiesta di giudizio abbreviato, mentre per i restanti diciannove, previa separazione del processo, era stato
emesso il decreto che dispone il giudizio dal medesimo giudice, il quale aveva proposto poi istanza di

astensione, che era stata rigettata, mentre l’istanza di ricusazione proposta dalla difesa era stata dichiarata
inammissibile dalla Cassazione.
In ogni caso — evidenzia la difesa del ricorrente — era illogica la motivazione della sentenza impugnata nella
parte in cui faceva discendere il ruolo direttivo del Di Giovanni nell’associazione dal grado di parentela, per
avere ereditato il ruolo di ‘capo’ del mandamento di Porta Nuova dal fratello Gregorio, il giorno successivo
all’arresto di quest’ultimo, poi condannato però come semplice partecipe dell’associazione.
Neppure era logica l’affermazione della Corte palermitana secondo cui il Di Giovanni avrebbe condiviso il
ruolo di capo mandamento con lo zio Lo Presti Calogero, ma non con Milano Nicolò dal momento che
secondo i giudici di appello era improbabile che la ‘reggenza’ si potesse estendere a quest’ultimo in forma
di triumvirato, anche perché — sottolinea la difesa – secondo le rigide regola e la storia di ‘Cosa nostra’
delineatasi nel corso dei processi celebratisi per anni, non era possibile ipotizzare che
contemporaneamente vi fossero più soggetti con il medesimo ruolo direttivo in grado di operare nello
stesso territorio.
Non vi erano peraltro elementi da cui desumere che il Di Giovanni avesse agito da ‘dirigente’, mentre le
propalazioni dei collaboratori di giustizia Manno, Casano e Vitale, nei confronti del prevenuto, erano
connotate da vaghezza manifesta e assoluta genericità, in assenza di riscontri esterni, soggettivamente
individualizzanti, e dunque inidonee a dimostrare l’inserimento stabile ed attivo di Di Giovanni Tommaso,
con il ruolo direttivo, nelle dinamiche operative e gestionali della famiglia mafiosa di Porta Nuova, anche
perché Di Giovanni avrebbe fatto parte dell’associazione mafiosa a decorrere dal 25.10.10, mentre Casano
Angelo, arrestato nel 2006, aveva iniziato la sua collaborazione nel 2008 e Manno Fabio, detenuto dal
dicembre del 2008, aveva iniziato a collaborare nel febbraio del 2009 ed entrambi, alla data del 25.10.10,

G

erano detenuti e quindi non in grado di riferire alcuna informazione processualmente utile a sostenere
– l’accusa in danno del Di Giovanni.
Inverosimili erano poi le propalazioni della Vitale, che aveva iniziato a collaborare per timore di essere
uccisa e, dopo aver riconosciuto in fotografia il Di Giovanni nel corso dell’interrogatorio del 14.10.11, aveva
affermato che si erano sempre odiati, ma nulla aveva riferito per conoscenza diretta, fondandosi le sue

a Casano e Manno, rappresentato dal ruolo di capo mandamento assunto dal Di Giovanni dopo l’arresto del
fratello Gregorio.
Tale ruolo era stato attribuito all’imputato dai giudici di appello che avevano ripercorso la medesima
interpretazione data dal g.u.p. alle conversazioni intercettate, non considerando le censure difensive ed
evidenziando solo alcuni passaggi delle trascrizioni, limitandosi a riportare tutte le intercettazioni indicate
nell’ordinanza di custodia cautelare, ma omettendo di sottoporre a particolare attenzione alcuni dati che,
se valutati correttamente, avrebbero consentito di qualificare come irrilevanti ed inconducenti le
conversazioni captate dalle microspie, dal momento che la Corte distrettuale aveva ignorato che le
conversazioni avevano tutte ad oggetto dialoghi con zie, cugine, sorelle ed i detenuti di cui si parlava erano
stretti familiari (il fratello Gregorio, il cugino Tommaso Lo Presti, il cognato Giovanni Di Salvo), senza che il
Di Giovanni si occupasse di elargire le c.d. ‘mesate’ ad estranei, limitandosi a prestare il suo sostegno
economico e personale a familiari dei suoi parenti detenuti, come nel caso della conversazione tra il Di
Giovanni e la zia Dainotti Francesca Paola, madre di Lo Presti Tommaso, che aveva più volte invocato l’aiuto
al nipote ‘Masino’.
Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p., con riferimento all’art.74,
commi 1,2 e 6 del d.P.R. n.309/90, per avere la Corte — che pure aveva ritenuto configurabile l’ipotesi
delittuosa attenuata — ritenuto provata la sussistenza di un’associazione, organizzata e finanziata da Di
Giovanni Tommaso e distinta da quella di stampo mafioso sempre dal medesimo capeggiata, dedita al
traffico di sostanze stupefacenti, operante tra l’ottobre 2010 e l’aprile del 2011, con motivazione solo
apparente e disancorata dai dati fattuali e temporali.

accuse su fatti appresi de relato e da notizie di organi di stampa, cui aveva aggiunto il tema nuovo, rispetto

La sentenza impugnata, infatti, non aveva individuato nessuno dei necessari elementi specializzanti richiesti
– per la configurazione delle due distinte associazioni a delinquere, pervenendo ad un giudizio di
colpevolezza del Di Giovanni solo attraverso una lettura distorta dei dati probatori ed in assenza di elementi
dimostrativi del finanziamento da parte del predetto per l’acquisto e la successiva vendita di un solo
grammo di sostanza stupefacente ovvero dell’attività di direzione, coordinamento o controllo dell’attività

dell’associazione.
Dalla conversazione 25.9.10, tra Lo Presti Calogero e Rovetto Matteo emergeva la assoluta mancanza di
interesse del Di Giovanni al traffico di droga che avveniva a Piazza lngastone, anche perché detta
conversazione era precedente la data di costituzione della presunta associazione, operante tra l’ottobre
2010 e l’aprile 2011, ed alla stessa non aveva fatto seguito alcuno spostamento da parte del Di Giovanni,
presunto direttore dell’associazione, della dislocazione, come gli sarebbe stato suggerito dal Rovetto, degli
spacciatori per vanificare i controlli delle Forze dell’ordine, mentre dalla conversazione del 15.10.10 —
ritenuta dai giudici di merito significativa in termini accusatori — risultava evidente la mancanza assoluta di
elementi da cui desumere che argomento del discorso fossero cessioni di sostanza stupefacente e che
riguardassero il Di Giovanni.
Infine — conclude sul punto la difesa — Vitale Monica aveva riferito di fatti accaduti nel 2011, mentre Manno
nulla aveva riferito circa l’associazione dedita al traffico di droga posta in essere dal Di Giovanni unitamente
a Parrino, Lo lacono, Toscano e Mannino e costituiva una evidente anomalia l’affermazione di
responsabilità del Di Giovanni per un reato associativo realizzato senza la partecipazione dei venditori al
dettaglio della sostanza stupefacente.
Con il quarto motivo si deduce la violazione del divieto di reformatio in peius per avere la Corte territoriale
determinato la pena base, pur escludendo le aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art.74 I.stup., in misura
superiore (anni 12) al minimo edittale che, in base al comma 2 dell’art.416-bis c.p., avrebbe dovuto essere
di anni 9.
Con il quinto motivo si lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, per essere la
‘draconiana’ severità nella dosimetria della pena stata affidata a considerazioni metagiuridiche che non
avevano avuto riguardo invece al corretto contegno processuale dell’imputato.

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Con motivi nuovi, depositati il 21.9.15, la difesa di Di Giovanni ha reiterato le doglianze relative alla
– inadeguata analisi del materiale probatorio relativamente alla associazione di cui all’art.74 I.stup.,
lamentando la totale assenza di motivazione circa la condotta concretamente posta in essere dall’imputato
nell’interesse dell’associazione nell’arco di tempo individuato dall’imputazione (ottobre 2010-aprile 2011) e
la dogmatica affermazione dell’esistenza di una tale organizzazione, composta da Di Giovanni, Parrino !vano

tra Rovetto e Lo Presti e quella del 15.10.10 tra Parrino, Toscano e Di Giovanni), il cui portato probatorio
era stato palesemente travisato dai giudici di merito che ne avevano fornito una indicazione del tutto
difforme dal vero, apoditticamente affermando quanto alla seconda che gli interlocutori facessero
riferimento a crediti da recuperare per forniture effettuate di sostanze stupefacenti e senza che alla prima
avesse fatto seguito un episodio nella gestione ed organizzazione della presunta associazione.
Con riferimento alla pena irrogata si lamenta che la Corte di merito abbia elevato la pena base ad anni 13 di
reclusione, mentre dal primo giudice era stata fissata in anni 12, con violazione quindi del divieto di

reformatio in peius, evidenziandosi inoltre che, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art.99,
comma 5, c.p. (recidiva reiterata contestata al Di Giovanni), di cui alla sentenza della Corte costituzionale
n.185 del 2015, è venuta meno l’obbligatorietà dell’aumento di pena anche nell’ipotesi di esistenza di un
solo precedente, lontano nel tempo e di poca gravità, con la conseguenza che essendo detta recidiva stata
applicata al Di Giovanni sulla base del precedente penale e della gravità del reato contestato sub A), al
giudice di merito è attribuito il compito di valutare se meriti risposta punitiva puntuale il riscontro di una
accentuata colpevolezza e di una peculiare pericolosità e non limitarsi a far riferimento al solo precedente
penale.
Milano Nicolò deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p. per avere i
giudici di merito valorizzato

in malam partem piccoli frammenti probatori, aventi per lo più carattere

indiziante, al fine di corroborare l’asserito perpetrarsi di condotte attive e fattive del Milano, riflettenti la
sua appartenenza all’organizzazione denominata ‘Cosa nostra’, illogicamente ritenendo che i meri dati
indiziari scaturenti da una sola conversazione fossero sufficienti ad accreditare un ruolo attivo del
prevenuto in seno all’organigramma.

e Lo lacono Antonino, ritenuta tale solo sulla base di alcune conversazioni intercettate (quella del 25.9.10

Dalla intercettazione ambientale dell’8.3.11, captata nella polleria di via Palmerino, di pertinenza del Di
– Marco, invece, emergeva la totale insufficienza, a motivo del contenuto equivoco, per pervenire ad un
giudizio di colpevolezza, trattandosi di conversazioni in cui gli interlocutori affrontavano svariati argomenti,
riguardanti il sistema assistenziale predisposto per i familiari dei detenuti, i possibili guadagni nella
costruzione di appartamenti, l’acquisto di terreni edificabili, ma non potevano scorgersi in esse pretese

condotte indicative della ricorrenza del vincolo associativo, quali la imposizione del ‘pizzo’, in assenza della
prova della commissione di reati-fine e della individuazione di comportamenti concreti espressione di un
inserimento strutturale dell’imputato nell’associazione.
Si era trattato – prosegue la difesa – di contatti e/o conoscenze con alcuni soggetti che non potevano
ritenersi indicativi dell’assunzione di un ruolo dinamico e funzionale dell’imputato nel sodalizio criminoso,
attesa l’assenza di un’adeguata verifica della ricorrenza di elementi ulteriori, ex art 192, comma 2, c.p.p.,
dai quali poter legittimamente inferire la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, mancando la prova
di quei comportamenti specifici tali da poter affermare il preteso ruolo attivo e dinamico ascritto
all’imputato.
Con il secondo motivo si censura la violazione del disposto di cui all’art.597 c.p.p. poiché, escluse le
aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art.416-bis c.p. dalla Corte di appello ed escluso già dal primo giudice il
comma 2 dell’art.416-bis c.p., si sarebbe dovuta applicare la pena di cui al comma 1 dell’art.416-bis c.p., nel
minimo edittale di anni sette di reclusione e non quella di anni nove stabilita dal giudice di appello (poi
ridotta per il rito ad anni sei), con pena finale quindi di anni 4 e mesi 8 di reclusione.
Putano Francesco Paolo deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p.,
in relazione all’art.416-bis c.p., per avere i giudici di appello pedissequamente riproposto le argomentazioni
svolte dal giudice di primo grado.
Se pure, infatti, il Putano era stato condannato, per violazione dell’art.416-bis c.p., con sentenza
irrevocabile in data 14.5.04, con riferimento alle condotte riferite al successivo preciso arco temporale la
Corte palermitana aveva ritenuto sufficiente la semplice somma aritmetica delle risultanze probatorie,
rappresentate da alcune sparute captazioni ambientali, pervenendo ad una conclusione puramente
assertiva circa il perpetrarsi di condotte ulteriori addebitabili al Putano, avendo la Corte di appello fatto

<0 riferimento precipuo al contenuto di circa quattro conversazioni ambientali captate all'interno della - tabaccheria dì Palermo gestita da Bellino Giuseppe, nel gennaio del 2011, alle quali o lo stesso Putano si era limitato ad assistere ovvero non era stato neppure presente, ma ciò nonostante i giudici avevano illogicamente ritenuto che il 'Paolo' menzionato dal Castello nella conversazione del 19.1.11 dovesse identificarsi in Putano Francesco Paolo, 'tenuto conto del motivo conduttore della discussione', senza offrire un qualche dato effettivo e non già meramente assertivo, legittimante una simile conclusione. Quale riscontro oggettivo, poi, alle conversazioni intercettate era stata indicata la partecipazione del Putano, il 6.12.10, ad un pranzo organizzato in un ristorante di Piazza ingastone, considerato un summit mafioso in assenza però di elementi da cui desumere che i soggetti 'attenzionati' fossero seduti tutti insieme e che si fosse trattato effettivamente di un summit mafioso, mancando qualsivoglia attività di captazione ambientale. Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art.597 c.p.p., per essere stata irrogata dal giudice di appello, escluse le aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell'art.416-bis c.p., la pena base, per il reato di cui al comma 1 dell'art.416-bis c.p., di anni nove di reclusione, in luogo di quella minima stabilita dal primo giudice, per cui la pena base doveva essere ritenuta quella di anni sette di reclusione, aumentata di 1/3 per la recidiva contestata (anni 9 e mesi 4 di reclusione); diminuita di 1/3 per il rito abbreviato (anni 6, mesi 2 e giorni 20 di reclusione) e infine aumentata per la già ritenuta continuazione, ad anni 10, mesi 2 e giorni 20 di reclusione, in luogo della pena complessiva di anni 12 determinata nella sentenza impugnata. Zarcone Antonino, collaboratore di giustizia, deduce violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) c.p.p., in riferimento agli artt.523 comma 6 e 603 c.p.p., in quanto a seguito dell'istanza del difensore di fiducia dell'imputato, formulata dinanzi alla Corte di appello all'udienza dei 10.10.14, di interrompere la discussione e procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con l'esame dello Zarcone, che nelle more del procedimento aveva iniziato un documentato percorso di collaborazione con l'autorità giudiziaria, i giudici avevano erroneamente ritenuto di non dover procedere alla richiesta rinnovazione < e previa interruzione della discussione, trattandosi di processo definito in primo grado con le forme del rito abbreviato ed in avanzata fase di discussione, ormai prossimo alla definizione>, nonché per la non ritenuta

-Il

utilità del richiesto esame ai fini della decisione, in considerazione del contenuto delle spontanee
– dichiarazioni dello Zarcone e della documentazione esibita dalla difesa.
In tal modo — secondo la difesa — era rimasto pregiudicato il diritto di intervento, assistenza e
rappresentanza dell’imputato, in quanto non potendo le dichiarazioni dello Zarcone, rese nella fase della
discussione finale, essere assimilate a nuove prove, la richiesta di sottoporsi all’esame risultava l’unica

soluzione possibile per il neo collaboratore di giustizia in grado di fornire rilevanti elementi di riscontro sia
alla tesi dell’accusa, sia alle posizioni di taluni imputati, per il suo inserimento a livello apicale
nell’associazione di tipo mafioso dedita al narcotraffico.
L’esame — conclude la difesa del ricorrente — avrebbe rappresentato una prova nuova ed assolutamente
necessaria, in considerazione del fatto che tutti i soggetti coimputati dello Zarcone erano chiamati a
rispondere di aver fatto parte dell’associazione mafiosa ‘Cosa nostra’, in particolare del mandamento di
Bagheria, diretto dallo stesso Zarcone che avrebbe contribuito, con le sue dichiarazioni, ad apportare quei
carattere di completezza che attiene necessariamente all’acquisizione e allo scrutinio di tutto il materiale
probatorio sottoposto al giudice di merito.
Buccheri Gabriele deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) c.p.p. per non
essere emerso alcun episodio estorsivo a lui attribuibile, con conseguente diretta refluenza
sull’insussistenza della condotta associativa contestatagli al capo A) dell’imputazione (art.416-bis c.p.).
Difettavano, secondo la difesa dell’imputato, i caratteri della partecipazione del Buccheri alla famiglia
mafiosa di Borgo Vecchio, in modo stabile e permanente, non avendo il predetto avuto più alcun contatto
con gli altri presunti sodali, nell’arco temporale dal 15.1.11 al 13.4.11, mentre le prove della sua
partecipazione erano state desunte da due captazioni ambientali, avvenute il 27.10.10 ed il 15.11.10,
inidonee a far ritenere sussistenti i caratteri di stabilità e di permanenza dell’adesione dell’imputato alla
associazione mafiosa in oggetto, senza che la Corte di appello avesse spiegato quale sarebbe stato il
contributo materiale apportato dal Buccheri, in modo permanente e stabile, al sodalizio descritto in
imputazione.
Con il secondo motivo si censura che la Corte palermitana , fissando la pena base in anni nove di reclusione alla luce di una non

-t Z

meglio precisata ‘notevole gravità dei fatti commessi’ e di una ‘spiccata capacità a delinquere’ desunta da
– precedenti risalenti e connotati dal relativo disvalore penale, con conseguente erronea negazione delle
attenuanti generiche.
Parisi Gaspare deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606, comma 1, lett.b),c) ed e) c.p.p. per
avere i giudici territoriali erroneamente ritenuto attendibili e riscontrate le dichiarazioni accusatorie rese da

Vitale Monica nei confronti del predetto imputato, senza considerare le censure mosse con l’atto di appello
e senza provare le condotte di direzione e di organizzazione dell’associazione addebitategli al capo A)
(sostentamento dei detenuti e dei loro nuclei familiari; rapporti con esponenti di altri mandamenti mafiosi,
in particolare di Pagliarelli).
Con riferimento alla attendibilità intrinseca della dichiarante Vitale i giudici di appello non avevano tenuto
conto del rapporto sentimentale, caratterizzato da gelosia, astio e rancore, che avrebbe dovuto comportare
una particolare attenzione nell’analizzare il portato accusatorio delle propalazioni della compagna del
Parisi, la quale aveva iniziato a collaborare non in modo disinteressato e/o per ‘pentimento’, ma per ‘colpa’
del Parisi che, a dire della Vitale, l’aveva messa nei guai e nei confronti del quale, pertanto, nutriva astio e
rancore.
Quanto alla attendibilità intrinseca delle dichiarazioni della collaborante, pur avendo i giudici di appello
ritenuto la natura talvolta generica e comunque

de relato delle stesse, ciò nonostante, illogicamente, le

avevano ritenute affidabili, nel loro contenuto accusatorio verso il Parisi, in ragione della relazione
sentimentale tra i due, anziché trarre dalla stessa quei motivi di astio che le rendevano inattendibili.
In ordine, poi, ai riscontri esterni, la sentenza impugnata non ne aveva indicato alcuno che potesse essere
definito individualizzante, ma taluni che erano stati smentiti dalla difesa, come quello relativo alla presunta
affiliazione del Parisi al sodalizio mafioso, riferita dalla Vitale che aveva precisato come nell’occasione
(giugno 2011) l’imputato avesse acquistato un abito elegante, mentre era risultato dal servizio di
osservazione della p.g. del 15.6.11 (mentre comunque l’imputazione mossa al Parisi faceva riferimento al
periodo febbraio-aprile 2011) che tutti i partecipanti alla riunione, ivi compreso il Parisi, indossavano abiti
casual e sicuramente non eleganti.

13

Al più — conclude sul punto la difesa — i due episodi estorsivi per i quali il Parisi aveva riportato condanna,
_
potevano far configurare una mera partecipazione del medesimo al sodalizio mafioso, ma non provare la
partecipazione qualificata di cui al comma 2 dell’art.416-bis c.p.
Con il secondo motivo si censura il trattamento sanzionatorio, in particolare mancanza di adeguata
motivazione in ordine alla applicazione della recidiva contestata e alla mancata concessione delle

attenuanti, avendo al riguardo i giudici fatto ricorso — si sostiene — a mere clausole di stile, senza neppure
pronunciarsi in ordine alla doglianza concernente l’ingiustificata applicazione della misura di sicurezza della
libertà vigilata, sproporzionata ai fatti contestati, di anni tre.
Con motivi aggiunti, pervenuti alla cancelleria di questa Corte in data 16.9.15, i difensori del Parisi hanno
eccepito la violazione del divieto di reformatio in peius, in quanto, irrogata dal primo giudice la pena base,
per il reato di cui ai commi 2 e 4 dell’art.416-bis c.p., nel minimo edittale di anni 12 di reclusione, la ritenuta
insussistenza, in secondo grado, delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art.416-bis c.p., per la mancata
contestazione in fatto agli imputati, avrebbe dovuto comportare la determinazione della pena base, nel
minimo, di anni nove di reclusione.
Toscano Fabrizio lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, nonostante la confessione
resa già in sede di indagini preliminari nel corso dell’interrogatorio del 25.7.12 dinanzi al p.m. e il
riconosciuto stato di tossicodipendente che lo aveva indotto, secondo la stessa sentenza impugnata, , per poi intraprendere però un
programma di recupero residenziale presso una apposita Comunità.
Anche Toscano Giovanni lamenta mancata concessione delle attenuanti generiche, negate sulla base di
argomentazioni non congrue facenti leva sull’esistenza di precedenti penali e sulla mancanza di
resipiscenza, ma omettendo di valutare gli elementi positivi rappresentati dalla spontaneità della
confessione, dalla mancanza di violenza nella condotta posta in essere e dalla tenuità globale del fatto, che
rendeva incongruo l’aumento di pena stabilito a titolo di continuazione.
Teriaca Filippo deduce, con il primo motivo, violazione dell’art.606, comma 1, lett.c) ed e) c.p.p., in
relazione alla mancata assoluzione dal reato di favoreggiamento personale sub T), essendo verosimile,in
mancanza del frammento audio o video relativo al presunto incontro avuto con il Lo Presti, che egli si fosse

(Il

recato presso la stalla dì via della Rovere per motivi leciti, ma a tale osservazione sviluppata con i motivi di
– appello non era stata data risposta dalla sentenza impugnata e l’intercettazione in questione era stata
utilizzata come prova della estorsione a danno dei soggetti interessati alla fiction televisiva, ma, valutata
come non intellegibile dai giudici del riesame, era divenuta utile agli investigatori la figura del Teriaca in
quanto senza la sua partecipazione non sarebbe stato possibile contestare l’estorsione.

accertati, fantasiosamente ritenuti dalla p.g. indicativi della disponibilità di Testa Marcello, affine del
‘Filippo’ citato dai coimputati e individuato in Teriaca, a prestarsi alle esigenze della famiglia mafiosa
avendo nel contempo il potere discrezionale su chi far lavorare nella fiction , laddove era risultato che solo
la laodue’ aveva il potere di scegliere gli attori e le comparse e che il Testa era in grado al più di far
‘provinare’ i soggetti senza alcuna certezza di assunzione.
Peraltro — prosegue il ricorrente – , la scelta del primo giudice di stralciare la posizione del Teriaca dal
procedimento principale e di pervenire a sentenza il 10.6.13, prima di essersi pronunciato sulle condotte
ascritte agli imputati Auteri e Lo Presti (giudicati con sentenza 18.7.13), aveva creato un vulnus circa la
legittimità della condanna essendo risultata minata la terzietà del g.u.p., mentre la successiva riunione dei
procedimenti, pur se formalmente corretta, non aveva dato risposta alle eccezioni difensive in ordine alla
doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa.
Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art.606, comma 1, lett.e) c.p.p., essendo inconcepibile che
un solo frammento di intercettazione tra terzi, di contenuto generico ed equivoco (secondo l’espressione
del tribunale del riesame), potesse valere a dimostrare la commissione del reato, in assenza di elementi
sufficienti a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Teriaca Filippo fosse stato avvicinato dagli
intercettati e che il ‘Filippo’ di cui i medesimi parlavano, soggetto in grado di assicurare gli interessi
dell’associazione sul set della fiction ‘Squadra Antimafia Palermo oggi’, fosse l’odierno ricorrente.
Inoltre, nessuna richiesta estorsiva era stata confermata, né dalla società committente ‘Taodue’, né dalla
‘Europalermo’ e quindi difettava il reato presupposto, come ritenuto anche dai giudici del riesame con
l’ordinanza 12.1.12, ma la Corte territoriale, ignorando le dichiarazioni di Deodato, Valsecchi e Tartaglia,
che avevano negato ogni richiesta estorsiva, attribuendo al Testa un ruolo marginale e non decisionale,

-t T

Inoltre, i giudici di appello avevano utilizzato, per l’affermazione di colpevolezza, fatti e circostanze mai

avevano conferito valore di riscontro ad elementi neutri, quali il grado di affinità tra Testa e Teriaca e la
ritenuta implausibilità che Lo Presti avesse narrato fatti mendaci ad un fidato affiliato, perché
comportamento contrario alle regole della consorteria.
Con il secondo motivo si lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, negate con giudizio
puramente di routine e con motivazione apparente che faceva riferimento ai precedenti penali

Mannino Giovanni deduce violazione dell’art.606, comma 1, lett.b) e c) c.p.p., in relazione agli artt.649
c.p.p., 81 e 132 c.p., per non avere la Corte di appello, dopo aver riconosciuto che per lo specifico episodio
di spaccio contestato al capo F) (cessione di sostanze stupefacenti a Simonetti Carlo) il prevenuto era stato
già giudicato con sentenza emessa ex artt.444 ss. c.p.p. il 16.5.11 (irr.le il 10.6.11), proceduto alla
eliminazione del relativo aumento di pena commisurato per tale reato.
Con il secondo motivo si lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, negate per i
precedenti penali, senza però considerare la confessione resa e lo stato di tossicodipendenza riconosciuto
dalla stessa Corte di merito.
Con ‘nota difensiva’ pervenuta alla cancelleria di questa sezione il 24.9.15, il difensore di Zarcone Antonino,
nell’insistere per l’accoglimento del ricorso, reitera la doglianza relativa al mancato esame, sottolineando
che, in caso di accoglimento di uno o più dei ricorsi degli altri coimputati, egli si troverebbe a dover rendere
dinanzi al giudice di rinvio il proprio esame non più nella veste di imputato, bensì in quella di imputato di
reato connesso, mentre l’approfondimento istruttorio era stato ritenuto opportuno dai giudici secondo
l’indicata prospettazione.
Infine, con ‘nota di udienza’ in data 2.10.15, i difensori di Parisi Gaspare, con riferimento all’aumento di
pena per la recidiva di cui al comma 5 dell’art.99 c.p., ribadito come la Corte di appello abbia utilizzato
mere clausole di stile, tali da non soddisfare l’obbligo della motivazione, hanno lamentato — anche alla luce
della sentenza n.185/15 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art.99, comma 5, c.p.,
limitatamente all’automatismo sanzionatorio basato sull’appartenenza del titolo di reato all’elenco dei
delitti contenuti nell’art.407, comma 2, lett.a) c.p.p. — l’inidoneità della motivazione a giustificare
l’applicazione all’imputato della contestata recidiva.

16

dell’imputato, senza valutare l’ottimo comportamento processuale.

Deve preliminarmente rilevarsi l’infondatezza delle questioni processuali prospettate, segnatamente,
nell’interesse di Di Giovanni Tommaso.
Quanto, infatti, alle doglianze riguardanti una presunta non ‘terzietà’ del g.u.p. a giudicare della posizione
del prevenuto per avere il medesimo giudice emesso il decreto che dispone il giudizio nei confronti di 19
dei 30 imputati per i quali si era celebrata l’udienza preliminare, mentre per gli altri 11 era stata formulata

questa Corte, con la declaratoria di inammissibilità dell’istanza di ricusazione, sia con il precedente rigetto
della richiesta di astensione, per cui ogni ulteriore prospettazione non può trovare ingresso in questa sede,
attesa anche la sostanziale aspecificità della doglianza formulata dalla difesa.
In ordine, poi, alla pretesa inutilizzabilità dei risultati dell’attività di captazione delle conversazioni, per
violazione degli artt.267 ss. c.p.p., del tutto correttamente i giudici di appello hanno ritenuto di respingere
la relativa eccezione formulata nell’interesse del Di Giovanni, con riferimento agli indicati decreti
autorizzativi delle intercettazioni, dal momento che sia il provvedimento di urgenza del p.m. che il
successivo decreto di convalida del g.i.p. non si

elt; limitati ad un mero richiamo della nota di p.g. in data

8.2.10, ma hanno fatto sostanziale riferimento ad essa tanto da allegarla ai loro provvedimenti, rendendola
così ostensibile alle difese e dando nel contempo dimostrazione di averne vagliato in modo autonomo il
contenuto, secondo quella che è la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte che attribuisce, in
tema di intercettazioni in procedimenti per delitti di criminalità organizzata, alle informative di p.g. efficacia
legittimante le stesse (Cass., sez.1, 22 aprile 2010, n. 20262).
Quanto al requisito dell”urgenza’, che — secondo la prospettazione difensiva — non sarebbe in concreto
esplicitato nei decreti autorizzativi, va ancora una volta ribadito che i risultati delle intercettazioni disposte
con decreto di urgenza dal p.m. sono sempre utilizzabili, allorchè ne sia intervenuta la convalida da parte
del g.i.p., poiché questa preclude qualunque discussione sulla sussistenza del requisito dell’urgenza,
rimessa, peraltro, alla discrezionale valutazione dell’organo procedente (Cass., sez.II, 4 maggio 2001,
n.26015; Sez.1, 22 aprile 2004, n.23512; Sez.fer., 24 agosto 2010, n.32666).
In ordine, infine, alla dedotta inutilizzabilità delle risultanze dell’attività di videosorveglianza effettuata dalla
p.g., tale attività ha riguardato precipuamente gli spazi antistanti gli esercizi commerciali interessati e

1 3-

la richiesta di rito abbreviato, le relative questioni hanno formato oggetto di pronunce sia da parte di

quindi trova la sua previsione normativa nelle prove documentali non disciplinate dalla legge, previste
dall’art.189 c.p.p., non potendo essa ritenersi appartenere al genus delle intercettazioni di comunicazioni e
conversazioni, con la conseguenza che, trattandosi di prova c.d. atipica, non è alla stessa applicabile la
disciplina di cui agli artt.266 ss. c.p.p., in quanto le garanzie previste dall’art.14 della Costituzione si
applicano solo alle captazioni che riguardano luoghi di privata dimora (v. Sez.un., 28 marzo 2006, n.26795,

esercizi pubblici (quali quelli in questione), sono utilizzabili atteso che gli stessi non possono considerarsi
luoghi di privata dimora (Cass., sez VI, 17 gennaio 2012, n.1707).
In punto di responsabilità il ricorso del Di Giovanni è infondato.
Quanto al reato di associazione mafiosa, con motivazione del tutto adeguata ed immune dai lamentati vizi
di illegittimità, i giudici territoriali hanno tratto il proprio convincimento dell’appartenenza del prevenuto,
con ruolo direttivo di capo del mandamento di Porta Nuova anzitutto dalle conversazioni intercettate tra il
medesimo e Lo Presti Calogero in ordine alle quali — come, più in generale, con riferimento a tutto il
coacervo captativo — va ricordato che l’interpretazione del linguaggio e del loro contenuto è questione di
fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, e si sottrae al sindacato di legittimità se tale
valutazione è motivata in conformità ai criteri di logica ed alle massime di esperienza ( Cass., sez.VI, 26
gennaio 1994, n.861; Sez.VI, 8 gennaio 2008, n.17619).
Orbene, nella specie, i giudici palermitani non certo illogicamente — a fronte della versione riduttiva offerta
dalle difese circa la loro valenza probatoria — hanno desunto dalle conversazioni del 15.9.10; 9.4.10;
9.11.10; 4.1.11; 3.2.11 e 8.3.11, il ruolo egemone rivestito dal Di Giovanni nel sodalizio mafioso in
argomento, esplicato anche con riferimento al mantenimento degli esponenti del ‘mandamento’ e non
solo dei propri parenti, avendo il Di Giovanni fatto riferimento, nel commentare l’imminente scarcerazione
di Lo Presti Tommaso , alla volontà di provvedere nell’interesse comune alla gestione della ‘cassa’ del
sodalizio («perché c’è la sopravvivenza e quello che si raccoglie servono per tutti»).
Proprio la gestione della ‘cassa’ — hanno rimarcato i giudici di appello nel reputare tale mansione indicativa
anche di un ruolo di vertice dell’imputato — è da attribuirsi al Di Giovanni in ragione anche delle continue
richieste di denaro provenienti al medesimo da parte di parenti di carcerati e della preoccupazione del

18

Prisco) e comunque i risultati delle videoregistrazioni effettuate nel corso delle indagini anche all’interno di

prevenuto di soddisfarle, nei limiti delle disponibilità, in modo equo, tanto da discuterne anche con Coniglio
– Vincenzo (coimputato nei confronti del quale si è proceduto con il rito ordinario) in una conversazione
(intercettata il 9.4.10) avente ad oggetto il mantenimento dei familiari del detenuto Pispicia Salvatore, in
ragione delle continue richieste di denaro provenienti dalla moglie di quest’ultimo.
E che l’interesse del Di Giovanni non fosse limitato all’assistenza della propria famiglia ‘di sangue’ poteva

predetta conversazione era rivolta al comportamento della famiglia Lo Presti, che pretendeva aiuti
economici di proporzioni tali da rendere difficile l’assistenza anche agli altri associati, condotta che aveva
portato il Di Giovanni a lamentarsi esplicitamente di tale situazione tanto da affermare, nel corso della
telefonata del 9.11.10, con riferimento al fratello Di Giovanni Gregorio, già ‘reggente’ del mandamento di
Porta Nuova e all’epoca detenuto per essere stato arrestato nel giugno del 2010: « Siccome mio fratello
per essere presente a loro…trascurava a tutti gli altri! lo invece non trascuro a nessuno dei ragazzi >>, frase
eloquente anche nel senso, ben evidenziato dai giudici palermitani, che il Di Giovanni Tommaso, nuovo
esponente di spicco del mandamento, aveva inteso operare una rottura con la precedente gestione della
‘cassa’, assicurando supporto economico indistintamente a tutte le famiglie dei sodali e non soltanto alla
più influente famiglia Lo Presti, volontà confermata nel corso della conversazione 3.2.11 nella quale, oltre a
negare ad altri la possibilità di guadagnare nel territorio di sua competenza, aveva precisato
all’interlocutore che egli perseguiva gli interessi dell’intero sodalizio mafioso («Quando io faccio una cosa
è per la collettività»), comportamento — hanno del tutto logicamente osservato i giudici di merito — che
non avrebbe il Di Tommaso potuto tenere ove non avesse avuto un ruolo apicale.
Tale ruolo è risultato confermato — pur al di là della credibilità della collaborante Vitale Monica, come
puntualizzato dai giudici di appello – anche dall’inequivoco esito dell’intercettazione ambientale
dell’8.3.11, avvenuta presso la ‘polleria’ di via Palmerino, gestita da Di Marco Giuseppe (altro coimputato
nei cui confronti si è proceduto con rito ordinario), presenti Di Giovanni, Milano e Zarcone, nel corso della
quale — ha evidenziato la Corte palermitana — i tre, oltre ad aver parlato della gestione della ‘cassa’,
concordando sulla opportunità di compiere versamenti, anche ingenti, per consentire agli associati e ai loro
familiari di impiantare attività produttive sì da garantire uno stabile sostentamento, avevano fatto

I9

desumersi — hanno ancora sottolineato i giudici di appello — proprio dalla critica che nel corso della

riferimento anche alla necessità di infiltrarsi in determinati appalti ed avevano discusso inoltre delle tariffe
– del ‘pizzo’ da praticare sulla costruzione di appartamenti (2-3.000 euro ad appartamento), confidando
ancora il Di Giovanni ai due sodali di aver `chiuso’ un’estorsione al supermercato GS (« Quello, Nino, siamo
rimasti che la chiudiamo per Pasqua e Natale per il fatto del GS…3.500 euro ce li danno il 15 di aprile che li
deve venire a prendere Giovanni») .

Quanto al delitto di cui all’art.74 D.P.R. n.309/90 ( capo d), la responsabilità del Di Giovanni quale gestore,
in modo stabile e continuativo, di un parallelo ma distinto organismo associativo, comprendente Parrino
Ivano e Lo lacono Antonino (coimputati nei cui confronti si è proceduto con il rito ordinario) e che si
avvaleva, quali spacciatori, anche di Toscano Fabrizio e Mannino Giovanni, è risultata provata — hanno, con
motivazione immune da profili di illogicità e/o contradditorietà, affermato i giudici territoriali —
dall’esistenza di una struttura operante nella zona di Piazza Ingastone di Palermo composta da spacciatori
che operavano nell’interesse del Parrino, il quale, a sua volta, agiva in stabile collegamento con il Di
Giovanni, come era risultato dagli esiti delle indagini di p.g. in data 15.10.10.
In tale data, infatti, le immagini della videocamera installata dai carabinieri presso la macelleria del Di
Giovanni avevano colto Toscano Fabrizio nell’atto di cedere sostanze stupefacenti a vari ‘clienti’, finchè
erano sopraggiunti Di Giovanni, Parrino ed un terzo soggetto e la conversazione aveva avuto ad oggetto
crediti da recuperare, per la fornitura di droga, anche con le maniere ‘forti’, come era stato proposto dal
Parrino ed assentito dal Di Giovanni.
Inoltre, nel corso della conversazione intercettata il 25.9.10 tra Lo Presti Calogero (zio di Di Giovanni
Tommaso) e Rovetto Matteo (ex agente della Polizia di Stato ritenuto vicino a vari esponenti mafiosi del
mandamento di Porta Nuova), quest’ultimo aveva reso edotto il suo interlocutore di aver consigliato Di
Giovanni Tommaso di spostare il punto di spaccio della macelleria per evitare di fornire punti di riferimento
fissi alle Forze dell’ordine che in quel momento stavano effettuando le indagini (« Gli ho detto…per adesso
questo punto toglilo…questo alla macelleria….allontanati qualche 15 giorni…20 giorni e non dare punti di
riferimento…meno potete fare rumore meglio è…in certi punti in quattro, cinque, sei…evitate soprattutto
se sono persone conosciute…io ti do questo consiglio»), comportamento — hanno non certo illogicamente
osservato i giudici di merito — che il Rovetto non avrebbe tenuto, né di ciò avrebbe fatto partecipe il Lo

ao

Presti Calogero, ove non fosse stato consapevole che il Di Giovanni era il gestore dell’attività di spaccio
nella zona di Piazza Ingastone che dieci investigatori provenienti da Roma avevano deciso di controllare.
A conforto di tali già di per sé concludenti emergenze probatorie si pongono poi le propalazioni del
collaboratore di giustizia Manno Fabio — già reggente della famiglia di Borgo Vecchio e la cui attendibilità è
adeguatamente argomentata – , che ha indicato in ‘Masino il carnezziere’ (e riconoscendo in fotografia Di
Giovanni Tommaso) il trafficante di cocaina, inizialmente per conto di Tanino Lo Presti, pur facendo

_

riferimento ad un periodo (2008-2009) anteriore a quello ricompreso nell’imputazione sub d) (ottobre
2010-aprile 2011), ma pur sempre significativo e compatibile con le complessive risultanze probatorie a
carico del Di Giovanni.
Quanto al trattamento sanzionatorio, riservata ad una successiva trattazione la questione della violazione
dell’art.597, comma 4, c.p.p. , va comunque rilevata la legittimità del diniego di attenuanti generiche,
avendo la Corte di merito richiamato, oltre alla gravità dei fatti contestati, il precedente penale
dell’imputato, trattandosi di parametro considerato dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai fini di cui
all’art.62-bis c.p., senza peraltro che il ricorrente abbia in questa sede prospettato concreti elementi di
segno favorevole non considerati dai giudici di merito.
Lo Presti Calogero (detto ‘Pietro’ ovvero ‘zio Pietro’), zio di Di Tommaso Giovanni, è stato dai giudici
territoriali ritenuto il ‘reggente’ del mandamento di Porta Nuova con motivazione logica, aderente alle
risultanze probatorie e all’esito di un percorso argomentativo basato non certo sui meri legami familiari con
altri soggetti ritenuti appartenere al medesimo sodalizio mafioso, quanto piuttosto sull’interpretazione
delle conversazioni intercettate riguardanti il prevenuto che la difesa ha invece proposto in un’ottica
riduttiva e limitata al contesto familiare di riferimento.
La condivisione con il nipote Di Tommaso Giovanni della ‘reggenza’ del mandamento di Porta Nuova è stato
il frutto — hanno osservato i giudici palermitani — di una scelta consapevole del Lo Presti il quale, resosi
conto di essere intercettato dalla p.g., aveva preferito assumere una posizione defilata nell’ambito
dell’associazione criminosa, ma non per questo secondaria, tanto che dalle numerose conversazioni captate
nell’ambito della stalla nella sua disponibilità, sita in via Della Rovere n.3, era emerso proprio il ruolo
egemone del prevenuto che, nel ricevere alcuni affiliati al sodalizio, aveva impartito le direttive da seguire

21

circa alcune attività estorsive, come nel caso — hanno specificato i giudici — della vicenda di cui al capo b)
‘ dell’imputazione, allorchè Giusto Gagliano si era recato, il 16 settembre del 2010, accompagnato da Manno
Mario (all’epoca affiliato della consorteria), dal Lo Presti per chiedergli l’autorizzazione a rilevare la
gioielleria ‘Di Paola’ di Corso Finocchiario Aprile, e, ricevuta la ‘messa a posto’ dal Lo Presti a nome
dell’organizzazione, dopo aver fatto presente al suo interlocutore di aver già in precedenza fornito un

contribuito alla consorteria consegnando gioielli, aveva appreso che, una volta aperta la gioielleria, avrebbe
dovuto pagare qualcosa alla ‘famiglia’, venendo congedato da ‘zio Pietro’ con un eloquente: « Ora io tra
mezz’ora questo discorso…aspetto una persona, ma già fai conto che è chiuso».
Anche la vicenda estorsiva relativa alla fiction televisiva ‘Squadra Antimafia’ è stata correttamente valutata
dai giudici di merito in un’ottica convergente al fine di ritenerla, quale reato-fine (capo c), dimostrativa del
ruolo dirigenziale del Lo Presti.
Dalle conversazioni intercettate, infatti, risulta che il Lo Presti, dopo aver provveduto a convocare, in
relazione a tale vicenda, certo ‘Filippo’ (identificato poi in Teriaca Filippo), aveva avuto un colloquio con
Auteri Giuseppe (coimputato nei cui confronti si è proceduto con il rito ordinario) il 16.9.10 nel corso del
quale si era appreso che la gestione dei servizi per le persone impegnate nelle riprese televisive della fiction
in questione era stata affidata a tale ‘biondo’ (nipote di ‘Filippo’), il quale si sarebbe dovuto impegnare per
far partecipare ai guadagni anche la famiglia mafiosa del Lo Presti, tanto che Auteri aveva detto: « Perché
già loro gli mandano 300.000 euro (circostanza confermata da Deodato Filippo, rappresentante della
‘Taodue’ che, come precisato dalla Corte di appello, ha dichiarato che l’importo di 300.000 euro era stato
effettivamente percepito dalla Europalermo di Testa Marcello ) per questo lo so che significa già, e loro già
hanno a quello, mi devono fare uscire i soldi da là», ricevendo come risposta da Lo Presti: « Non può
imbrogliare perché gliel’ho detto…Filippo…euro…anzi gli ho detto: ‘hai qualche cinquemila euro’…dice
‘appena finisce il film’», aggiungendo di aver detto a ‘Filippo’ di sbrigarsi perché non c’era tempo da
perdere (« Giuseppe, non è che possono stupitiare, tutto il film ti pare che deve durare vent’anni? Gli ho
detto ‘vedi di muoverti e vedi quello che devi fare’ »).
Gli accertamenti di p.g. — hanno evidenziato i giudici di merito — avevano poi consentito di identificare il
‘biondo’, nipote di Teriaca Filippo, in Testa Marcello, titolare della Europalermo soc.coop. e persona che,

“Z.Z.

_ incaricata dalla `Taodue’, società produttrice della serie televisiva, si occupava, di fatto, della gestione dei
servizi legati alla realizzazione della fiction ‘Squadra Antimafia’ e tali accertamenti (costituenti una quaestio

facti che, anche in ragione della scelta del rito, non può essere messa in discussione in questa sede)
avevano trovato successiva conferma dalla conversazione telefonica intercettata il 27.9.10 nel corso della
quale Testa Marcello si era mostrato non solo disponibile alle esigenze manifestate dalla famiglia mafiosa

(dazione di denaro imposta da Lo Presti per il tramite di Teriaca), ma anche in grado di indicare le persone
che potevano prendere parte alla fiction stessa.
Il quadro accusatorio relativo a tale vicenda estorsiva si è poi rafforzato trovando riscontro la ‘bontà’ della
conversazione ora menzionata nella ammissione del Teriaca Filippo di essersi recato da Lo Presti Calogero,
pur sostenendo di non ricordare la ragione di tale incontro, il cui ruolo di vertice nell’organizzazione è
emerso anche dal contenuto di ulteriori conversazioni intercettate, particolarmente significative circa
l’affidamento che nel predetto si faceva per risolvere — o comunque avviare a soluzione — questioni
involgenti anche appartenenti ad altri mandamenti (quali i soggetti appartenenti alla ‘famiglia’ di Uditore,
di cui alla conversazione del 19.9.10 preceduta dall’incontro di Lo Presti con Giandalone Michele e Di
Caccamo Giovanni), oppure per disciplinare il ‘turno’ tra le imprese di pompe funebri (come risultava dalla
intercettazione, in data 20.9.10, della conversazione tra il Lo Presti e l’Auteri ), o ancora venendo informato
dall’ex agente di polizia Rovetto Matteo del pericolo che il coreggente del mandamento, Di Tommaso
Giovanni, stava correndo nell’ambito dell’attività dello spaccio di droga (secondo quanto sopra evidenziato
con riferimento alla posizione del Di Giovanni) in ragione dell’arrivo di personale appartenente ai reparti
speciali della Polizia di Roma.
E’ solo a motivo della scoperta di una microspia nella stalla di via Rovere, avvenuta il 26.9.10, che il Lo Presti
— hanno evidenziato i giudici palermitani – , consapevole di essere oggetto di indagini, si era defilato
decidendo di condividere la reggenza del mandamento di Porta Nuova con il nipote Di Tommaso Giovanni,
ma non venendo meno al suo ruolo, come era dimostrato — ha non certo illogicamente osservato la Corte
palermitana — dagli incontri avuti dal predetto (di cui all’informativa 2.5.11 dei carabinieri) sia con Milano
Nicolò che con il Di Giovanni stesso, all’esito dei quali aveva manifestato tutta la sua soddisfazione per
l’operato del nipote, mentre era stato proprio il necessitato atteggiamento prudenziale — hanno

a3

perspicuamente rimarcato i giudici di merito — ad impedirne la partecipazione all’incontro con altri
_ esponenti mafiosi avvenuto presso il ristorante di via Ingastone, essendo gli incarichi operativi stati affidati
al Di Tommaso il quale, nella veste di coreggente della consorteria, aveva poi avuto modo di incontrarsi,
come era emerso dalla conversazione intercettata 1’8.3.11 presso la polleria di via Palmerino, con Zarcone
Antonino che all’epoca, come dal medesimo affermato in sede di dichiarazioni spontanee rese dinanzi alla

In ordine al trattamento sanzionatorio, infondata è la doglianza concernente la violazione del combinato
disposto di cui agli artt.99 e 63, comma 2, c.p., dal momento che l’aumento di pena per la contestata
recidiva non è stato determinato < per il concorso con altra circostanza di aggravamento più grave>, dal
momento che sono state escluse le circostanze aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell’art.416-bis
c. p.
Tuttavia — rileva questa Corte — l’aumento per la recidiva reiterata ex art.99, comma 5, c.p., nella lettura in
combinato disposto con l’art.407 c.p.p., è stato determinato dai giudici di appello (il g.u.p. non ha invero
specificato, nel calcolo della pena, l’aumento applicato per la contestata recidiva) con riferimento ai soli
precedenti penali del Lo Presti e pertanto – alla luce della sentenza della Corte costituzionale del 23.7.15,
n.185, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.99, comma 5, c.p., come sostituito dall’art.4
della I.n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «è obbligatorio e.», perché tale norma, nel prevedere
che nei casi di cui all’art.407, comma 2, lett.a) c.p.p., la recidiva è obbligatoria, contrasta con il principio di
ragionevolezza e parifica nel trattamento obbligatorio situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro
diverse, in violazione dell’art.3 Cost. -, essendo venuto meno, con effetto ex tunc (in ragione del combinato

Corte di appello, rivestiva un ruolo direttivo nella famiglia mafiosa di Bagheria.

disposto degli artt.136, comma 1, Cost. e 30, commi 3 e 4, 1.11 marzo 1953, n.87), l’automatismo
nell’applicazione della recidiva di cui al comma 5 dell’art.99 c.p., il giudice di appello, in sede di rinvio, dovrà
rivalutare, per Lo Presti Calogero, l’applicazione della recidiva alla luce del

decisum della Corte

costituzionale.
Tale aumento di pena — hanno ritenuto i giudici delle leggi – non può più essere legato solamente al dato
formale del titolo di reato, senza alcun «accertamento della concreta significatività del nuovo episodio
delittuoso — in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri

zq

. indicati dall’art.133 c.p. — sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del
reo», rimanendo altrimenti violato anche l’art.27, comma 3, Cost., che implica «un costante principio di
proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra», con il risultato che
«la preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero
legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque

avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art.27,
terzo comma, Cost.».
Inoltre, in mancanza della indicazione, nella specie, da parte del primo giudice, dell’aumento di pena
apportato a titolo di recidiva, non è dato comprendere quale sia stata la pena-base determinata in primo
grado, né la Cassazione può supplire provvedendo lei stessa a tale determinazione, trattandosi di
valutazione squisitamente di merito e pertanto il giudice di rinvio, per non incorrere nella violazione del
divieto di reformatio in peius (secondo quanto sarà precisato in esito alla trattazione dei singoli ricorsi),
provvederà a scorporare, dal calcolo del g.u.p., la pena-base per il reato di cui al comma 2 dell’art.416-bis
c.p. e a determinare la pena da irrogare, in sede di appello, per tale reato, in misura non superiore a quella
di primo grado.
L’ultimo motivo, riguardante le statuizioni civili, si presenta come inammissibile, sia per genericità della
doglianza relativa ad asserita mancanza dei requisiti di cui all’art.92 c.p. in capo ai soggetti che hanno
avanzato pretese risarcitorie, sia perché, nella incontestata sintesi dei motivi di appello quali risultanti dalla
sentenza impugnata, tale censura si presenta come ‘nuova’, non avendo formato oggetto di specifica
devoluzione ai giudici di secondo grado,e pertanto essa trova in questa sede la preclusione di cui all’ultima
parte del comma 3 dell’art.606 c.p.p.
Le considerazioni svolte dai giudici territoriali in ordine alla vicenda estorsiva sub c), addebitata al Lo Presti,
hanno legittimamente condotto alla speculare affermazione di responsabilità di Teriaca Filippo per il reato
di favoreggiamento di cui al capo t).
Dalla ricordata conversazione ambientale intercettata il 16.9.10 tra Lo Presti e Auteri era infatti emerso —
hanno ricordato i giudici palermitani — che il primo aveva convocato, in relazione alla vicenda della fiction

aq

• televisiva, tale ‘Filippo’ ( con tranquillante certezza identificato in Teriaca Filippo il quale ha dal canto suo
ammesso l’incontro con il Lo Presti ), per ottenere, tramite il di lui parente ‘biondo’ (con certezza
identificato, anche per il colore dei capelli, in Testa Marcello, legato al Teriaca da rapporto di affinità — per
essere la moglie di Testa figlia del fratello di Teriaca – e contitolare, di fatto, della Europalermo soc.coop.,
unitamente al socio Tartaglia Antonio) 5.000 euro da versare alla ‘famiglia’, intimandogli anche di fare

presto (« vedi di muoverti e vedi quello che devi fare»).
L’avere il Teriaca, destinatario della richiesta (di chiara natura estorsiva) del Lo Presti di esercitare pressioni
sul proprio congiunto Testa Marcello, riferito invece ai carabinieri, in sede di s.i.t. il 7.5.12, di non ricordare
le ragioni che lo avevano indotto a recarsi presso la stalla di via della Rovere, per poi genericamente far
riferimento a non meglio precisati motivi di lavoro di Lo Presti Tonino (nipote di Lo Presti Calogero, assunto
dalla ‘Taodue’ — come precisato dalla Corte di merito — su indicazione della ‘Europalermo’), reiterando tali
dichiarazioni anche dinanzi al p.m., in data 6.7.12, è comportamento che legittimamente è stato ritenuto
integrare gli estremi del reato di cui all’art.378, commi 1 e 2, c.p., avendo in tal modo Teriaca aiutato Lo
Presti Calogero ad eludere le investigazioni dell’Autorità sia con riferimento alla vicenda estorsiva di cui al
capo c) che al delitto associativo di cui al capo a).
Legittimamente, poi, sono state negate al Teriaca le invocate attenuanti generiche, in considerazione della
negativa personalità quale risultante dai numerosi precedenti penali, trattandosi di parametro considerato
dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai fini di cui all’art.62-bis c.p e senza che il ricorrente abbia in questa
sede prospettato concreti elementi di segno positivo non valutati dai giudici di merito, anche il
comportamento processuale — secondo la precisazione operata dai giudici di appello — non essendo valso a
far desumere elementi di valutazione favorevoli all’imputato.
Il primo motivo di ricorso di Milano Nicolò è infondato.
Lungi dall’avere i giudici territoriali valorizzato in malam partem piccoli frammenti probatori di carattere
per lo più indiziante — come lamentato dalla difesa dell’imputato — in ordine all’appartenenza del Milano
all’organizzazione ‘Cosa nostra’, con motivazione congrua ed immune da profili di illogicità, la Corte di
merito ha ritenuto le risultanze processuali chiaramente dimostrative della partecipazione del prevenuto al
sodalizio mafioso, nel mandamento di Porta Nuova, quale stretto collaboratore di Di Giovanni Tommaso.

26

_ Ciò ha fatto sulla base delle conversazioni intercettate nella polleria di via Palmerino, tra cui,
.. particolarmente significativa in termini accusatori, quella dell’8.3.11 — già analizzata in relazione alla
posizione del Di Giovanni — nel corso della quale, presenti anche Di Giovanni Tommaso e Zarcone Antonino
(spontaneamente dichiaratosi come uno dei capi della famiglia mafiosa di Bagheria), si era discusso delle
modifiche da apportare alla gestione della ‘cassa’ e di come provvedere al sostentamento delle famiglie dei

sodali detenuti.
Tutti si erano trovati d’accordo — come già evidenziato — sull’impossibilità di continuare ad apprestare una
sorta di mero servizio assistenziale, optando per un più efficace versamento di una somma di denaro,
anche di ingente importo, onde consentire alla famiglia del singolo associato di intraprendere un’attività
produttiva, senza gravare così sulla ‘cassa’ comune, tanto che Di Giovanni aveva concluso: « Certo…questo
è pure buono…e i soldi investirli, le cose sono cambiate >>.
La conversazione aveva poi riguardato — hanno ancora evidenziato i giudici di merito — l’infiltrazione in
alcuni appalti e l’esecuzione di estorsioni («quello dei mobili Pizzimenti…che si è interessato Corso
Calatafimi >>) con le ‘tariffe’ da praticare in proposito sulle costruzioni di appartamenti (2 o 3.000 euro ad
appartamento), ed aveva suscitato interesse il nuovo metodo proposto da Zarcone secondo cui i mafiosi di
Bagheria si avvalevano ormai del contributo fornito da dipendenti locali dell’U.T.C., tanto che Milano aveva
affermato, rivolto allo Zarcone: « Ce li chiudi tu direttamente… e ci leviamo il pensiero, non
cummattemmo a Palermo, si sparge subito la voce, questo, quello e non perdiamo tempo con nessuno».
Il discorso si era poi spostato sull’assetto di altri mandamenti (e Milano aveva confermato la notizia del Di
Giovanni per cui Michele La Mattina era a capo del mandamento di Santa Maria di Gesù) e della gestione
del settore delle ‘macchinette’ (c.d. slot machines).
I tre soggetti intercettati — hanno perspicuamente osservato i giudici di appello — si erano pertanto
interessati, e ne avevano discusso tra loro, degli assetti strategici dell’organizzazione mafiosa in argomento,
e Milano (al di là delle propalazioni della collaborante Vitale Monica che lo aveva indicato come capo della
famiglia di Corso Calatafimi) si era dimostrato uno stretto collaboratore — hanno non certo illogicamente
concluso sul punto i giudici palermitani — del Di Giovanni, partecipando alle scelte vitali per il sodalizio, con
ruolo quindi attivo all’interno dell’organizzazione.

2g

_

Fondato è invece il secondo motivo di gravame, in punto di trattamento sanzionatorio.

– Il giudice di primo grado, computate le due aggravanti (commi 4 e 6 dell’art.416-bis c.p.), ha determinato la
pena nel minimo (anni 12 di reclusione), riducendola poi, in conseguenza della scelta del rito, ad anni otto
di reclusione.
Poiché il giudice di appello ha escluso le predette aggravanti, in quanto non contestate in fatto, avrebbe

dovuto determinare la pena, per l’ipotesi di cui al comma 1 dell’art.416-bis c.p., anch’essa nel minimo (anni
7 di reclusione) e su quest’ultima operare la diminuzione di 1/3.
L’avere invece determinato la pena, per il reato di cui al comma 1 dell’art.416-bis c.p., in anni 9 di
reclusione, ha comportato, da parte della Corte di appello, la violazione dell’art.597 c.p.p., secondo quanto
da ultimo sostanzialmente ribadito anche dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza 27.3.14, che
hanno richiamato, confermandone il dictum, la decisione di Sez.un., 27 settembre 2005, n.40910, William
Morales, secondo cui il principio del divieto di reformatio in peius, di cui al comma 4 dell’art.597 c.p.p., non
si accontenta del ‘non peggioramento’ della entità complessiva della pena, ma pretende che tale principio
si applichi anche a tutti gli elementi che concorrono alla determinazione di questa: non viene quindi in
discorso un semplice confronto tra pene, ma occorre procedere ad un raffronto tra i segmenti che vengono
a comporre quella sequenza; nessuna logica `manipolatoria’ può quindi consentire non domandati (e quindi
non consentiti) aumenti di pena anche nella ipotesi in cui tali aumenti vengano ‘compensati’ attraverso
altre operazioni intermedie che permettono di non aggravare, rispetto allo statuto sanzionatorio adottato
dal primo giudice, il trattamento finale.
Il giudice di appello, pertanto, anche quando escluda —come nella specie — una circostanza aggravante e per
l’effetto irroghi una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza, non può fissare la pena base in
misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado.
In punto di trattamento sanzionatorio di Milano Nicolò — e ciò vale con riferimento anche a Di Giovanni
Tommaso, sia avuto riguardo alla pena base determinata dal giudice di appello in misura superiore (anni 13
di reclusione) a quella del primo giudice (anni 12 di reclusione), che in relazione al disposto di cui al comma
5 dell’art.99 c.p., come ‘costituzionalizzato’ dalla sopra citata sentenza della Corte costituzionale —

a

l’impugnata sentenza deve quindi essere annullata con rinvio, per nuovo esame sul punto, ad altra sezione
s, della Corte di appello di Palermo.
Anche il ricorso di Parisi Gaspare, in punto di responsabilità, non è fondato.
Rilevato come il predetto imputato sia stato condannato, in separato procedimento, per due episodi di
estorsione, entrambi aggravati ex art.7 I.n. 203/91 e commessi in Palermo tra l’ottobre 2010 e il giugno

2011 ( con sentenza divenuta irrevocabile il 12.11.13 ) , alla pena di anni sei di reclusione ed €2.000,00 di
multa, non certo illogicamente tali reati-scopo sono stati dalla Corte territoriale ritenuti come elementi
particolarmente probanti per una sua partecipazione, con ruolo decisionale, all’organizzazione mafiosa in
argomento, essendo emerso — anche nella esecuzione dell’estorsione in danno di Ventura Daniele, come
ricostruita dai carabinieri nell’informativa dell’8.6.11 — un ruolo sovraordinato rispetto a quello del
coimputato Chiarello Francesco (nei cui confronti si è proceduto con il rito ordinario per il reato di cui
all’art.416-bis c.p.).
Di ciò — hanno compiutamente argomentato i giudici di appello — vi era prova anche nella conversazione,
intercettata il 2.6.11, tra Lo Nardo Anna (persona che la p.g. ha indicato come sentimentalmente legata al
Chiarello), Ballo Giovanni e Giannotta Rosalia, nel corso della quale la Lo Nardo aveva spiegato ai suoi
interlocutori di aver parlato con ‘Gaspare’ (Parisi), aggiungendo che questi era ‘superiore’ di ‘Francesco’
(Chiarello), circostanza confermata anche dalla conversazione intercettata il 7.3.11 nella quale Chiarello
aveva informato Parisi che tale ‘Angioletto’ si era recato presso un esercizio commerciale senza alcun
permesso, provocando l’ira del Parisi che aveva deciso di intervenire immediatamente (« Allora.., sto
scendendo io…sto venendo»).
Confortano tali conclusioni — hanno puntualizzato i giudici di appello — anche le propalazioni di Vitale
Monica, che al Parisi era legata da una relazione sentimentale e che pertanto, non certo illogicamente, è
stata considerata dai giudici territoriali a conoscenza delle dinamiche del sodalizio, sia per scienza diretta,
sia per averle apprese dallo stesso Parisi che, infine, per avere la stessa Vitale partecipato —come era
risultato dalle indagini dei Carabinieri di Palermo — ad alcune estorsioni: venuta a mancare la protezione del
Parisi, arrestato 1’11.7.11, il timore di essere uccisa da altri affiliati a ‘Cosa nostra’ l’aveva indotta a
collaborare con la giustizia, collaborazione nell’ambito della quale aveva riferito delle vicende della famiglia

2:51

_ mafiosa di Borgo Vecchio, affermando che dopo l’arresto del capo mafia Abbate Antonino, come capo
“- famiglia era subentrato il nipote Luigi (‘Gino il mitra’), che però in seguito ‘aveva sbagliato’, utilizzando il
denaro della ‘cassa’ per scopi personali, dissipandolo al gioco, e al suo posto era stato ‘messo’, per volontà
del Di Giovanni coreggente del mandamento di Porta Nuova, Parisi Gaspare, mentre Chiarello Francesco
era divenuto ‘il fiancheggiatore’ del Parisi estromettendo da tale ruolo, sempre su disposizione del Di

Giovanni, Buccheri Gabriele.
Le dichiarazioni della Vitale hanno trovato un preciso riscontro individualizzante — come puntualizzato dai
giudici palermitani — nelle risultanze della conversazione intercettata il 27.10.10, nel corso della quale il
Chiarello, preoccupato per la gestione della ‘cassa’ da parte di ‘Gino u’ mitra’, aveva riferito a Buccheri di
aver consegnato ingenti somme di denaro a ‘Gino’, palesandogli la sua preoccupazione ma ricevendo come
risposta dall’Abbate: « lo so quel che faccio», mentre Buccheri aveva fatto presente che erano necessari,
per le esigenze più immediate, 10.000 euro e Chiarello aveva concluso: « Siamo nella merda tutti».
Era pertanto verosimile ritenere — hanno non certo illogicamente sostenuto i giudici dì appello — che, come
aveva affermato la stessa Vitale, Chiarello avesse deciso di informare di tale situazione Di Giovanni
Tommaso, reggente del mandamento di Porta Nuova e che questi, intervenuto, aveva destituito
dall’incarico Abbate Luigi , sostituendolo con Parisi, persona di sua piena fiducia, tanto che — come era
risultato dagli accertamenti dei Carabinieri di Palermo – , dai primi mesi del 2011 Parisi, che fino a quel
momento aveva agito nella zona di via dei Cipressi, aveva iniziato ad operare nel territorio del Borgo
Vecchio.
Correttamente pertanto i giudici territoriali hanno ritenuto provato, con riferimento al Parisi, il reato di cui
al comma 2 dell’art.416-bis c.p. per facta concludentia, a nulla rilevando, per diversamente opinare, che la
cerimonia della presunta affiliazione del Parisi a ‘Cosa nostra’, secondo quanto raccontato dalla Vitale, che,
pur non avendovi assistito personalmente, aveva evidenziato che per l’occasione il Parisi intendeva
indossare abiti eleganti, non sia risultata provata con certezza essendo stato nell’occasione il predetto
indicato dagli investigatori come indossante abiti casual, dal momento che il coacervo probatorio
evidenziato ne ha disegnato la figura di partecipe dell’organizzazione mafiosa con ruolo direttivo.

go

- Fondata è invece la doglianza riferita al trattamento sanzionatorio, limitatamente alla violazione
dell’art.597, comma 4, c.p.p. e al difetto di motivazione in ordine alla ritenuta recidiva di cui al comma 5
dell’art.99 c.p., come ‘costituzionalizzato’ dalla ricordata sentenza della Consulta n.185/15.
A fronte, infatti, della determinazione da parte del primo giudice della pena, con le aggravanti contestate e
l’aumento per la recidiva reiterata , in anni 21 di reclusione, al giudice di secondo grado, in sede di rinvio,è

demandato analogo compito, per escludere la violazione del divieto di reformatio in peius, spettantegli con
riferimento alla posizione di Lo Presti Calogero, mentre la violazione del disposto di cui al comma 5
dell’art.99 c.p. è derivata dall’avere i giudici di appello operato un aumento automatico, oggi non più
consentito (ma con effetto ex tunc) a seguito della sentenza del Giudice delle leggi.
Inammissibile è invece, attese la genericità e la manifesta infondatezza, la doglianza relativa alla mancata
concessione delle attenuanti generiche, legittimamente negate dai giudici di appello in ragione dei
numerosi e anche gravi precedenti penali del Parisi, trattandosi di parametro considerato dall’art.133 c.p.
ed applicabile anche ai fini di cui all’art.62-bis c.p., mentre del tutto generica è la censura riguardante la
misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre, in relazione alla quale il ricorrente si è limitato a
sostenerne la sproporzione rispetto ai fatti contestatigli, senza alcuna argomentazione a sostegno della
doglianza.
Anche per Parisi Gaspare, quindi, deve operarsi un annullamento, limitatamente al trattamento
sanzionatorio, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
Quanto evidenziato con riferimento alla posizione di Parisi Gaspare non può che riguardare anche Buccheri
Gabriele, la cui partecipazione all’associazione mafiosa è dai giudici palermitani, con motivazione congrua
ed immune da profili di illogicità, fatta discendere dal contenuto delle conversazioni intercettate.
Significativa, in termini di intraneità del prevenuto al sodalizio, è la conversazione intercettata, in data
15.11.10, tra il predetto e Chiarello Francesco, avente ad oggetto la gestione della ‘cassa’ della famiglia di
Borgo Vecchio, anche relativamente al pagamento delle ‘mesate’,dolendosi i due del fatto che le esigenze
di Abbate Luigi (‘Gino u mitra’) anche in quel frangente avrebbero finito per prevalere mentre loro
avrebbero ancora dovuto ‘combattere’ per venti giorni, confidando nel ‘versamento’ di denaro da parte di
certo ‘Raffaele’ per il giovedì successivo e di altro soggetto per il sabato, così intendendo la Corte di merito,

3.!

non certo illogicamente,tali ‘versamenti’ quali provento di attività estorsiva, in mancanza anche di
qualsivoglia elemento per attribuirli a non illecita attività commerciale interessante il Buccheri e i suoi
interlocutori ed anche alla luce della precedente conversazione, intercettata il 27.10.10, nel corso della
quale Buccheri aveva rappresentato l’urgenza di denaro (« Ci vogliono 10.000 euro»), ricevendo dal
Chiarello l’eloquente risposta: « Nessuno te li presta».

del Parisi – nel corso della quale i due interlocutori (Chiarello e Buccheri) avevano parlato del vizio del
gioco che affliggeva ‘Gino u mitra’ e che lo portava a dissipare al Bingo il denaro della ‘cassa’, tanto che
Buccheri aveva ravvisato l’esigenza di reperire 10.000 euro per le necessità più pressanti e Chiarello aveva
concluso dicendo:« Siamo nella merda tutti», la Corte di merito ha tratto, con motivazione del tutto
logica, ulteriori elementi di conferma del ruolo attivo del Buccheri all’interno del sodalizio, per il quale si
spendeva ed era in costante contatto con gli altri affiliati.
La situazione di tensione che si era venuta a creare nella famiglia di Borgo Vecchio aveva anche condotto —
hanno osservato ancora i giudici di appello – al deterioramento dei rapporti tra Buccheri e Chiarello, fino a
che i due si erano nuovamente ‘appaciati’, secondo quanto era emerso dalla conversazione 19.4.11
intercorsa tra Lo Nardo Anna ( indicata dalla p.g. come ‘la ragazza del Chiarello’) e Gulizzi Eugenio (indicato
dalla p.g. come persona vicina ad Abbate Luigi ), tanto che Buccheri e Chiarello erano stati notati dalla p.g.
incontrarsi con Abbate e Parisi, a conferma del ruolo — hanno correttamente concluso sul punto i giudici
territoriali — di partecipe del Buccheri al sodalizio criminale che vedeva come nuovo capo famiglia Parisi
Gaspare, il tutto anche al di là — hanno conclusivamente osservato i giudici palermitani — delle dichiarazioni
accusatorie della Vitale.
Quanto al trattamento sanzionatorio, del tutto legittimamente sono state negate al prevenuto le attenuanti
generiche, in considerazione dei precedenti penali e della negativa personalità del Buccheri, trattandosi di
parametro considerato dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai fini di cui all’art.62-bis c.p., né vi è stata
violazione del disposto di cui al comma 4 dell’art.597 c.p.p., non avendo il primo giudice determinato la
pena ( con le aggravanti poi escluse in secondo grado) nel minimo edittale, ma tuttavia si impone
l’annullamento con rinvio per essere stato applicato l’aumento a titolo di recidiva reiterata ex art.99,

Proprio dal contenuto di quest’ultima conversazione — anch’essa già esaminata in relazione alla posizione

,

_ comma 5, c.p., nella lettura in combinato disposto con l’art.407 c.p.p., per i soli , con violazione quindi della norma citata, quale
‘costituzionalizzata’ in seguito alla citata sentenza n.185/15 della Corte costituzionale.
Anche il ricorso di Putano Francesco Paolo, in punto di responsabilità, non merita accoglimento.
Lungi dal far ricorso ad affermazioni puramente assertive circa il perpetrarsi di condotte ulteriori rispetto a
quelle per le quali il Putano ha riportato condanna per il reato di cui all’art.416-bis c.p. (con sentenza

..

divenuta irrevocabile il 14.5.04), come paventato dalla difesa del ricorrente, la condotta partecipativa del
prevenuto è stata anzitutto desunta — hanno puntualmente osservato i giudici di appello – dal contenuto
delle conversazioni intercettate, soprattutto all’interno della tabaccheria di via Carrabia n.25, gestita da
Bellino Giuseppe e frequentata anche da Castello Giovanni (nei confronti dei quali si è proceduto
separatamente, sempre per violazione dell’art.416-bis c.p.).
Nel corso della conversazione del 17.1.11, i due prevenuti, unitamente al Putano e a tale Scozzari
Giampiero, discutevano del comportamento tenuto da Allicate Rodolfo (soggetto, quest’ultimo, nei cui
confronti si procede, per il reato di cui all’art.416-bis c.p., con il rito ordinario), ritenuto riprovevole,
chiedendo conferma di tale negativo giudizio al Putano (« Vero è Paolo?»), mentre in quella del 19.1.11 il
Castello aveva affermato che la posizione dell’Allicate sarebbe stata vagliata in un’apposita riunione ed
aveva elogiato la condotta del ‘Paolo’ (Putano), divenuto un suo importante punto di riferimento all’interno
del sodalizio mafioso ed in grado di riparare alle negative condotte dell’Allicate ( « …E dove lo mando mi
dicono…minchia ma lo sai…un bravo ragazzo »).
In un’altra conversazione, anch’essa intercettata all’interno della tabaccheria del Bellino, il 9.2.11,
quest’ultimo — hanno ancora rimarcato i giudici palermitani — si era lamentato di «uno…(che) scende la
mattina e mette in difetto a me, a Rodolfo (Allicate)…a Giovannello (Castello) stesso, pure» ed il Putano
era intervenuto dicendo: « Solo che con noialtri non ci può…cioè appena vedo che c’è una cosa fuori luogo
ci dico…appena scendi ci dico…ne parlasse», censurando il comportamento del soggetto in questione che
era venuto meno al dovere di riservatezza tanto da rivelare episodi che riguardavano entrambi e
concludere con un eloquente: «A certuni ci pare che stanno andando a giocare al pallone!».

33

L’argomento era stato quindi ripreso nella successiva conversazione delle ore 10,05 del medesimo 9.2.11,
r nel corso della quale ancora Bellino si era lamentato per l’ambizione di alcuni sodali che « hanno tutti sta
cosa che devono essere i numeri uno!», trovando concorde il Putano che aveva affermato: « E poi fanno
apparire sta cosa che ci piace essere sempre in prima persona», per poi vantare la propria integrità ed
affidabilità, legata ad una incondizionata riservatezza e, nella conversazione del 12.2.11 — hanno ancora

rimarcato i giudici di appello -, in cui si discuteva dell’ del negozio di Napoli Nunzio, il Putano si
era dichiarato disponibile a contattare il Napoli per convincerlo a desistere dal cedere l’esercizio al
‘cinese’,onde favorire il subentro di Castello e Bellino nell’affare che avrebbe consentito di lucrare del
denaro (« Ci devono dare i soldi» era stata l’eloquente espressione usata dal Putano),a dimostrazione —
hanno correttamente osservato i giudici territoriali — che l’essersi offerto il Putano di portare a termine
l’acquisto dell’esercizio commerciale del Napoli, nell’interesse del Castello (soggetto risultato in posizione
sovraordinata al Putano), era comportamento significativo in termini di appartenenza del Putano al
sodalizio mafioso, a nulla rilevando che il Castello avesse poi preferito contattare al riguardo il genero del
Napoli.
Putano, inoltre, è risultato aver partecipato ad un incontro tra esponenti di tre diversi ‘mandamenti’,
tenutosi in un ristorante di Piazza Ingastone, negativamente commentato dal Castello, assieme al quale si
trovava ‘Paolo’, nella conversazione intercettata il 6.12.10, in ragione dell’eccesivo numero di partecipanti
che avrebbe potuto allertare le Forze dell’ordine ed anche tale condotta è stata — a prescindere dalla
circostanza se il Putano si trovasse o meno seduto al medesimo tavolo del ristorante assieme agli altri
appartenenti a sodalizio mafioso — correttamente valutata come significativa in ordine alla condotta
partecipativa del prevenuto, anche dopo la condanna e la detenzione in carcere, all’associazione mafiosa
come collaboratore di Castello Giovanni.
Quanto al trattamento sanzionatorio, le doglianze formulate con il secondo motivo di ricorso sono fondate,
dal momento che la Corte di appello ha riformato in peius la sentenza di primo grado con la quale è stata al
Putano stabilita la pena base, per il reato di cui all’art.416-bis c.p., nel minimo edittale di anni nove di
reclusione, poi aumentata per la continuazione e , fino ad anni 15.

?c,

_ Escluse, infatti, le contestate aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art.416-bis c.p., la pena base per il reato
‘ di cui al comma 1 dell’art.416-bis c.p. è stata fissata in misura superiore (anni 9) al minimo stabilito per

.

l’ipotesi non aggravata (anni 7) ed in tal senso vi è stata dunque violazione dell’art.597, comma 4, c.p.p.,
con conseguente annullamento sul punto della sentenza impugnata e rinvio, per nuova determinazione
della pena, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
Il primo motivo del ricorso di Mannino Giovanni è fondato.

La Corte di appello, infatti, pur avendo riconosciuto che per l’episodio specifico di spaccio sub f),
limitatamente alla cessione di droga a Simonetti Carlo, all’imputato è già stata applicata, ai sensi degli
artt.444 ss. c.p.p., la pena con sentenza 16.5.11 (irr.le il 10.6.11) del G.i.p. di Palermo, non ha poi proceduto
alla eliminazione del relativo aumento di pena comminato per tale reato, stabilendo per la continuazione di
cui al capo f) lo stesso aumento di pena (anni 1 di reclusione ed C 700,00 di multa) stabilito per Toscano
Fabrizio, pur non rispondendo più il Mannino della cessione di droga a Simonetti Carlo.
Sul punto, quindi, l’impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio, per nuova determinazione del
trattamento sanzìonatorio, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
Manifestamente infondato è il secondo motivo, avendo i giudici di appello del tutto legittimamente negato
al Mannino le attenuanti generiche in considerazione del numero e della gravità dei precedenti penali,
trattandosi di parametro considerato dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai fini di cui all’art.62-bis c.p.
Manifestamente infondati sono i ricorsi di Toscano Fabrizio e Toscano Giovanni.
Legittimamente, infatti, ai predetti sono state negate le attenuanti generiche: al Toscano Fabrizio, rilevata
la strumentalità della confessione resa perché ormai raggiunto — così come il Mannino al momento della
sua confessione — da elementi certi di reità, nonchè in considerazione della gravità dei fatti ascrittigli e dei
precedenti penali a suo carico, trattandosi di parametro considerato dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai
fini di cui all’art.62-bis c.p. ; Toscano Giovanni, in considerazione dei numerosi, gravi e anche specifici
(rapina) precedenti penali, trattandosi di parametro considerato dall’art.133 c.p. ed applicabile anche ai fini
di cui all’art.62.bis c.p. e senza che il ricorrente abbia in questa sede evidenziato concreti elementi di segno
positivo non considerati dai giudici di merito, al di là della confessione resa, correttamente ritenuta dalla

.

4″-

4
.. Corte palermitana strumentale e non sintomo di una effettiva resipiscenza, essendo intervenuta allorchè il
w prevenuto era ormai raggiunto da elementi decisivi di reità.
4
Da ultimo, manifestamente infondato è anche il ricorso di Zarcone Antonino.
Il ricorrente si duole, sostanzialmente, per la mancata assunzione della prova, a suo dire assolutamente
necessaria, rappresentata dal richiesto esame dell’imputato nella sua veste di neo collaboratore di giustizia,
in ragione del percorso in tal senso intrapreso con l’Autorità giudiziaria di Palermo, che avrebbe consentito

.

alla Corte territoriale di apprendere dallo Zarcone non solo fatti inerenti la condotta allo stesso contestata,
ma altresì acquisire materiale probatorio .
Osserva la Corte che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, prevista dall’art.603 c.p.p., è istituto di
carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua
discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez.un., 24 gennaio 1996, n.2780, Panigoni),
situazione che può sussistere quando i dati probatori già acquisiti siano incerti ovvero quando l’incombente
richiesto rivesta carattere di decisività, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze
oppure sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Cass., sez.II1,29 gennaio 2004,
n.3348; Sez.VI, 26 febbraio 2013, n.20095).
In ragione, infatti, della presunzione di completezza dell’istruzione dibattimentale di primo grado, solo la
verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale e la conseguente constatazione di non poter
decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria legittima il ricorso all’istituto di cui
all’art.603 c.p.p., ma tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in
sede di legittimità ove correttamente motivata (v. Cass., sez.VI, 13 gennaio 2015, n.8936).
Orbene, nella specie, la Corte palermitana non ha attivato l’istituto in argomento non solo e non tanto in
considerazione della fase processuale (udienza di discussione) in cui la richiesta di esame dello Zarcone è
stata formulata, quanto piuttosto in ragione della non decisività del mezzo probatorio richiesto ai fini della
decisione.

3C

. Tale valutazione è stata congruamente motivata dai giudici di appello, con particolare riguardo all’esame
della documentazione esibita dal difensore dello Zarcone e al contenuto delle dichiarazioni spontanee rese
dal medesimo imputato, reputando la Corte di merito tali elementi non decisivi per la definizione del
processo, nel quale sono confluiti, in ragione del rito prescelto dagli imputati, tutti gli atti di indagine, senza
che comunque — ha osservato conclusivamente sul punto la Corte palermitana — la difesa dello Zarcone

abbia indicato .
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Zarcone Antonino, Toscano Fabrizio e Toscano Giovanni
segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore
della Cassa delle ammende che reputasi equo determinare in C 1.000,00.
Al rigetto del ricorso di Teriaca Filippo segue la condanna del medesimo al pagamento delle spese
processuali.
Lo Presti Calogero, Di Giovanni Tommaso, Milano Nicolò, Putano Francesco Paolo, Zarcone Antonino,
Buccheri Gabriele e Parisi Gaspare vanno da ultimo condannati, in solido tra loro, a rifondere le spese
sostenute per il presente giudizio dalle parti civili indicate in dispositivo, liquidate per ciascuna in
complessivi C 3.000,00, oltre accessori come per legge, con distrazione, per tutte, delle spese anticipate e
degli onorari non riscossi in favore dei difensori muniti di procura speciale.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, nei confronti di LO PRESTI
Calogero, DI GIOVANNI Tommaso, MILANO Nicolò, PUTANO Francesco Paolo, BUCCHERI Gabriele, PARISI
Gaspare e MANNINO Giovanni, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per nuovo
esame sul punto;
rigetta nel resto i ricorsi.
Rigetta il ricorso di TERIACA Filippo che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibili i ricorsi di TOSCANO Fabrizio, TOSCANO Giovanni e ZARCONE Antonino e condanna
ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.

3 4-

Condanna Lo Presti Calogero, Di Giovanni Tommaso, Milano Nicolò, Putano Francesco Paolo, Zarcone
Antonino, Buccheri Gabriele e Parisi Gaspare alla rifusione, in solido, delle spese sostenute per il presente
di

giudizio dalle parti civili Comune di Palermo; Confindustria Palermo; Centro Studi ‘Pio La Torre’ Onlus
Palermo;Confcommercio Palermo; Associazione Antiracket e Antiusura ‘Coordinamento delle Vittime
dell’estorsione, dell’usura e della mafia’ Onlus; Associazione Antiracket e Antiusura ‘Consulta delle piccole e

complessivi C 3.000,00, oltre accessori come per legge, con distrazione, per tutte, delle spese anticipate e
degli onorari non riscossi in favore dei difensori muniti di procura speciale.
Roma, 7 ottobre 2015

medie imprese di Palermo’; Associazione Solidaria’ Onlus; SOS ‘Impresa’ Onlus, liquidate per ciascuna in

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