Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47855 del 11/10/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 47855 Anno 2013
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: CASSANO MARGHERITA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GRIZZAFFI GIOVANNI N. IL 16/10/1949
avverso l’ordinanza n. 45/2012 CORTE ASSISE APPELLO di
PALERMO, del 18/12/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARGHERITA
CASSANO;
lette/sertite le conclusioni del PG Dott. O _

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Uditi difensor Avv.;

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CAQ_

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Data Udienza: 11/10/2013

Ritenuto in fatto.

LH 18 dicembre 2012 la Corte d’assise d’appello di Palermo, in funzione di

giudice dell’esecuzione, rigettava l’opposizione proposta da Giovanni Grizzaffi, ex
art. 667, comma 4, c.p.p. avverso il provvedimento della medesima Autorità
giudiziaria che, in data 27 settembre 2012, aveva dichiarato inammissibile l’istanza
presentata dallo stesso, volta ad ottenere l’applicazione dell’indulto ai sensi della 1.

2.La Corte così riepilogava lo svolgimento della vicenda processuale.
Il 21 febbraio 2008 il giudice dell’esecuzione applicava, nella misura di tre anni,
l’indulto ex 1. n. 241 del 2006 “sulla pena di cui alla sentenza resa dalla Corte
d’assise d’appello il 18 marzo 2000 dalla Corte d’assise d’appello…con cui a
Grizzaffi era stata irrogata la pena di trenta anni di reclusione, cui si era pervenuti
anche in virtù del ricorso al criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p.”
L’Ufficio del Pubblico ministero, dando esecuzione alla suddetta ordinanza,
detraeva i tre anni dai trenta anni della pena fissata dalla Corte d’assise d’appello,
omettendo di considerare che sulla pena di cinque anni di reclusione, irrogata dalla
suddetta Corte d’assise per il delitto di associazione per delinquere di stampo
mafioso, l’indulto non poteva essere applicato e che, a seguito del nuovo cumulo, la
pena rimaneva sempre pari a trenta anni di reclusione.
Con una successiva ordinanza del 24 giugno 2009 il giudice dell’esecuzione,
pronunziandosi su richiesta del Procuratore generale presso la Corte d’appello di
Palermo, precisava che il precedente provvedimento aveva applicato l’indulto sul
cumulo materiale (trentacinque anni di reclusione) e non su quello giuridico (trenta
anni di reclusione), sicché, nonostante l’applicazione dell’indulto, la pena da espiare
era pari a trenta anni di reclusione.
3.Sulla base di tali premesse fattuali il provvedimento oggetto del presente
ricorso osservava che la “non ottimale chiarezza” dell’ordinanza del 21 febbraio
2008 non poteva avere dato luogo ad alcuna giudicato, sicché, oltre che opportuna,
l’ordinanza del 24 giugno 2009, era sicuramente legittima.
Rilevava, inoltre, che l’istanza avanzata da Grizzaffi il 15 giugno 2012, volta ad
ottenere l’annullamento dell’ordinanza del 24 giugno 2009, si sostanziava in una
mera opposizione al provvedimento del 24 giugno 2009 e, in quanto tale, risultava

1

n. 241 del 2006.

proposta fuori termine. La stessa, inoltre, riproponeva le medesime richieste, già
disattese dalla Corte d’assise d’appello con altra ordinanza del 9 novembre 2009.
Quand’anche, poi, si ritenessero fondate le doglianze del ricorrente circa l’esatta
interpretazione della sua domanda, volta in realtà ad ottenere soltanto che, in
presenza di due diverse e contrapposte ordinanze emesse dalla medesima Autorità
giudiziaria in materia di applicazione dell’indulto ex 1. n. 241 del 2006, sia ritenuta
definitiva e insuscettibile di successiva modificazione, in assenza di nuovi elementi

21 febbraio 2008 messa in esecuzione dal Pubblico ministero), é in ogni caso
indubitabile che, in materia esecutiva, non può parlarsi di “giudicato” e che il
giudice dell’esecuzione ha, sia pure in diversa composizione, il potere di chiarire la
portata applicativa di un precedente provvedimento.
Nel merito, infine, il giudice dell’esecuzione argomentava che era improprio il
riferimento alla decisione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. n. 36837 del
15 luglio 2010), non concernente una questione analoga a quella in esame, e che
doveva, pertanto, essere riconfermato l’indirizzo interpretativo per il quale è da
escludere che nel novero delle pene non eseguibili per qualsiasi causa debbano
includersi anche quelle residuate dopo l’applicazione del criterio moderatore di cui
all’art. 78 c.p.. Quest’ultima disposizione normativa ha la sola finalità di prevedere
(contenendolo) il massimo della pena da espiare, ma non incide sulle pene residuali,
non estinguendole né escludendone in via definitiva l’esecutività, tanto meno per
agevolare il duplice ingiustificato abbattimento della pena.
4.Avverso il suddetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione, tramite
il difensore di fiducia, Grizzaffi, il quale lamenta violazione di legge ed erronea
applicazione della legge processuale penale sotto i seguenti profili. L’ordinanza del
21 febbraio 2008 doveva ritenersi ormai definitiva, atteso che non era stata
impugnata e aveva formato oggetto di esecuzione da parte della Procura generale
che, per effetto dell’applicazione dell’indulto ex 1. n. 241 del 2006, aveva detratto
tre anni di reclusione dai complessivi trenta anni con conseguente rideterminazione
della pena in ventisette anni di reclusione. Il principio della preclusione processuale
opera anche in sede esecutiva, siccome principio di carattere generale
dell’ordinamento processuale.
Deduce, inoltre violazione degli artt. 174, comma 2, e 78, comma 1, c.p.
osservando che, nel caso in esame, il condannato, nel riproporre in via subordinata
2

di fatto, quella emessa per prima e più favorevole (nel caso in esame quella in data

la questione dell’applicazione dell’indulto sul cumulo giuridico anziché su quello
materiale, aveva fatto riferimento proprio ad una decisione, sia pure incidentale
delle Sezioni Unite che, in base a quanto statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite
n. 18288 del 21 gennaio 2010, legittima la riproposizione della questione prima
accolta con l’ordinanza del 21 febbraio 2008, riformata in peius dall’ordinanza 24
giugno 2009.

Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Il principio del ne bis in idem permea l’intero ordinamento giuridico e fonda

il preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica
regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate
al sistema. A tale divieto va, pertanto, attribuito, il ruolo di principio generale
dell’ordinamento dal quale, a norma del secondo comma dell’art. 12 delle preleggi,
il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione
logico-sistematica.
La matrice del divieto del ne bis in idem deve essere identificata nella categoria
della preclusione processuale. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo
segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli
passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio
dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la
conseguenza che la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento
per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari
conformazioni risultanti dalle scelte del legislatore. Il processo, infatti, quale
sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di
attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di determinati
criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del
raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le
esigenze di giustizia, di certezza e di economia.
Questa impostazione teorica, comunemente accolta anche dalla dottrina
processuale penalistica, rende evidente che la preclusione costituisce un istituto
coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non come serie
ordinata di atti normativamente coordinati tra toro, ciascuno dei quali – all’interno
dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da
3

Osserva in diritto.

quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo
precise interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione, attinente all’ordine
pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in
forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio
di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità
prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto
incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere. In quest’ultima

consumazione del potere. Nel perimetro della preclusione-consumazione ricade,
oltre all’esercizio dell’azione penale, anche il potere di ius dicere ad opera del
giudice, secondo quanto costantemente affermato dalla consolidata giurisprudenza
di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un. 28 giugno 2005, n.34655, rv. 231799; Cass.,
Sez. Un. 14 luglio 2004, rv. 228666; Cass., Sez. Un. 31 marzo 2004, rv. 227358;
Cass., Sez. Un. 18 maggio 1994, r. 198543; Cass., Sez. Un. 29 maggio 2002, rv.
221999; Cass., Sez. Un. 22 marzo 2000, rv. 216004; Cass., Sez. Un. 19 gennaio
2000, rv. 216239; Cass., Sez. Un. 23 febbraio 2000, rv. 215411; Cass, Sez. Un., 10
dicembre 1997, rv. 209603; Cass., Sez. Un. 31 luglio 1997, rv. 208220; Cass., Sez.
Un., 26 marzo 1997, rv. 207640; Cass., Sez. Un. 18 giugno 1993, rv. 194061; Cass.,
Sez. Un. 8 luglio 1994, rv. 198213; Cass., Sez. Un. 23 novembre 1990, rv. 186164;
Corte Cost., sent. n. 318 del 2001, n. 144 del 1999, n. 27 del 1995;).
2.Tanto premesso il Collegio osserva che, nel caso in esame, sussiste una
preclusione processuale all’esame delle questioni poste dal ricorrente, atteso che le
stesse hanno formato oggetto di precedenti decisioni ormai definitive sulla
medesima questione.
2.1.Invero, come esattamente rilevato dal giudice dell’esecuzione, con
l’ordinanza del 21 febbraio 2008 la Corte d’appello di Palermo, investita della
richiesta avanzata da Grizzaffi, volta ad ottenere l’applicazione dell’indulto ex 1. n.
241 del 2006 sulla pena di trenta anni di reclusione, inflitta con sentenza della Corte
d’assise d’appello del 18 marzo 2000 ( irrevocabile il 21 giugno 2001), richiamava,
innanzitutto, i criteri con cui si era pervenuti alla determinazione della pena finale
di trenta anni di reclusione: pena base per il delitto di omicidio (capo 43): anni 28 di
reclusione; aumento di cinque anni per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. (capo 2);
aumento di un anno per il delitto di cui al capo 42; aumento di un anno per il delitto
di cui al capo 44; applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. Sulla
4

ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della

base di tale premessa in fatto e richiamati i principi costantemente enunciati dalla
giurisprudenza di questa Corte in tema di limiti di applicabilità dell’indulto in
presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti, comprensivo
anche di reati ostativi all’applicabilità del beneficio indulgenziale, e di necessità
dello scioglimento del cumulo ai fini del riconoscimento del beneficio ai soli delitti
non ostativi, riconosceva il diritto di Grizzaffi all’applicazione dell’indulto

ex

1. n.

241 del 2006 nella misura di tre anni ai soli reati non ostativi.

dell’esecuzione si pronunciava su un duplice oggetto: a) la richiesta avanzata dal
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Palermo, quale
organo competente a curare l’esecuzione, volta a stabilire se l’indulto

ex

1. n. 241

del 2006 fosse da applicare alla pena di 35 anni di reclusione, determinata ai sensi
dell’art. 73 c.p., oppure su quella di trenta anni di reclusione conseguente
all’applicazione del criterio moderatore; b) la domanda formulata da Grizzaffi, volta
ad ottenere l’applicazione dell’indulto

ex

d.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394 sulla

medesima sentenza.
In tale contesto la Corte d’appello di Palermo rigettava l’istanza di applicazione
dell’indulto

ex

d.P.R. n. 394 del 1990 e, con riferimento al beneficio indulgenziale

di cui alla 1. n. 241 del 2006 rilevava esattamente quanto segue. Occorreva
procedere al preventivo scioglimento del cumulo; l’applicazione dell’indulto

ex

1. n.

241 del 2006 nella misura di tre anni operava solo in relazione al cumulo delle pene
condonabili pari a trenta anni di reclusione così determinati: pena base di anni 28
irrogata per il delitto di omicidio; pena di un anno di reclusone per il delitto di
sequestro di persona; pena di un anno di reclusione per il delitto di distruzione di
cadavere). Chiariva, altresì, che, effettuata tale operazione, era necessario procedere
ad un nuovo cumulo tra la pena di ventisette anni di reclusione e la pena di cinque
anni di reclusione inflitta per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., non ricompreso
nell’ambito applicativo della 1. n. 241 del 2006. La pena così calcolata era soggetta
al criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. e, pertanto, doveva essere determinata in
trenta anni di reclusione.
2.3.Con successiva ordinanza del 9 novembre 2009 la Corte d’appello
dichiarava inammissibile l’opposizione proposta da Giovanni Grizzaffi avverso il
precedente provvedimento del 24 giugno 2009 per omesso rispetto del termine
stabilito a pena di decadenza dall’art. 667, comma 4, c.p.p.
5

2.2.La successiva ordinanza del 24 giugno 2009 del medesimo giudice

2.4.Sulla base di questi elementi di fatto puntualmente riepilogati, correttamente
la Corte d’appello di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, ha ritenuto sussistente,
in assenza di nuovi elementi, la preclusione ad un nuovo esame delle medesime
questioni che erano già state esaminate dall’ordinanza del 24 giugno 2009, divenuta
definitiva a seguito dell’omessa tempestiva presentazione dell’opposizione da parte
dell’interessato.
3.Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, non si è, quindi, in presenza

ordinanze del 21 febbraio 2008 e del 24 giugno 2009 che hanno concordemente
riaffermato il seguente principio di diritto, costantemente enunciato dalla
giurisprudenza di legittimità.
La regola dettata dall’art. 174 c.p., comma 2, in base al quale, nel concorso di
più reati, l’indulto si applica una sola volta, dopo avere provveduto al cumulo delle
pene, secondo le norme concernenti il concorso di reati, opera solo alla condizione
che tutte le pene siano condonabili, giacché nessuna causa di estinzione della pena
può incidere su un cumulo che comprenda sanzioni sulle quali la stessa causa non
può esplicare i suoi effetti. In questo caso, infatti, occorre, innanzitutto, separare le
pene condonabili da quelle non condonabili, procedere, quindi, alla unificazione
delle pene non condonabili con la parte di quelle condonabili, residuata dopo
l’applicazione del beneficio indulgenziale, ed effettuare, infine, all’esito di tale
operazione, la riduzione prevista dall’art. 78 c.p.
La circostanza che la applicazione di tale principio renda di fatto inoperante il
riconoscimento dell’indulto non appare, in un’ottica logico-sistematica, dirimente;
la pratica inoperatività dell’effetto estintivo dell’indulto deriva dal fatto che la
pena, pur ridotta per la corretta applicazione del beneficio indulgenziale, entrando
nel cumulo, porta la pena complessivamente determinata con calcolo aritmetico a
livelli superiori a quelli previsti dal cumulo giuridico e lascia invariato il limite
massimo, pur potendo il beneficio rilevare ad altri fini (Sez. 1, 21.1.2009, n. 5978;
Sez. 1, 13.11.2007, n. 43684; Sez.1, 11.5.2006, n. 19339; Sez. 1, 20.2.1996, n.
1123; Sez. 1, 18.7.1994, n. 3628).
Alla luce di questi principi appare, all’evidenza, rispettosa del dettato
normativo la soluzione reiteratamente adottata dal giudice dell’esecuzione che ha
argomentato che, se una delle pene diventa in tutto o in parte ineseguibile, la
conseguente detrazione va operata non sull’entità della pena stabilita all’esito
6

di un’ipotesi disciplinata dall’art. 669 c.p.p., atteso l’univoco disposto delle

dell’applicazione del criterio moderatore ex art. 78 c.p., ma sulle frazioni di pena
che compongono il cumulo materiale.
Inconferente, pertanto, in tale prospettiva appaiono il richiamo all’art. 73 c.p. e
l’invito ad una lettura dell’art. 76 c.p. che, prescindendo dalla clausola di
sussidiarietà presente in tale disposizione, tende a prospettare un’interpretazione
della legge penale distonica rispetto al chiaro disposto letterale e logico-sistematico
dell’art. 174, comma 2, c.p.

del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa
l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione 8Corte Cost. sent. n. 186
del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle
ammende.
Così deciso, in Roma, 1’11 ottobre 2013.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna

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