Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4725 del 20/11/2013


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Penale Ord. Sez. 1 Num. 4725 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: VECCHIO MASSIMO

oRbItslAnleA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI NAPOLI
nei confronti di:
GATTO FRANCESCO N. IL 04/10/1955
avverso l’ordinanza n. 5315/2012 TRIBUNALE di NAPOLI, del
20/02/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MASSIMO VECCHIO;

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Data Udienza: 20/11/2013

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA PENALE

Ricorso n. 22.166/2013 R.G. *

Udienza del 20 novembre 2013

Rileva
1. — Con decreto deliberato de plano, ai sensi dell’articolo 666,
comma 2, cod. proc. pen., il 20 febbraio 2013 il Tribunale ordinario di Napoli, in composizione monocratica e in funzione di
giudice della esecuzione, ha dichiarato inammissibile la richiesta formulata il 16 gennaio 2013 dal Pubblico Ministero, il quale, invocando la sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 5
novembre 2012 (recante la declaratoria della illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte
in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’articolo 99, quarto comma, cod. pen.), aveva sollecitato la rideterminazione della pena (di sei anni di reclusione e di C
26.000 di multa) inflitta a Francesco Gatto, giusta sentenza di
quel Tribunale, 8 giugno 2011 (confermata dalla Corte di appello il 23 aprile 2012 e passata in giudicato il 2 novembre
2012), per il delitto di cui all’articolo 73 del T.U. cit. nel concorso tra la attenuante di cui all’articolo 73, comma 5, del T.U.
cit. e la recidiva reiterata specifica, dichiarate equivalenti.
Il giudice della esecuzione ha motivato: la decisione del giudice
delle leggi non ha comportato la abolitio criminis; pertanto la
«intangibilità derivante dalla preclusione del giudicato» rende inammissibile la richiesta del Pubblico Ministero.

2.— Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Napoli, in persona della dott.ssa Eva Scalfati, sostituto
procuratore della Repubblica, ha proposto ricorso per cassa-

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Letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del
dott. Oscar Cedrangolo, sostituto procuratore generale della
Repubblica presso questa Corte, il quale ha concluso per la inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa per le ammende.

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Udienza del 20 novembre 2013

zione, mediante atto, recante la data del 27 marzo 2012, col
quale ha denunziato, ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione della
legge pena o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge penale, in relazione all’articolo
69, comma quarto, cod. pen. (nel testo vigente per effetto della
menzionata sentenza della Corte costituzionale), esponendo,
con testuale citazione della sentenza di condanna dell’8 giugno
2011, che il giudice della condanna aveva dichiarato la equivalenza della speciale attenuante rispetto alla recidiva reiterata
(e aveva, di conseguenza, commisurato la sanzione) in dichiarata ottemperanza della disposizione dichiarata incostituzionale.
3. — Il procuratore generale della Repubblica presso questa
Corte, mediante atto del 26 giugno 2013, ha sostenuto: il ricorso è manifestamente infondato «non essendo consentito al giudice della esecuzione di effettuare alcun ‘giudizio’ di bilanciamento
tra opposte circostanze».
4. — La quaestio iuris posta dal ricorrente, il quale postula la soluzione affermativa, è se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma
incriminatrice (nella specie, appunto, dell’articolo 69, comma
quarto, cod. pen. in parte de qua, giusta sentenza della Corte
costituzionale n. 251 del 2012), comporti, ovvero no, la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato.
5. — Il primo comma dell’articolo 136 della Costituzione — è
appena il caso di premettere — disciplina gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale; la disposizione recita:
«Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una
norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa
di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione».
La ridetta disposizione è sostanzialmente riprodotta, con mera
parafrasi (Corte cost., sent. n. 127 del 1966), dall’articolo 30,

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Dottrina e giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, nell’
affermare il consolidato principio di diritto secondo il quale «le
sentenze di accoglimento [del giudice delle leggi] operano ex tunc
perché producono i loro effetti anche sui rapporti sorti anteriormente alla pronuncia di illegittimità», hanno, nel contempo, pacificamente riconosciuto che l’efficacia retroattiva della pronuncia, invalidante la norma (dichiarata costituzionalmente illegittima), incontra, tuttavia, un limite, nel senso che
restano definitivamente «regolati dalla legge dichiarata invalida
i rapporti esauriti».
E, in proposito, è altrettanto pacifico che, al succitato fine, costituiscono «rapporti esauriti»: (a) i rapporti che «hanno
trovato la loro definitiva e irretrattabille conclusione mediante
sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità»; (b) in
carenza della res iudicata «i rapporti rispetto ai quali sia decorso
il termine di prescrizione o di decadenza previsto dalla legge per
l’esercizio di diritti ad essi relativi» (Corte cost. sentenza n. 139
del 1984).

6. — Il legislatore ordinario con la citata legge n. 87 del 1953 ha
inteso espandere, nella materia penale, al di là della previsione dell’articolo 136, primo comma, della Costituzione,
l’efficacia retroattiva delle sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale, invalidante ex tunc, e, purtuttavia, resistita dal «limite invalicabile del giudicato» (Corte cost., sent.
cit.); e ha stabilito che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata sentenza di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali» (articolo 30,
comma quarto, della legge cit.).
7. — Con più radicale intervento il legislatore delegato nel vigente codice di rito ha disposto «Nel caso [..] di dichiarazione di

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comma terzo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».

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Sicché la dichiarazione di illegittimità della norma incriminatrice travolge — comportandone la revoca — la stessa sentenza di condanna, la quale (sebbene cessasse la relativa
esecuzione) restava invece intangibile sul piano puramente formale alla stregua della vigenza dell’ articolo 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953.

8. — La quaestio iuris della incidenza della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale, diversa, tuttavia, da quella incriminatrice, sulla condanna passata in giudicato — negativamente risolta dalla tradizionale giurisprudenza di legittimità consolidatasi nel corso dei decenni — si è riproposta recentemente a questa Corte suprema
di cassazione, in seguito alla sentenza del Giudice delle leggi n.
249 del 2010, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’ articolo 61, comma primo, n. 11-bis, cod. pen.
Nella occasione, questa Corte, con innovativa pronuncia,
ha fissato il principio di diritto secondo il quale «gli articoli 136
Cost. e 30, commi terzo e quarto, legge n. 87 del 1953 non consentono l’esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice della
cognizione in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima. [Sicché] spetta al giudice dell’esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del
giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze»
(Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011 – dep. 13/01/2012, P.M. in proc.
Hauohu, Rv. 252062).
Il principio in parola è stato recepito da alcuni arresti successivi: Sez. 2, n. 8720 del 11/02/2011 – dep. 04/03/2011, Idriz, Rv. 249816;

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illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice
della esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale,
dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti» (articolo 673, comma 1, cod.
proc. pen.).

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Mentre, con riferimento all’incidente proposto dal condannato
in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 68 del
2012 (dichiarativa della «illegittimità costituzionale dell’articolo
630 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena
da esso comminata è diminuita, quando per la natura, la specie, i
mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»),
una recentissima pronuncia di questa stessa Sezione, pur
supponendo che il «giudice dell’esecuzione [abbia], in astratto, il
potere di adeguare la pena alla legittimità del sistema normativo
vigente, in quanto in forza degli artt. 136 Cost. e 30, commi terzo e
quarto, legge n. 87 del 1953 le norme dichiarate incostituzionali
non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», ha negato, tuttavia, la possibilità di
verun intervento del ridetto giudice, ai fini della rideterminazione della pena (irrogata alla stregua della norma dichiarata
costituzionalmente illegittima in parte de qua), là dove siano richiesti «un nuovo accertamento fattuale» e «la modifica
del piano concettuale del giudizio, non più tangibile, che impedisce, definitivamente e per sempre, l’interpretazione invasiva
del giudicato ancorché al solo fine di uniformarsi all’ordinamento
vigente» (Sez. 1, n. 28468 del 23 /04/2013 — dep. 2/07/2013, Facchineri, non massimata).
È d’uopo ripercorrere, con sintetica esposizione, l’iter ar9.
gomentativo della sentenza Hauohu.

Dopo aver ribadito che l’articolo 673, comma 1, cod. proc. pen.
(recante la previsione della revoca della condanna nel caso delle dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice) non offre addentellati per interventi del giudice
della esecuzione nella ipotesi della sopravvenuta dichiarazione
di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale,
quale quella relativa a una circostanza aggravante, la ridetta decisione valorizza la «forza invalidante ex tunc» (e le

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Sez. 1, n. 19361 del 24/02/2012 – dep. 22105/2012, Teteh Assic, Rv. 253338;
Sez. 1,n. 40464 de112106/2012 – dep. 16/10/2012, Kabi, non mas..imata; Sez.
6, n. 21982 de116/05/2013 – dep. 22105/2013, I ngordini, Rv. 255674.

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conseguenze relative «assimilabili all’annullamento») della declaratoria della illegittimità costituzionale di una norma; richiama le disposizioni del terzo e del quarto comma
dell’articolo 30 della legge 87 del 1953, postulandone la correlazione col «principio di cui all’articolo 25, secondo comma,
Cost.»; sostiene che la consolidata giurisprudenza di legittimità
secondo la quale «l’articolo 30, quarto comma, si riferisce solamente alle norme penali incriminatrici», si sarebbe, in realtà,
«riferita alle norme incriminatrici per lo più solo al fine di distinguere da esse le norme processuali a cui non si applica l’articolo
30, quanto comma, o nell’ambito di decisione che avevano a oggetto, in realtà, il problema di situazioni da considerare a tutti gli effetti, anche esecutivi, esaurite»; nega che «si rinvengano pronunce
che abbiano ad oggetto situazione paragonabile a quella in esame»;
assume che «analoghe alle norme incriminatrici» sono le altre
norme penali incidenti sul trattamento sanzionatorio; postula,
quindi, che l’ambito della previsione dell’articolo 30, comma
quarto, cit., non è riduttivamente circoscritto (come, invece,
l’articolo 673 cod. proc. pen.) alla declaratoria della illegittimità costituzionale delle «sole norme che prevedono un autonomo titolo di reato»; sicché il ridetto articolo 30, comma 4, «si presta
ad essere letto nel senso di impedire anche solamente una parte della esecuzione, quella relativa alla porzione di pena che discendeva
dalla applicazione della norma poi riconosciuta costituzionalmente illegittima»; argomenta che la conclusione è confacente ai
principi desumibili dagli articoli 27, 3 e 25, secondo comma,
della Costituzione richiamati dalla citata sentenza del Giudice
delle leggi n. 249 del 2010; e annota che la ridetta pronuncia ha
dichiarato in via consequenziale la illegittimità costituzionale
dell’articolo 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di
cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis» cod. pen., così confermando «l’incompatibilità a Costituzione di una sopravvivenza
al giudicato persino degli effetti penali dell’aggravante di cui si
discute».

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A) «L’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953, relativo
alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, è stato implicitamente abrogato dall’art. 673
cod. proc. pen., che ne ha completamente assorbito la disciplina»;
B) «Non è soggetta a revoca in executivis la sentenza di condanna
intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato né è consentito al giudice dell’esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente».
10.1 — La decisione ha, innanzi tutto, confutato gli argomenti
addotti dal ricorrente (per ottenere, in virtù della sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010, la rideterminazione in
executivis della pena inflitta nella vigenza dell’articolo 61, comma primo, numero 11-bis, cod. pen.) e fondati sulla considerazione: (A) della ulteriore, contestuale declaratoria della illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 9, lettera a),
cod. proc. pen.; (B) della ingiustificata disparità di trattamento in violazione del principio di eguaglianza, sancito
dall’articolo 3 della Costituzione. E, in proposito, ha obiettato:
(AA) il riferimento all’arresto del Giudice delle leggi non è pertinente; è affatto ovvio che, se la legge connette uno speci fic o e ffet t o, riguardo alla disciplina della esecuzione, al titolo
del reato pel quale è stata inflitta la pena espianda, in relazione
ad una determinata aggravante ritenuta nella sentenza di condanna (come appunto stabiliva l’articolo 656, comma 9, lettera
a), cod. proc. pen. escludendo dalla sospensione della esecuzione le condanne per reato aggravato ai sensi dell’articolo 61,
comma 1, numero 11-bis, Codice Penale), la declaratoria della
illegittimità costituzionale della disposizione, recante la previsione della aggravante, osta alla applicazione di ogni ulteriore

10. — In consapevole contrasto con la decisione testé illustrata si è posta la sentenza della stessa Sezione 1, n. 27640 del
19/01/2012 – dep. 11/07/2012, Hamrouni, Rv. 253383 e Rv.
253384, la quale ha fissato i seguenti principi di diritto:

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norma che richiami quella incostituzionale (e ne comporta la
declaratoria di illegittimità in via consequenziale); mentre affatto diverso è il tema della incidenza sul giudicato della dichiarazione di incostituzionalità delle norme penali sostanziali,
diverse dalla norma incriminatrice, applicate nel giudizio; (BB)
la evocazione del principio di uguaglianza, in relazione allo
sperequato trattamento sanzionatorio di analoghe condotte, a
seconda che la pronuncia della illegittimità costituzionale di
una norma penale sostanziale (diversa da quella incriminatrice), incidente sulla determinazione della pena, intervenga prima ovvero dopo la formazione del giudicato, è — alla evidenza
— mal posta; invero, nell’ordinamento giuridico, la res iudicata
costituisce fondamento affatto ragionevole del discrimen tra situazioni uguali; e il criterio è codificato nella disciplina del diritto intertemporale della legge penale, in quanto (fatta salva la eccezione stabilita dall’articolo 2, comma terzo, cod.
pen.) la pena inflitta colla condanna irrevocabile resta affatto insensibile alla sopravvenuta modificazione, in senso
favorevole al reo, delle disposizioni penali, c.d. lex mitior (articolo 4, comma quarto, cod. pen.), con la conseguenza — in ipotesi — della doverosa espiazione di una pena addirittura superiore al massimo edittale fissato dalla norma incriminatrice successivamente novellata.
10.2 — In proposito è appena il caso di aggiungere che la stessa
Corte costituzionale ha ribadito che il «puro e semplice richiamo
dell’articolo 3 Cost.» non abilita a «derogare al criterio generalissimo [..] della intangibilità degli effetti derivati da rapporti esauriti» (sentenza n. 26 del 1969).
10.3 — Con specifico riferimento al difforme precedente (sentenza Hauohu), il Collegio, nella pronuncia in parola, ha osservato quanto appresso.
10.4 — Non sono condivisibili né la premessa della sentenza
Hauohu che «gli articoli 136 della Costituzione e 30, commi terzo
e quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ostino alla esecuzione
della porzione di pena inflitta in conseguenza dell’applicazione di
una circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegit-

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Per vero la norma costituzionale, e le norme contenute negli
ultimi due commi dell’articolo 30 della legge 11 marzo 1953, n.
87, non ostano alla esecuzione della pena, quando sulla determinazione del trattamento sanzionatorio (cristallizzato dal
giudicato) ha influito una disposizione successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.

10.5 — Sebbene comprensibili incertezze caratterizzino la individuazione delle situazioni giuridiche esaurite (in specie nella
materia processuale), è, tuttavia, ben certo che il giudicato
rappresenta “il punto di arresto” alla espansione della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale, salvo che concernano la norma incriminatrice.
L’articolo 136 della Costituzione non offre alcun addentellato che suffraghi l’assunto che la dichiarazione della illegittimità costituzionale (della previsione) di una circostanza
aggravante osti alla esecuzione, in parte de qua, della pena inflitta per effetto dell’applicazione della circostanza in parola.

10.6 — Colla pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna,
si esaurisce la «applicazione» di ogni norma penale
incidente sul trattamento sanzionatorio, laddove la
esecuzione della pena trova esclusivamente titolo nel relativo
provvedimento di irrogazione dalla sanzione, il quale, in virtù
della efficacia preclusiva del giudicato, è affatto insensibile a
ogni questione circa la «applicazione» della norma definitivamente operata dal giudice. Sicché in executivis non si pone — alla evidenza — alcuna questione di (ulteriore) applicazione della
norma penale in parola.

10.7 — A differenza delle disposizioni contenuti nei precedenti
commi, tutte di carattere attuativo dell’articolo 136 della Costituzione, l’articolo 30, comma quarto, della legge n. 87 del

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tima ad opera del giudice della cognizione»; né la conclusione del
medesimo arresto che «spetti al giudice dell’esecuzione determinare detta porzione di pena, ove la sentenza abbia omesso di individuarla specificamente ovvero abbia proceduto a giudizio di bilanciamento».

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1953, nel contemplare, tra i presupposti degli effetti stabiliti, la
pronuncia della sentenza di illegittimità costituzionale, ne aveva espanso l’efficacia oltre l’ambito previsto dal
legislatore costituente (come in precedenza ricordato),
sicché la declaratoria di illegittimità della norma penale (incriminatrice) veniva a incidere — comportandone la cessazione
— sulla esecuzione del giudicato di condanna, altrimenti insensibile (alla esclusiva stregua dell’articolo 136 della
Costituzione) alla decisione del Giudice delle leggi.
10.8 — La mancata indicazione espressa, nel testo del quarto
comma dell’articolo 30, cit., della natura incriminatrice
della norma penale dichiarata illegittima ha dato adito alla
questione interpretativa, circa il contenuto della disposizione,
risolta dalla sentenza Hauohu nel senso della (supposta) inclusione nella previsione normativa di tutte indiscriminatamente
le norme penali sostanziali, e, pertanto, anche di quelle «non
tncriminatrici,».

10.9 — Ma siffatta conclusione è resistita dalla contraria giurisprudenza di tutta la giurisprudenza di legittimità,
assolutamente univoca e uniformemente consolidatasi nell’arco
degli ultimi cinquanta anni.
Ha, infatti, stabilito questa Corte suprema di cassazione:
«L’ultimo comma dell’articolo 30 della legge 11 marzo 1953, n.87,
che dispone la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali
delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norma dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme
incriminatrici dichiarate incostituzionali» (Sez. V, 21 gennaio 1968, n. 296, Manenti, massima n. 106904; cui adde, nel
senso della irrilevanza sulla esecuzione della pena della pronuncia di illegittimità costituzionale di norme, diverse da quella incriminatrice, in applicazione delle quali è stata pronunciata la condanna irrevocabile: Sez. I, 30 maggio 1970, n. 1794,
Visconti, massima n. 115441; Sez. III, 16 novembre 1970, n.
1287, Soranno, massima n. 116239; Sez.III, 2 marzo 1972, n.
7522, Confalonieri, massima n. 122298; Sez. III, 19 gennaio
1973, n. 4611, Sgobba, massima n. 124336; Sez. II, 27 gennaio

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Ricorso n. 22.166/2013 R.G. *

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Non è condivisibile la valutazione riduttiva della citata
giurisprudenza di questa Corte sulla base del rilievo che il principio riportato sarebbe stato affermato senza adeguato discernimento tra le norme incriminatrici, «complete di precetto e sanzione, costitutive di una fattispecie di reato», e le altre norme penali «che si riferiscono a elementi accessori (circostanze del reato)», sicché le sentenze si sarebbero (impropriamente) «riferite
alle norme incriminatrici per lo più solo al fine di distinguere da
esse le nonne processuali» ovvero «nell’ambito di decisioni che
avevano a oggetto, in realtà, il problema di situazioni da considerare a tutti gli effetti, anche esecutivi, esaurite».
Invero la Corte ha affrontato ex professo, nell’esercizio del magistero nomofilattico, la questione della ermeneutica del quarto
comma dell’articolo 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87. E gli
arresti censiti hanno ribadito il principio che la norma in parola «si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate
incostituzionali» anche con riferimento alla declaratoria
della illegittimità costituzionale di norme penali (diverse da
quelle incriminatrici), incidenti sul trattamento sanzionatorio,
e, proprio in termini, nella specifica materia delle ipotesi aggravate, già punite dagli articoli 186, commi secondo e ultimo,
e 189, comma primo, cod. pen. mil . pace (nel testo previgente
alla novella del 26 novembre 1985, n. 689), oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza 20
maggio 1982, n. 103.

10.10 La ricognizione dell’univoco indirizzo giurisprudenziale
non esime l’interprete dall’ approfondimento del tema.

Orbene la conclusione che la previsione della norma in esame è
circoscritta alle (sole) norme incriminatrici è suffragata dalla

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1976, n. 228, De Michele, massima n. 132712; Sez. V, 26 giugno
1978, Iammella, massima n. 140030; Sez. I, 10 luglio 1983, n.
1375, Giacomelli, massima n. 160030; Sez. III, 26 settembre
1984, n. 10190, Saccuzzo, massima n. 166746; Sez. V, 21 giugno 1985, n. 6676, Bossa, massima n. 170006; e Sez. VI, 25
gennaio 1995, n. 3577, Neglia, massima n. 200707).

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Invero l’effetto della cessazione (non solo della esecuzione, ma
anche congiuntamente e perentoriamente) di «tutti gli effetti p enali» della «sentenza irrevocabile di condanna» implica
necessariamente — alla evidenza — il radicale presupposto
della abolitio criminis.
E, per vero, non è d’uopo indugiare sul punto della patente
inconciliabilità del regime della cessazione di «tutti» gli effetti penali della condanna irrevocabile colla dichiarazione della illegittimità costituzionale di una mera circostanza aggravante del reato giudicato.
10.11 — La conclusione raggiunta, circa il contenuto e la portata dell’articolo 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87,
comporta, peraltro, la ulteriore conseguenza che, per effetto
della entrata in vigore dell’articolo 673 cod. proc. pen., deve ritenersi implicitamente abrogata la succitata disposizione (della cessazione della esecuzione della condanna irrevocabile e di tutti gli effetti penali in dipendenza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice),
essendo la relativa disciplina ormai completamente assorbita in quella della norma codicistica la quale opera
in radice la revoca della sentenza di condanna (e, quindi, indefettibilmente anche la cessazione della relativa esecuzione e
di tutti gli effetti penali).
11. — In occasione della deliberazione della sentenza Hamrouni
il Collegio non reputò di dover investire le Sezioni Unite, a’
sensi dell’articolo 618 cod. proc. pen., in relazione alla difformità incorsa nella soluzione nella medesima quaestio iuris, rispetto al precedente arresto Hauohu, non avendo ravvisato un
vero e proprio contrasto di giurisprudenza in quanto la succitata pronuncia difforme risultava, all’epoca, affatto isolata e
resistita dal costante, concorde indirizzo di questa Corte suprema, consolidato in senso contrario.

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analisi della oggettiva disciplina giuridica stabilita
dalla disposizione.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA PENALE

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Udienza del 20 novembre 2013

11. — Del vero e proprio contrasto giurisprudenziale, successivamente insorto, ha fatto cenno la sentenza di questa Sezione
1, n. 28465 del 27/06/2012 — dep. 16/07/2012, Lofti, non massimata, la quale, riconosciuto il «carattere controverso della questione» in parola, la ha reputata ininfluente sul presupposto
che la circostanza aggravante dell’articolo 61, comma primo,
n. 11-bis, cod. pen. non avesse avuto, nella specie, concreta incidenza sul trattamento sanzionatorio del condannato.
Intanto, con ordinanza n. 29755 del 21 giugno 2012 —
dep. 20 luglio 2012, Diallo Bombakar, questa Sezione ha rilevato come, «da un lato, si siano formati due opposti indirizzi interpretativi sullo specifico tema, dall’altro le diverse opzioni ermeneutiche comportino inevitabile incidenza su istituti di
carattere generale, che dunque superano la materia del caso, tali
quindi da indurre l’evidente opportunità di investire il massimo organo nomofilattico»; ha ricapitolato le considerazioni esposte nella sentenza Hauohu, le obiezioni e le argomentazioni,
reputate «difficilmente superabili», contenute nella sentenza Hamrouni; e ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, sottoponendo la questione «se sia o meno consentita l’esecuzione
della porzione di pena inflitta dal giudice della esecuzione in conseguenza della applicazione di una circostanza aggravante che sia
stata dichiarata costituzionalmente illegittima».
12.

Se non che il Primo Presidente ha restituito gli atti per la rivalutazione della rilevanza della questione, in quanto il ricorrente, nelle more della decisione, aveva espiato la pena, sicché si
prospettava «il sopravvenuto difetto di interesse al ricorso»
(quindi, in effetti, positivamente scrutinato con sentenza n.
19544 del 30/12/2012 — dep. 20/12/2012, non massimata).
E la questione non sem b r a risolt a neppure alla stregua della recentissima sentenza della Corte costituzionale n.
210 del 2013 la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000,
n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio
2001, n. 4.

13.

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Ricorso n. 2 2.1 6 6/2 O 1 3 R.G.

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R. G.

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Udienza del 20 novembre 2013

Sebbene la pronuncia (al pari della ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite del 10 settembre 2012) rechi riferimento, nella
parte motiva, al quarto comma dell’articolo 30 della legge n.
87 del 1953, supposto tuttora vigente, per un verso il giudice
delle leggi in relazione alla «dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice» richiama espressamente in parentesi proprio l’ «art. 30, quarto comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87» (v. sub 7.3. della sentenza); per altro verso
la quaestio iuris in esame non è assimilabile al caso, scrutinato
dal Giudice delle leggi, della lesione del principio pattizio della
applicazione retro attiva della legge più favorevole al reo,
sancito dall’ articolo 7 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’ uomo e delle libertà fondamentali, adottata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge
4 agosto 1955, n. 848, siccome interpretato dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo (sentenza della Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola; cui adde sentenza 27 aprile 2010, Morabito e 7 giugno 2011, Agrati).
La ratio della pronuncia della Corte costituzionale risiede nel
rilievo della lesione della norma convenzionale (consumata nella fase del giudizio di cognizione), in relazione all’ articolo 117,
della Costituzione, e nella conseguente cogenza della «conformazione [..] al vincolo derivante dagli obblighi internazionali»,
sicché il «valore del giudicato» risulta «recessivo».
Peraltro, nel motivare la negazione che il principio p at 14.
tizio della applicazione retroattiva della lex mitior «possa travolgere il giudicato», la stessa Corte costituzionale ha tratto
a r gomento dal dato che la Corte europea dei diritti
dell’uomo, fissando il principio suddetto, aveva fatto riferimento alla applicazione delle «leggi penali posteriori [più
favorevoli] adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva» (sentenza n. 236 del 2011), espressamente statuendo,
«se la legge penale, in vigore al momento della perpetrazione del
reato e le leggi penali posteriori, adottate prima della pronuncia
definitiva, sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli», sicché «la Corte europea ha,

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Ricorso n. 22.166/2013

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA PENALE

Ricorso n. 22.166/2013 R.G.

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Udienza del 20 novembre 2013

L’argomentare delle due Corti, costituzionale ed europea, offre
significativa conferma del rilievo in precedenza formulato, sub
10.6; e per vero, se, dunque, l’ applicazione delle norme penali sostanziali, incidenti sul trattamento sanzionatorio, riguarda esclusivamente il giudizio di cognizione (è, infatti, solo
in quella sede che le norme de quibus sono assunte a «canone di
valutazione» del fatto, v. Sez. Un., n. 7232 del 07/07/1984 dep. 07/09/1984, Cunsolo, Rv. 165563), allora in executivis
non trova alcuno spazio logico e giuridica possibilità di attuazione (in relazione alle ridette norme) il divieto stabilito (a’
termini dell’ articolo 136, comma primo, Cost.) dall’articolo 30,
comma terzo, della legge n. 87 del 1953, secondo il quale le
norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Sicché la sopravvenuta dichiarazione della illegittimità costituzionale della norma penale diversa da quella incriminatrice
(definitivamente applicata), non incide sulla cosa giudicata.
Inoltre, nell’arresto da ultimo citato, la Corte costituzionale
non ha mancato di riaffermare il «principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei
rapporti giuridici esauriti [..] ampiamente riconosciuto anche
nell’ambito dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 22
dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro Repubblica slovacca; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16
marzo 2006, C-234/04, Kapferer)», escludendo che «l’esigenza di
assicurare la parità di trattamento [..] possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata»; e, anzi, ha osservato che per vincere «ciò che, di per sé,
dovrebbe rimanere intangibile — il giudicato, appunto — il
legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale
di una determinata condotta con connotati di generale vin-

-J’LLz

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dunque, escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato» (sentenza n. 230 del
2012).

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE — SEZIONE PRIMA PENALE

Ricorso n. 22.166/2013

R. G.

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Udienza del 20 novembre 2013

colatività e di intrinseca stabilità» (v. sentenza cit. n. 236 del
2012, sub 9.): dunque, soltanto, la abolitio criminis ovvero la
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.

15. Anche alla luce della considerazione che i richiami operati
all’ articolo 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953, contenuti nella precitata sentenza della Corte costituzionale e nella ordinanza delle Sezioni Unite 10 settembre 2012, non paiono
correlati alla disamina dei rilievi esposti sub 1.9, 1.10 e 1.11, e,
comunque, alla stregua di quanto precede, è d’uopo rimettere,
ai sensi dell’articolo 618 cod. proc. pen., il ricorso alle Sezioni
Unite per la soluzione della questione di diritto, oggetto di contrasto giurisprudenziale, enunciata supra nel paragrafo sub 4.
P. Q. M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso, il 20 novembre 2013.

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