Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47242 del 18/11/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 47242 Anno 2015
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 18/11/2015

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di Bona Fortunato, n. a Noto (SR) il
26.10.1986, rappresentato e assistito dall’avv. Francesco Viviani, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste, seconda
sezione penale, n. 770/2011, in data 21.05.2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Massimo
Galli che ha concluso chiedendo di dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
sentita la discussione del difensore del ricorrente, avv. Francesco
Viviani, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

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RITENUTO IN FATTO

1.

Con sentenza in data 03.05.2011, il giudice per l’udienza

preliminare presso il Tribunale di Pordenone, all’esito di giudizio
abbreviato, riconosceva la penale responsabilità di Bona Fortunato in
ordine ai reati di estorsione e di tentata estorsione e, previo
riconoscimento del vincolo della continuazione e delle circostanze

quattro di reclusione ed euro 600,00 di multa.
2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di Bona Fortunato, veniva
proposto appello; con sentenza in data 21.05.2013, la Corte d’appello
di Trieste, rigettava il gravame e confermava la pronuncia di primo
grado.
3. Nell’interesse di Bona Fortunato viene proposto il presente ricorso
per cassazione, lamentandosi:
– violazione dell’art. 606 lett. c) cod. proc. pen. in riferimento all’art.
178 lett. b) cod. proc. pen. (primo motivo);
– violazione dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (secondo
motivo).
3.1. In relazione al primo motivo, si censura la sentenza impugnata
che ha respinto l’eccepita nullità dei capi d’imputazione per genericità
ed indeterminatezza (il capo A, per omessa indicazione del luogo e
della data del commesso reato; il capo C, per indicazione di luogo e
data di commissione del reato, entrambe errate), con consequenziale
lesione del diritto di difesa.
3.2. In relazione al secondo motivo, si censura la sentenza impugnata
che ha omesso di considerare come entrambe le condotte in
contestazione non sono state connaturate né da atteggiamenti
intimidatori né, tantomeno, violenti, con conseguente inconfigurabilità
del reato di estorsione (anche nella forma tentata) e, al più,
inquadrabili nel meno grave reato di truffa; si contesta altresì il
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con
giudizio di prevalenza, il trattamento sanzionatorio applicato ritenuto
eccessivamente gravoso ed il diniego del beneficio della sospensione
condizionale della pena.

attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni due, mesi

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, risulta
inammissibile.
2. Va osservato in premessa come, secondo il costante insegnamento
di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. U, sent. n. 6402 del
30/04/1997, dep. 02/07/1997, Dessimone e altri), l’indagine di

legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, perché il sindacato demandato alla Suprema Corte è
limitato a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo
sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare
l’intrinseca adeguatezza e congruità delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento.
Dai poteri del giudice di legittimità esula quindi ogni “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, la cui
valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito. In
particolare, non può integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata,
valutazione delle risultanze processuali perché, appunto, la Suprema
Corte non può sovrapporre una propria valutazione delle risultanze
processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma invece può, e
deve, saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua
cognizione. Ciò, in quanto nel momento del controllo della
motivazione la Suprema Corte non deve stabilire se la decisione di
merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, ne’ deve
condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se la
giustificazione contenuta nella sentenza impugnata sia compatibile
con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento (Sez. 4, sent. n. 4842 del 02/12/2003, dep.
06/02/2004). Né la novella codicistica introdotta con la I. n. 46 del
2006, ammettendo l’indagine extratestuale per la rilevazione
dell’illogicità manifesta e della contraddittorietà della motivazione, ha
modificato la natura del sindacato del giudice di legittimità, il cui
controllo rimane limitato alla struttura del discorso giustificativo del
provvedimento impugnato e non può comportare una diversa lettura
del materiale probatorio, anche se astrattamente plausibile, sicché
anche dopo la legge 46/2006 occorre invece che gli elementi

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probatori indicati in ricorso (ignorati, inesistenti o travisati, non solo
diversamente valutati) siano per sé decisivi in quanto dotati di una
intrinseca forza esplicativa tale da vanificare l’intero ragionamento del
giudice del merito (Sez. 3, sent. n. 37006 del 27/09/1996, dep.
09/11/2006, Piras, Rv. 235508): decisività che deve essere oggetto
di specifica e non assertiva deduzione della parte, in esito al
confronto con tutta la motivazione della decisione impugnata, pena

l’immediata ‘contaminazione’ del rilievo in termini di preclusa censura
di merito. Il controllo di logicità della motivazione che sorregge la
decisione di merito può, in secondo luogo, essere eseguito solo, come
prima accennato, in riferimento ai tassativi vizi che esclusivamente
rilevano in questo giudizio: la assenza di motivazione (anche nella
forma della mera apparenza grafica), la ‘manifesta’ illogicità e la
contraddittorietà, così come previsto dalla lettera e) del primo comma
dell’art. 606 cod. proc. pen.. Questo significa, ad esempio, che la
mera ‘illogicità’ della motivazione è irrilevante, perché
strutturalmente diversa dalla ‘manifesta illogicità’, vizio distinto dal
precedente e unico rilevante. Infatti, l’illogicità della motivazione
censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., è
solo quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile
“ictu °culi” (Sez. U, sent. n. 47289 del 24/09/2003, dep. 10/12/2003,
Petrella). Altrettanto irrilevanti, perché diverse da quelle
tassativamente e solo previste dalla lettera e) sono, a titolo
esemplificativo, le censure che attribuiscono alla motivazione di
essere incongrua, non plausibile, non persuasiva, non esaustiva,
insufficiente o insoddisfacente. Si tratta infatti di ‘difetti’ e vizi che,
ancorché in ipotesi effettivamente presenti nella motivazione del
provvedimento impugnato, sono irrilevanti nel giudizio di legittimità,
che non possono pertanto efficacemente introdurre, perché propri
dell’apprezzamento di stretto merito.
Alla luce di tali principi va esaminato l’odierno ricorso.
3. Manifestamente infondato è il primo motivo di doglianza.
Trattasi di censura che reitera la stessa proposta in grado di appello e
sulla quale v’è stata ampia e condivisibile risposta da parte del
giudice di secondo grado.
3.1. Invero, per consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte,
è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si

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risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello
e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi
considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non
assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, sent. n. 25559 del
15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, sent. n. 22445 del 08/05/2009, p.m.
in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, sent. n. 11933 del 27/01/2005,

Giagnorio, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che a
fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi
di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso
per cassazione non può essere considerata come critica argomentata
rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi,
pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui
all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni
richiesta (Sez. 6, sent. n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv.
243838).
3.2. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come i giudici di secondo
grado abbiano affermato che il luogo e la data “Zoppola 19.9.10” si
riferissero all’episodio avvenuto in danno della De Toma, rubricato al
capo a) d’imputazione, mentre i fatti in danno della Marson fossero
stati commessi in Casarsa della Delizia in data 30.7.10: tali dati – si
precisa – risultavano comunque con chiarezza dagli atti processuali e
sui fatti l’imputato è stato posto in grado di difendersi, con la
conseguenza che il problema del controllo del giudice sull’imputazione
neppure poteva porsi in concreto.
3.3. Invero, il ricorrente ripropone questo tema con riferimento al
giudizio abbreviato, assumendo come detto rito speciale può essere
richiesto anche in presenza di un interesse dell’imputato ad
evidenziare una nullità del decreto di citazione a giudizio contenuta
nell’imputazione ai fini di una pronuncia assolutoria ovvero di una
declaratoria di nullità comportante retrocessione del processo nella
fase delle indagini: su questa premessa, si assume come la genericità
ed indeterminatezza dell’accusa non può essere superata con la
sanatoria generale prevista dall’art. 183, comma 1 cod. proc. pen., in
quanto data e luogo del reato sono elementi indispensabili ed
irrinunciabili per determinare la colpevolezza e non possono

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comunque ridondare a carico dell’imputato (si legge, peraltro, nel
prosieguo della sentenza come la difesa non abbia comunque
contestato la riconducibilità dei due episodi al Bona, riconosciuto con
certezza da entrambe le persone offese, ma si sia limitata a dedurre
l’insussistenza di una condotta intimidatoria idonea ad integrare il
reato di estorsione, sia nella forma consumata che in quella tentata).
3.3.1. Va preliminarmente osservato che, effettivamente, la

questione relativa all’indeterminatezza dell’imputazione non può
essere presa in esame senza considerare che, nel caso in esame,
l’imputato aveva fatto richiesta incondizionata di giudizio abbreviato,
ma non per questo la conclusione cui perviene il ricorrente può
ritenersi corretta.
Come è noto, l’eliminazione del consenso del pubblico ministero e la
compressione della valutazione del giudice sulla definibilità del
processo allo stato degli atti hanno provocato una vera e propria
trasfigurazione del rito abbreviato, che non è più espressione di una
forma di giustizia contrattata in quanto, fondandosi su una
manifestazione di volontà del solo imputato, finisce per dover essere
ricondotto allo schema di un negozio unilaterale.
3.3.2. In sostanza, come rilevato puntualmente dalla dottrina,
l’accesso al giudizio abbreviato è divenuto un “diritto” dell’imputato,
rispetto al quale il giudice ha l’obbligo di introdurre il rito, almeno nei
casi di richiesta incondizionata, cioè non subordinata all’ammissione
di prove integrative.
La configurazione della richiesta incondizionata di giudizio abbreviato
come un “diritto potestativo” dell’imputato ha come conseguenza che
la scelta di essere giudicato allo stato degli atti, cioè in base a tutti gli
atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, comporta altresì
l’accettazione necessaria della stessa imputazione formulata
dall’accusa. In sostanza, la richiesta di cui all’art. 438 cod. proc. pen.
non può che riguardare anche l’imputazione contenuta nell’atto
attraverso il quale il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale.
Ciò è confermato anche dalla disciplina sulle nuove contestazioni nel
giudizio abbreviato, secondo cui dinanzi alle modifiche
dell’imputazione ex art. 423 cod. proc. pen., comma 1, l’imputato può
chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie,
rinunciando così al rito speciale: questa regola evidenzia come

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l’opzione unilaterale di essere giudicato con un rito a prova contratta
comprenda anche l’accettazione della stessa imputazione dalla quale
l’imputato dovrà difendersi nel giudizio speciale, tanto è vero che la
sua modificazione, anche relativa all’ipotesi in cui il fatto contestato
risulti diverso da come descritto nell’imputazione, giustifica il
ripensamento sulla iniziale richiesta e la conseguente revoca del
provvedimento con cui il giudice aveva disposto il giudizio abbreviato.

In questo modo, attraverso la disposizione contenuta nell’art. 441 bis
cod. proc. pen., si è riconosciuto a favore dell’imputato una sorta di
affidamento sulla stabilità dell’accusa, garantendolo dai rischi di
modifiche della contestazione originaria, in relazione alla quale ha
deciso di richiedere il rito speciale.
3.3.3. Una volta che sia stato introdotto il giudizio abbreviato
sull’istanza dell’imputato, senza che vi sia stata alcuna modificazione
dell’accusa da parte del pubblico ministero e senza che il giudice
abbia rilevato vizi nella formulazione dell’imputazione, non residua
all’imputato spazio per contestare l’imputazione stessa. D’altra parte,
se ritiene l’accusa indeterminata e generica, l’imputato non sceglierà
il giudizio abbreviato, potendo in seguito eccepire la nullità
dell’eventuale decreto di citazione a giudizio ai sensi dell’art. 429 cod.
proc. pen., comma 2. Non solo. Sulla base dell’insegnamento delle
Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 5307 del 20/12/2007, dep.
01/02/2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238239), l’imputato può,
già nell’udienza preliminare, prima delle sue determinazioni
sull’accesso ai riti speciali, contestare l’imputazione che reputa
carente nell’enunciazione del fatto e chiedere al giudice che solleciti il
pubblico ministero a correggere ed integrare l’accusa: ciò che, invece,
non è consentito perché in contrasto con le regole della sequela
procedimentale è proprio quanto ha fatto l’odierno ricorrente, il quale
prima ha richiesto, senza condizioni, il giudizio abbreviato e, solo
successivamente, una volta introdotto il rito, ha censurato
l’imputazione perché indeterminata.
4. Manifestamente infondato è il secondo motivo di doglianza.
Congrua e del tutto priva di vizi logico-giuridici è la motivazione della
sentenza in punto qualificazione dei fatti di reato, essendosi
evidenziato come la condotta del Bona non si è caratterizzata
esclusivamente per la presenza dell’inganno diretto a far credere alle

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due donne, parti lese, di essere responsabili dei danni causati
nell’occorso alla propria autovettura (condotta che integrerebbe il
reato di truffa), ma si è spinta ben oltre, avendo assunto i caratteri di
una vera e propria intimidazione. Si legge in sentenza: “in particolare,
costituisce certamente “violenza” l’avere costretto le due parti lese
(ndr., De Toma Carmela e Marson Laura Luisa) ad arrestare la propria
marcia e a fermarsi, tagliando loro la strada. Nessuna delle due

donne è stata indotta a fermarsi sulla base di semplici richieste
verbali o essendo state indotte in errore circa il fatto di essere
responsabili di un sinistro ma vi sono state costrette da una condotta
violenta da parte dell’appellante. Anche l’atteggiamento
complessivamente assunto da costui ha i caratteri
dell’intimidazione, in quanto non si è limitato a far credere alle due
donne di avere causato danni alla sua auto ma con la veemenza delle
parole e dei gesti le ha poste in uno stato di soggezione psicologica,
che le due donne hanno chiaramente riportato alla Polizia Giudiziaria.
La De Torna ha consegnato a Bona la somma richiesta (o per meglio
dire gliel’ha strappata di mano) in quanto temeva per la propria
incolumità ed era disposta a fare qualunque cosa pur di allontanarsi
da quel posto. Si tratta di un atteggiamento incompatibile con
l’inganno connaturato all’ipotesi di truffa e perfettamente
corrispondente all’intimidazione propria dell’estorsione. Analogamente
la Marson ha dichiarato di essere stata angosciata al punto da temere
per la propria incolumità e di essere riuscita a liberarsi dell’uomo
soltanto dopo avergli detto che aveva annotato il numero di targa. Il
pericolo paventato dalle due donne non era meramente immaginario
o conseguente ad un’ipotetica azione legale … ma era concreto ed era
dipendente dall’essere state costrette a fermare l’auto ed a subire le
intemperanze verbali dell’uomo che pretendeva di avere da loro del
denaro …”.
La determinazione nel minimo edittale della pena inflitta ha esonerato
il giudice da una specifica motivazione sul punto sulla base dei criteri
di cui all’art. 133 cod. pen.; parimenti, il modesto aumento ex art. 81
cod. pen., ha fatto ammenda dall’obbligo di un’autonoma specifica
motivazione valendo a questi fini le ragioni a sostegno della
quantificazione della pena-base (cfr., Sez. 2, sent. n. 49007 del
16/09/2014 dep. 25/11/2014, lussi e altri, Rv. 261424).

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Inoltre, del tutto fuori luogo è la dedotta mancata concessione delle
circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza in assenza
di contestazioni di circostanze aggravanti sia in relazione al capo A)
che in relazione al capo C), mancando il presupposto fattuale per
operare il richiesto giudizio di bilanciamento, tanto è vero che il primo
giudice si è limitato a riconoscere le attenuanti generiche e ad
operare la relativa diminuzione di pena su quella edittalmente

Infine, l’entità della pena inflitta in primo grado e confermata in
appello è tale da non consentire l’applicazione (e, conseguentemente,
da esonerare dal relativo sindacato) del beneficio della sospensione
condizionale.
5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si
determina equitativamente in euro 1.000,00

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa
delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 18.11.2015

Il Consigliere estensore
Dott. Andrea POlegrino

Il Presidente

prevista per la violazione più grave.

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