Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47282 del 05/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 47282 Anno 2015
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: SCALIA LAURA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BATACCHI ANDREA N. IL 09/07/1963
avverso la sentenza n. 349/2012 CORTE APPELLO di TRENTO, del
18/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/11/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LAURA SCALIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per i t 11

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Udito, per la parte civile, l’Avv
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Data Udienza: 05/11/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza pronunciata in data 18.10.2013, la Corte di Appello di
Trento, rigettando l’impugnazione proposta da Andrea Batacchi avverso la
sentenza emessa dal Tribunale della medesima città il 09.07.2012, ha
confermato la condanna del prevenuto alla pena di un anno di reclusione;
nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile
liquidato in euro 15 mila, per il reato di oltraggio a magistrato in udienza

Al Batacchi è addebitato di avere offeso – nel corso dell’udienza tenutasi
in data 21.07.2010, nell’ambito del procedimento n. 2153/06, celebrato
avanti la Corte d’ Assise di Padova – l’onore ed il prestigio della dottoressa
Renza Cescon, pubblico Ministero d’udienza, definendola «falsa»,
«bugiarda» e dedita a «scorribande giudiziarie».
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ricorre per cassazione la
difesa dell’imputato, affidando il proposto mezzo ad un unico articolato
motivo.
La parte ricorrente denuncia manifesta illogicità della motivazione (art.
606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.), per avere la Corte territoriale
formulato il proprio giudizio di colpevolezza, dopo aver incongruamente
astratto – tentandone quindi un inserimento nel paradigma normativo
dell’art. 343 cod. pen. – le parole «scorribande giudiziarie», «falsa»
e «bugiarda», contenute in imputazione, dal contesto in cui vennero
pronunciate.
Siffatto contesto, contrassegnato dal sindacato e dall’aspra critica
condotti dall’imputato – nel corso delle spontanee dichiarazioni rese e
durante le repliche rese in udienza dalla pubblica Accusa – avverso l’operato,
e non la persona, del pubblico Ministero, avrebbe dovuto condurre la Corte,
deduce la difesa, a ritenere in capo al Batacchi l’esimente dell’esercizio del
diritto di critica.
Quest’ultimo, quale corollario del diritto di difesa, avrebbe invero portato
la Corte all’affermazione di un giudizio di colpevolezza solo ove le frasi
pronunciate dal prevenuto, non attinenti al dato processuale, avessero
integrato autonomo reato.
La Corte avrebbe dovuto ravvisare, pertanto, solo in tal modo
congruamente motivando la propria decisione:
– nel termine «scorribande», la locuzione «scorrere» utilizzata
dal medesimo pubblico Ministero che, nel formulare l’ imputazione a carico
del Batacchi in distinto procedimento avente ad oggetto un reato
1

(art. 343 cod. pen.).

associativo, aveva contestato al prevenuto, per l’appunto, lo «scorrere
delle armi»;
– negli appellativi «falsa» e «bugiarda», una immediata reazione
dell’imputato – processato in quella sede per omicidio – all’affermazione
resa dal pubblico Ministero – mentre illustrava alla Corte di assise le proprie
repliche – per la quale il pentito che aveva accusato il Batacchi, ricevendo
così un trattamento sanzionatorio di favore, sarebbe stato condannato in
altro connesso procedimento alla pena di 16 anni, mentre ciò non

Per l’introdotto motivo, denuncia ancora la difesa come la Corte di
appello, decontestualizzando le dichiarazioni dell’imputato dalle dinamiche
del processo, non avrebbe fornito spiegazione sul perché delle dichiarazioni
incriminate che, in quanto profferite al solo scopo di offendere l’onore ed il
prestigio del Magistrato, avrebbero costituito un non senso logico ed
avrebbero incongruamente condotto la Corte territoriale a ritenere integrato
l’estremo soggettivo del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

La difesa del Batacchi fa valere la manifesta illogicità della

motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte di appello di Trento per avere
ricondotto il fatto, così come accertato ai danni dell’imputato, all’astratto
paradigma normativo dell’oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343 cod.
pen.), non scriminato dall’esercizio del diritto di critica e, più puntualmente,
dall’esimente specifica del diritto di difesa esercitato, nel processo, da una
parte nei confronti di un’altra, nell’osservanza dei dovuti limiti di continenza
(artt. 343 e 598, primo comma, cod. pen.).

2. La giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 14201 del 06/02/2009,
Dodaro), in sostanziale adesione al pronunciamento del Giudice delle leggi
(così per gli esiti interpretativi di rigetto di cui alla sentenza n. 380 del
1999), ha riconosciuto l’applicabilità della scriminante specifica di cui all’art.
598, primo comma, cod. pen. (“Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi
alle autorità giudiziarie o amministrative”) al delitto previsto dall’art. 343
cod. pen. (“Oltraggio a un magistrato in udienza”), escludendo ogni
distinzione a seconda che il destinatario delle espressioni offensive sia una
parte privata (imputato; difensore; parte civile) o il pubblico Ministero.
L’espresso orientamento (Sez. 6, n. 20085 del 26/04/2011, Prencipe)
muove dagli esiti interpretativi raggiunti dalla Corte di legittimità sui
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corrispondeva al vero.

contenuti della scriminante dell’esercizio del diritto di critica nei delitti contro
l’onore, scriminante che come tale deve essere sostenuta dalla correttezza e
dalla continenza delle espressioni utilizzate.
Da siffatta premessa, la giurisprudenza di legittimità si è fatta portatrice
della necessità che allorché la fattispecie contestata sia quella dell’oltraggio
a un magistrato in udienza (art. 343 cod. pen.), le espressioni di dissenso
portate all’operato di un magistrato dall’imputato, e più in generale da una
parte privata, nel processo, siano scriminate dalla esimente speciale di cui

continenza.
Quest’ultimo resta in modo poi specifico contrassegnato, quanto a
contenuti, dalla diretta ed immediata riferibilità dell’espressione utilizzata
all’oggetto della controversia e dalla rilevanza funzionale della prima alle
argomentazionì poste a fondamento della tesi prospettata dalla parte nel
processo (Sez. 6, n. 21112 del 23/03/2004, Perniciaro).
Quanto alle modalità di esercizio che le espressioni adoperate restino
contenute nell’ambito di un dissenso motivato ed espresso in termini corretti
e misurati che non trasmodino in toni lesivi dell’onorabilità del destinatario
(Sez. 6, n. 14201 del 06/02/2009, Dodaro, Rv. 243833).
Resta infatti per i riportati estremi salvaguardata quella posizione
paritaria riconosciuta all’interno del processo penale alle parti e, quale
espressione di detta esigenza, il diritto di critica che le parti, tutte, possono
esercitare anche rispetto all’operato del Magistrato purché l’esercizio, resti
circoscritto alla legittimità ed opportunità del provvedimento in sé
considerata e non sconfini nella illecita critica alla persona del Magistrato
(Sez. 6, n. 20085 cit.).

3. In applicazione dei richiamati principi, i motivi articolati dal ricorrente
sono infondati.
Il ricorrente denuncia per il proposto ricorso l’ illogico argomentare della
Corte che sarebbe stata in ciò guidata da una impropria parcellizzazione e
decontestualizzazione delle affermazioni rese dall’imputato nel corso del
processo in cui erano maturati i fatti in contestazione.
Osserva la Corte come i Giudici di appello nel decontestualizzare le
espressioni imputate al Batacchi, colgano già in siffatta prospettiva, con
motivazione sorretta da logica, e come tale in questa sede non censurabile,
la obiettiva oltraggiosa connotazione delle prime.
La declinazione al femminile delle parole «falsa» e «bugiarda»
utilizzate dall’imputato, viene, infatti, congruamente sottolineata dalla Corte
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all’art. 598, secondo comma, cod. pen., se rispettose del principio della

territoriale come diretta, essa stessa, a denunciare la direzione delle parole
come pronunciate alla volta della persona del magistrato, Renza Cescon, e
non al fatto dichiarato.
Un successivo processo di contestualizzazione nell’utilizzo di siffatte
espressioni da parte dell’imputato, rileva poi ancora congruamente la Corte
di appello, come non sottragga le prime all’indicato giudizio.
Per legittimo richiamo anche alle motivazioni spese dal Giudice di primo
grado (Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno),la Corte congruamente

vennero per la prima volta proferiti, il contesto stesso disvelasse l’intento
del Batacchi di ledere professionalità ed onorabilità del magistrato per
l’utilizzo fatto delle dichiarazioni dei pentiti.
Il complesso delle dichiarazioni viene sottolineato dalla Corte, con
motivazione sorretta da logica e pertinenza, come fortemente connotato
dall’intento dì offendere la persona laddove, si argomenta, l’imputato
contesta al magistrato di sostenere «una bugia, ma sapendo di
mentire».
Per queste ultime espressioni, invero, sostiene la Corte dì appello, il
Batacchi contesta al Magistrato dell’Accusa una gestione dei pentiti, per la
quale lo stesso avrebbe tradito il suo più elementare dovere: l’osservanza
della legge laddove la stessa impone di ricercare anche le prove a discarico
dell’imputato.
Il criterio di valutazione delle espressioni previa contestualizzazione delle
stesse, è pienamente osservato dalla Corte – di contro ad ogni censura
contenuta in ricorso -, e quindi congruamente applicato nelle raggiunte
conclusioni, quanto all’ulteriore momento costituito dalle dichiarazioni rese
dall’imputato allorché il pubblico Ministero illustrava le proprie repliche alla
Corte di assise.
La Corte di appello motiva congruamente sulla natura offensiva delle
espressioni utilizzate dall’imputato alla volta del Magistrato, in quanto prive
del carattere della immediatezza rispetto alle prime e quindi sulla esclusione
di ogni scriminabilità suggerita da un contesto di mera reazione d’impeto.
I Giudici di secondo grado riferiscono, logicamente sul punto, di una
reiterazione, pur nel nuovo contesto dichiarativo, di espressioni già utilizzate
dall’imputato nel corso delle dichiarazioni spontanee e, ancora, di plurimi
richiami, come da verbalizzazione stenotipica, del Presidente del Collegio
giudicante.
Quanto evidenziato dalla Corte d’appello di Trento, con corretto governo
degli esiti probatori, non è quindi, come vorrebbe la difesa, la mancata
4

evidenzia come nel corso delle spontanee dichiarazioni, in cui quegli epiteti

prova della contestualità delle dichiarazioni dell’Accusa nel corso della
discussione rispetto alle interlocuzioni dell’imputato in quella sede, ma è
invece, e proprio, la prova della non contestualità delle condotte.
L’ulteriore locuzione, poi, per la quale la rappresentante della pubblica
Accusa sarebbe stata dedita a «scorribande giudiziarie», viene declinata
dalla Corte di appello ora nella sua obiettiva e statica rilevanza ora in una
rilevanza «di contesto», senza però, che, per il diverso approccio
metodologico osservato, secondo condivisibile e logica motivazione, le

I Giudici di secondo grado sottolineano invero, con motivazione immune
da censure, come l’indicata espressione sia dotata, di per sé, di una
obiettiva carica ingiuriosa, quella per la quale il pubblico Ministero avrebbe
tradito il suo più elementare dovere: l’osservanza della legge laddove la
stessa impone di ricercare anche le prove a discarico dell’imputato
La Corte motiva ancora congruamente sulla consapevolezza del carattere
ingiurioso delle espressioni utilizzate in capo all’imputato, proprio
dall’argomento speso sul punto dalla difesa, argomento che si rivela
pertanto non congruente e funzionale alla tesi sostenuta.
Rileva infatti la Corte territoriale per l’impugnata sentenza, come
l’utilizzo da parte dell’imputato – così per lo «scorrere delle armi» – di
una locuzione già utilizzata dal Magistrato dell’Accusa nel formulare a carico
del prevenuto, il capo di imputazicine in un distinto procedimento per reato
associativo, deponga, per ciò stesso, per la consapevolezza in capo
all’imputato della valenza negativa dell’espressione utilizzata.

4. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 5 novembre 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

conclusioni raggiunte dalla Corte siano destinate a divergere.

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