Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47288 del 12/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 47288 Anno 2015
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: CALVANESE ERSILIA

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
Secolo Domenico, nato a Rosarno il 9/03/1959
avverso la sentenza del 5/03/2015 della Corte di appello di Brescia
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Paolo Canevelli, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria e rigetto del resto.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Brescia, sul gravame
dell’imputato e del P.M., in parziale riforma della sentenza del Tribunale della
medesima città del 4 ottobre 2012, dichiarava non doversi procedere nei
confronti di Domenico Secolo per intervenuta prescrizione per una serie di
episodi di peculato, previa riqualificazione dei fatti contestati nel reato di truffa, e
rideterminava la pena per la residua imputazione di calunnia, confermando le
statuizioni civili in favore della parte civile in ordine a quest’ultimo reato ed il
resto.

Data Udienza: 12/11/2015

All’imputato era stato contestato di essersi appropriato, in qualità di Vice
Segretario del Comune di Erbusco, di somme versate da privati a titolo di diritti
di segreteria per una pluralità di contratti stipulati nella qualità di ufficiale
rogante e di aver affermato, nell’interrogatorio reso dopo aver ricevuto l’avviso
di conclusione delle indagini preliminari per tali fatti, che le somme in questione
erano state percepite da tre dipendenti del Comune, così falsamente accusandoli

In particolare, in sede di interrogatorio davanti al P.M., a seguito dell’avviso
di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., l’imputato aveva sostenuto che, pur
avendo firmato le distinte di liquidazione dei diritti di segreteria, non aveva
percepito le somme incassate che invece erano state ripartite, come sorta di
gratificazione, tra i tre dipendenti comunali che seguivano materialmente le
pratiche.
In primo grado, il Tribunale, nel condannare l’imputato per i reati di
peculato, unificati dal vincolo della continuazione, e di calunnia alle pene
rispettivamente di anni quattro, mesi due, giorni quindici di reclusione e anni due
di reclusione, lo dichiarava altresì’, ai sensi dell’art. 29 cod. pen., interdetto dai
pubblici uffici per la durata di anni cinque.
In sede di appello, relativamente al reato di calunnia, la Corte bresciana
osservava che non era accogliibile la tesi della difesa dell’imputato, secondo cui
non era configurabile il reato, essendosi questi limitato a difendersi in sede di
interrogatorio e avendo agito comunque senza dolo, essendo convinto che si
trattasse solo di mere irregolarità contabili.
Secondo la Corte di appello, l’imputato, in sede di interrogatorio, non si era
limitato a difendersi, ma aveva accusato, sapendoli innocenti, i tre dipendenti
comunali di condotte, che – stante la sua qualità professionale, il processo
contabile subito per le condotte in esame e l’avviso di conclusione delle indagini
preliminari – era ben a conoscenza essere fatti penalmente rilevanti.
Infine, la Corte di appello accoglieva l’appello del P.M. e rideterminava la
pena, elevandola ad anni tre di reclusione, e confermando le statuizioni civili solo
in ordine al reato di calunnia e le restanti statuizioni di primo grado.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il difensore
dell’imputato, articolando sei motivi di impugnazione, con cui lamenta:
– la violazione degli artt. 581, comma 1, lett. c), e 591, comma 1, lett. c),
cod. proc. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare
inammissibile il gravame del P.M., per genericità e aspecificità dei motivi, non

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dell’illecita appropriazione.

avendo l’Ufficio requirente sviluppato alcuna argomentazione a sostegno della
richiesta di reformatio in peius della pena per il reato di calunnia;

l’errata valutazione dell’elemento soggettivo del reato, in quanto la

sentenza impugnata avrebbe tratto argomenti per provare il dolo dalla condanna
contabile, benché la stessa fosse intervenuta solo poche settimane prima
dell’interrogatorio e avesse ritenuto la responsabilità dell’imputato solo per colpa,
rendendo quindi fondata la tesi che l’imputato non si era rappresentato la

– il mancato riconoscimento della scriminante dell’esercizio del diritto di
difesa, in quanto le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio dall’imputato
avevano la finalità squisitamente difensiva di dimostrare la sua buona fede
ovvero di non aver avuto la consapevolezza della illiceità delle modalità di
gestione dei diritti di segreteria, chiamando a conferma dell’assunto il fatto che
queste venivano condivise con i suoi collaboratori;
– l’incompletezza della motivazione a sostegno della mancata concessione
delle attenuanti generiche, avendo la sentenza impugnata valorizzato aspetti
della personalità dell’imputato che non trovato rispondenza nella realtà,
travisando alcune circostanze, quali la reiterazione della condotta nel corso del
dibattimento e la mancata resipiscenza;
– l’illegittimità della pena accessoria, non avendo il Giudice di appello speso
alcuna motivazione sulla conferma della pena accessoria, che doveva ritenersi
travolta dal proscioglimento per i reati per i quali era stata applicata in primo
grado e non può ritenersi fungibile per il reato di calunnia.
Con l’ultimo motivo, il ricorrente rinnova la richiesta del riconoscimento della
sospensione condizionale della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso va rigettato per le ragioni di seguito illustrate.

2. Il primo motivo è infondato.
E’ principio più volte affermato da questa Corte – e che in questa sede va ribadito
– che non possono applicarsi, in punto di genericità, all’appello, gli stessi
parametri che operano rispetto al ricorso per cassazione (Sez. 3, n. 31939 del
16/04/2015, Falasca Zamponi, Rv. 264185).
Nell’ambito del giudizio di appello è infatti sufficiente che la parte indichi
specificamente i punti della sentenza di primo grado che richiede che siano
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rilevanza penale delle condotte attribuite ai dipendenti comunali;

riesaminati dal giudice di appello, indicando le ragioni della richiesta. Per
stabilirne l’ammissibilità, l’atto d’impugnazione deve essere valutato nel suo
complesso perché solo attraverso un esame unitario è possibile verificare la
completezza del suo contenuto e, quindi, la sua idoneità a dare impulso al grado
successivo di giudizio (tra tante, Sez. 6, n. 29235 del 18/05/2010, Amato e altri,
Rv. 248205).

dichiarare inammissibile l’appello del P.M., in quanto il relativo atto di
impugnazione, non solo conteneva la specifica indicazione dei capi impugnati
(qualificazione della fattispecie delittuosa, trattamento sanzionatorio), ma per
ciascun capo indicava, in modo sintetico ma puntuale, le ragioni delle censure.

2. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
La sentenza impugnata, invero, nel confermare la sussistenza dell’elemento
soggettivo del reato di calunnia, ha richiamato – per dimostrare la
consapevolezza dell’imputato di attribuire ad altri un fatto costituente illecito
penale – non solo la condanna contabile riportata e la sua qualifica professionale,
ma anche la conoscenza da parte di questi, attraverso l’avviso ex art. 415-bis
cod. proc. pen., delle imputazioni penali a lui sollevate dalla Procura della
Repubblica. Elemento che logicamente sostiene il ragionamento della Corte di
appello.
Per il resto, il motivo sollecita valutazioni nel merito, inammissibili in sede
di legittimità.

3. Miglior sorte non va assegnata al terzo motivo.
La sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi più volte
affermati da questa Corte in tema di rapporti tra reato di calunnia e diritto di
difesa.
Invero, va ribadito che l’imputato, nel corso del procedimento instaurato
a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui
sfavorevoli, ma commette il reato di calunnia quando assuma ulteriori iniziative
dirette a coinvolgere altri – di cui pure conosce l’innocenza – nella incolpazione
specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto (tra tante, Sez. 1, n.
26455 del 26/03/2013, P.G., P.C. e Knox, Rv. 255678).
Per il resto, il motivo sollecita valutazioni nel merito, inammissibili in sede
di legittimità.

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Nel caso in esame, non appare in ogni caso giustificata la decisione di

4. Ad analoghe conclusioni questo Collegio deve pervenire in ordine al
quarto motivo.
La motivazione della sentenza impugnata in punto di non concessione
delle attenuanti generiche appare congruamente motivata e priva di illogicità
manifeste, tenuto conto anche che il mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l’assenza di
elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica
dell’art. 62 bis cod. pen., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito
con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini
della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di
incensuratezza dell’imputato (considerato che il reato in esame è stato
commesso nel 2009).
Anche in tal caso, il ricorrente propone inammissibili incursioni nel merito,
chiedendo alla Corte di apprezzare circostanze fattuali che non emergono dal
testo del provvedimento impugnato (essendosi tra l’altro il ricorrente limitato a
richiamare atti processuali o a riportarne succinti stralci, rendendo aspecifiche le
proprie deduzioni, cfr., al riguardo, Sez. F, n. 32362 del 19/08/2010, Scuto ed
altri, Rv. 248141).
Nè all’evidenza può rilevare in ogni caso la circostanza che l’imputato
abbia versato una somma per risarcire il Comune per il mancato introito dei
diritti di segreteria, posto che essa non ha alcuna rilevanza in relazione al delitto
di calunnia.

5. Infondato è il quinto motivo.
L’applicazione della pena accessoria

ex art. 29 cod. pen. (nella specie

l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque) non comporta un
obbligo di motivazione, essendo un effetto automatico della condanna.
Pertanto, la sentenza impugnata nel confermare le statuizioni del primo
giudice, non riformate in dispositivo, ha richiamato anche tale punto della
decisione di primo grado, correttamente applicabile in relazione alla condanna
inflitta all’imputato in grado di appello.

6. L’ultimo motivo si pone al di fuori del perimetro dei casi di ricorso
previsti dall’art. 606 cod. proc. pen. e pertanto ne va dichiarata anche per esso
l’i na mmissi bilità.

7. Alla luce di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato con la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 12/11/2015.

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