Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47187 del 12/02/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 47187 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Genoese Francesco, nato a Reggio Calabria il 20/01/1979

avverso l’ordinanza del 16/04/2012 del Tribunale di Reggio Calabria

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Giuseppe Volpe, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Francesco Calabrese, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento dell’ordinanza impugnata

RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Reggio Calabria, su richiesta di riesame proposta
nell’interesse di Francesco Genoese avverso un’ordinanza del G.i.p. dello stesso
Tribunale emessa il 16/03/2012, rigettava il gravame con provvedimento

Data Udienza: 12/02/2013

adottato il 16/04/2012 all’esito dell’udienza camerale dell’11/04/2012; la relativa
motivazione veniva depositata il successivo 16/07/2012.
1.1 II collegio dava atto che il procedimento penale in relazione al quale era
intervenuta l’ordinanza restrittiva della libertà (anche) del Genoese, sottoposto
alla misura cautelare della custodia in carcere, riguardava una complessa attività
di indagine concernente l’individuazione delle dinamiche criminali della c.d.
“cosca Condello”, emersa all’esito di tali investigazioni come una articolazione
della associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta: la suddetta cosca –

risultava avere operato soprattutto nel territorio di Archi di Reggio Calabria, e
vedeva quale figura di vertice Domenico Condello, latitante da circa vent’anni.
Fra i soggetti che godevano della massima fiducia da parte di costui doveva
intendersi titolare di ruolo di spicco Bruno Antonino Tegano, fratello di
Margherita Tegano (compagna del latitante), il quale aveva promosso ed
organizzato, unitamente alla sorella, una distinta associazione per delinquere
finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro
l’amministrazione della giustizia, in particolare volti a favorire il perdurare della
latitanza del Condello e l’impossibilità di eseguire a suo carico una pluralità di
provvedimenti restrittivi della libertà personale, anche conseguenti a sentenze di
condanna passate in giudicato. Ad avviso del Tribunale, non si era comunque
trattato di «una semplice attività di assistenza nei confronti del ricercato
(astrattamente rilevante ai sensi dell’art. 418 cod. pen.)», bensì di un vero e
proprio supporto operativo, rivelatosi «il migliore strumento nella disponibilità di
Condello Domenico per mantenere la compattezza originaria del sodalizio
mafioso» da lui ancora comandato e diretto.
Perciò, dinanzi alle possibili difficoltà di inquadrare nella condotta di un
favoreggiatore – tenendo anche conto delle cause personali di esclusione della
punibilità in favore dei soggetti attivi che risultino prossimi congiunti del favorito
– doveva sì ritenersi «di difficile dimostrazione […] il contributo concreto,
specifico, volontario e consapevole alla conservazione o al rafforzamento
dell’associazione di tipo mafioso, derivante dalla condotta favoreggiatrice del
familiare del latitante, soprattutto nel momento in cui in capo

all’extraneus

difetta la prova del perseguimento, anche parziale, del programma criminoso di
un’ampia organizzazione di tipo mafioso di cui non fa parte. La stabile
destinazione di un gruppo di persone, tuttavia, per come ricostruita, dotate di
una rudimentale organizzazione, di ruoli ben individuati che si accordano tra
loro, predispongono mezzi e strumenti, agiscono in esecuzione di un condiviso
programma criminoso, diviene condotta penalmente rilevante in relazione al
delitto a concorso necessario di cui all’art. 416 cod. pen.: ove il soggetto favorito

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che secondo l’impianto accusatorio disponeva di armi e materie esplodenti –

da tale struttura è collocato al vertice dell’associazione di tipo mafioso trova
pacifica applicazione l’aggravante, speciale e ad effetto speciale, di cui all’art. 7
legge 12/07/1991, n. 203».
In proposito, il Tribunale richiamava specifici precedenti giurisprudenziali di
legittimità.
1.2 Ad illustrare il contributo dei vari associati ed i risultati delle acquisizioni
istruttorie, il collegio segnalava che:
l’associazione richiamata, da intendersi aggravata ex art. 7 d.l. n. 152 del

presupposta garantendo che Domenico Condello rimanesse in stato di
libertà e veicolasse – tramite gli associati – le direttive di indirizzo ed
organizzazione di quelle attività, risultava disporre di più beni immobili,
veicoli e strumenti di comunicazione (fra cui apparecchi telefonici cellulari
da impiegare una sola volta, per essere poi spenti e immediatamente
dismessi), onde consentire al latitante di avere più rifugi e di essere
raggiunto o comunque contattato eludendo le investigazioni promosse per
la sua ricerca sul territorio;
erano emersi gravi indizi di colpevolezza nei confronti dei vari, presunti
partecipi grazie all’ascolto di una notevole mole di conversazioni
intercettate (telefoniche e fra presenti), indicative della costante volontà
degli associati di escogitare ed attuare sistemi di tutela dai controlli delle
forze dell’ordine, specialmente in occasione delle visite da rendere al
latitante, tanto che si erano verificati episodi in cui alcuni membri del
sodalizio avevano individuato e disattivato delle microspie installate su
autovetture da loro utilizzate;
– tutti i soggetti coinvolti per compiere condotte di ausilio ai fini
dell’associazione, ivi compresi coloro a cui veniva richiesto di fornire
autovetture “pulite”, dovevano «offrire garanzie di assoluta affidabilità», e
pertanto dovevano necessariamente ricevere indicazioni (da parte di
Bruno Antonino Tegano) sulle «linee tattiche previamente individuate, in
maniera da scongiurare l’eventuale ricorso a comunicazioni telefoniche e
poter agire sempre in perfetto sincronismo e piena sinergia»;
– in proposito, il ricorso a luoghi e sistemi consolidati per organizzare gli
spostamenti doveva intendersi espressione «non solo di un piano fattuale
collaudato e prodotto di concordata e preventiva programmazione tra i
sodali, ma anche di riferibilità a posti e persone di sicura affidabilità,
posto che i soggetti che con i principali protagonisti sopra individuati
collaborano devono essere personaggi idonei a rilevare eventuali
interessamenti delle forze dell’ordine all’anomala presenza (magari durata

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1991 in quanto strumentale ad agevolare le attività della cosca

per giorni o ore) delle vetture in uso ai prossimi congiunti del latitante in
zone non riferibili direttamente alla loro residenza o dimora di fatto»
il collaboratore di giustizia Antonio Fiume aveva già da tempo precisato
che il Tegano aveva svolto ruolo attivo per favorire la latitanza anche di
Pasquale Condello, capo della cosca fino a quando non era stato
arrestato, ed al quale era subentrato Domenico;
fra gli episodi direttamente monitorati dalla polizia giudiziaria (grazie alle
intercettazioni e ad attività di osservazione in loco, anche avvalendosi di

commerciali) si erano registrate più assenze prolungate della Tegano dal
panificio dove prestava attività lavorativa, in occasioni nelle quali si era
avvalsa, vuoi per gli spostamenti vuoi per poter contare su manovre di
copertura quali lo scambio di autovetture, dell’opera del fratello e di altri
sodali, tra i quali in particolare Francesco Genoese, Demetrio Romeo,
Massimiliano e Roberto Richichi, Bernardo Vittorio Pedullà;
il suddetto Genoese doveva considerarsi un vero e proprio alter ego di
Bruno Antonino Tegano, curando egli stesso l’individuazione dei medesimi
luoghi di incontro per la gestione degli spostamenti, la messa a
disposizione dei sodali di autovetture idonee a fungere da staffetta,
l’organizzazione di preordinate attività di “spedinamento”;
Massimiliano Richichi risultava avere svolto un ruolo attivo già in
occasione dei fatti storici presupposti alla presente vicenda, quando si era
trattato di prestare ausilio alla cosca garantendo il permanere della
latitanza di Pasquale Condello, ed era stato protagonista di almeno due
delle occasioni in cui era stato necessario organizzare gli spostamenti del
Tegano, procurandogli mezzi ricevuti in prestito da altri (un’auto da
Cosimo Morabito, ed uno scooter da Carmelo Gullì), fino ad ammettere
tranquillamente, nel corso di conversazioni intercettate, di avere
incontrato Domenico Condello una decina di volte senza mai correre
rischi, criticando al contempo coloro che non avevano dimostrato la
stessa cautela;
Bernardo Vittorio Pedullà era stato protagonista di una delle ricordate
attività di “spedinamento”, in occasione della quale era stato
verosimilmente consentito al Condello di incontrarsi con il figlio Vincenzo,
salito unitamente al Tegano nell’auto condotta dallo stesso Pedullà, che
poi era sfuggita ai controlli della polizia giudiziaria (più tardi, l’auto in
questione era stata nuovamente monitorata, ma con il solo conducente a
bordo, mentre alcune ore più tardi il Tegano e Vincenzo Condello erano
stati rivisti in compagnia del Genoese);

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sistemi di video-sorveglianza allestiti presso edifici privati od esercizi

-

nel corso delle indagini era stato individuato uno degli immobili utilizzati
da Domenico Condello come “covo” per mantenersi latitante, sito in
Reggio Calabria, Via Nazionale Bolano 3, fornito di contatore elettrico non
attivo: le precedenti fatturazioni, per quanto intestate a tale Tiziana
Barresi, risultavano essere state indirizzate presso l’abitazione di
Mariangela Amato (ed anche chi aveva sottoscritto il relativo contratto
aveva indicato come recapito telefonico un’utenza fissa pertinente
all’azienda di cui era titolare il marito della Amato, Pasquale De Carlo),

osservazione, alla guida di una vettura che precedeva immediatamente
un motociclo condotto dal già ricordato Bruno Antonino Tegano, in uscita
da uno dei cancelli di Via Nazionale Bolano, dopo che nel pomeriggio lo
stesso Tegano aveva posto in essere ripetute manovre di
“spedinamento”, compreso imboccare strade contromano, sino ad
immettersi in quella via, sterrata e priva di illuminazione; il perdurare
della fornitura di energia elettrica nell’appartamento in questione era
garantito da un sistema di cavi interrati che collegava l’impianto ad una
idropulitrice di proprietà dell’azienda di trasporti Amato/Barbaro/De Carlo,
idropulitrice a sua volta collegata all’abitazione in uso al nucleo familiare
della Amato, sita in Via Nazionale Bolano, al civico 1;
all’interno dell’indicato immobile erano stati rinvenuti appunti manoscritti,
poi risultati all’esito di accertamenti tecnici grafologici da riferire alla
stessa mano che aveva vergato altre annotazioni già acquisite agli atti e
ritenute ascrivibili al latitante, nonché dei medicinali che risultavano
essere stati prescritti alla madre della Tegano;

nello stesso appartamento, risultato di proprietà di Pasquale Richichi ma
senza che costui ne avesse mai segnalato l’abusiva occupazione da parte
di terzi, venivano repertati un mozzicone di sigaretta, un bicchiere di
plastica ed uno stick di burro-cacao: i successivi accertamenti biologici
consentivano di appurare tracce di un DNA maschile che, posto a
confronto con elementi acquisiti all’esito di una perquisizione domiciliare
nei confronti di Francesco e Paolo Condello (padre e fratello del latitante),
rivelavano l’impossibilità che si trattasse del suddetto Paolo, al contempo
evidenziando la necessità di ricondurlo ad un figlio naturale di Francesco
(con la conseguenza di doverlo identificare in Domenico, essendo l’altro
fratello Pasquale ininterrottamente detenuto dal 1993);

Pasquale Richichi era risultato da pregresse investigazioni in frequente
contatto con Gaetano Francesco Belfiore, soggetto già sottoposto a
misure restrittive della libertà personale in quanto organico alla cosca

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persona notata alle 20:05 dell’11/01/2011, nel corso delle attività di

Condello, e dalle intercettazioni era emersa una chiamata di Margherita
Tegano (rimasta però senza risposta) su un’utenza fissa intestata al
Richichi;
all’esito della individuazione del suddetto covo, da ulteriori intercettazioni
in atto era emerso che Raffaele Nucera (fratello di Francesca Bruna
Nucera, coniugata con Pasquale Condello, germano del latitante), la cui
abitazione era a breve distanza, aveva rappresentato proprio alla sorella
l’opportunità di munire l’edificio di sistemi di video-sorveglianza, e ne era

aveva portato al sequestro di un apparato utile al fine indicato, nonché di
un manoscritto del seguente contenuto: “Cara commare, io me ne sto
andando. Mi diceva l’amico qui che ogni tanto per un paio di giorni posso
venire, e io lo ringraziato. Lascio qui tutto quello che mi avete mandato
perché se torno mi può servire. Vi ringrazio di tutto. Se avete bisogno mi
fate sapere. Salutate tantissimo Bruna. Vi abbraccio e se Dio vuole ci
rivedremo. Ciao. Compare M.”;
lo scritto veniva riferito con ragionevole certezza al latitante, vuoi all’esito
di comparazioni grafiche con altri documenti acquisiti al procedimento e
ritenuti ascrivibili al Condello, vuoi per il tono della comunicazione
(indicativa dell’atteggiamento di un soggetto che dispone di domicili
precari ed abbisogna di assistenza) e della stessa firma, atteso che
Domenico Condello risultava comunemente noto con il soprannome di
“Mico u pacciu”;
la destinataria doveva identificarsi con altrettanta sicurezza in Giuseppa
Cotroneo, madre di Bruna e Raffaele Nucera, tanto più che dalle
dichiarazioni del collaboratore Paolo Iannò risultava come la Cotroneo
avesse già favorito in passato la latitanza di altri soggetti, tra cui lo stesso
Iannò, Pasquale Condello ed Antonino Imerti: anche un ulteriore
collaboratore di giustizia, Rocco Buda, aveva parlato già nel 1995 della
normale possibilità per gli affiliati alla cosca di utilizzare come
nascondiglio l’abitazione della Cotroneo, presso le cui pertinenze (con
particolare riferimento ad un garage) erano stati nascosti anche veicoli da
utilizzare in vista di omicidi programmati dal clan.
1.3 Il collegio richiamava poi ulteriori arresti giurisprudenziali sulla
configurabilità, in fattispecie analoghe a quella sub judice, del delitto di cui
all’art. 390 cod. pen., dovendosi invece escludere l’addebito

ex art. 378 cod.

pen. sia con riguardo alle persone da intendersi prossimi congiunti del latitante,
ai sensi dell’art. 384 cod. pen., sia perché l’ordinanza di custodia cautelare

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derivata una perquisizione presso il domicilio della famiglia Nucera, che

indicata nell’imputazione provvisoria quale provvedimento rimasto eluso aveva
data posteriore rispetto alle condotte come analiticamente contestate.
Analizzando infine la specifica posizione del Genoese, il Tribunale di Reggio
Calabria poneva in evidenza che egli era stato protagonista di una notevole serie
di episodi rilevanti, nell’ambito delle manovre di spostamento o di
“spedinamento” verificate dalla polizia giudiziaria, sottolineandone con analiticità
il carattere obiettivo di condotte volte ad eludere controlli (ad esempio, per la
ripetuta sostituzione di veicoli, come pure a causa dell’utilizzo di percors

i

l’impossibilità di aderire alla tesi sostenuta dal Genoese all’atto dell’interrogatorio
di garanzia, secondo la quale era possibile che egli avesse accompagnato o
raggiunto Bruno Antonino Tegano in vari luoghi perché erano soliti frequentarsi
per ragioni di amicizia, ed era anche verosimile che in via occasionale avesse
dato un passaggio al di lui nipote.
In punto di esigenze cautelari, il Tribunale dava atto che nel caso di specie
doveva intendersi operante il regime di presunzione ex lege di sussistenza di
esigenze cautelari, essendo peraltro esclusa la possibilità di ritenere, al contrario,
del tutto non ravvisabili dette esigenze; nell’ordinanza si segnalava in particolare
l’estrema gravità delle condotte e la concreta prospettiva dell’irrogazione di una
pena afflittiva, fattori incidenti sia sul pericolo di recidiva specifica che sul
pericolo di fuga.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore del Genoese, deducendo
tre motivi.
2.1 Con il primo, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt.
273 cod. proc. pen. e 390 cod. pen., nonché carenza di motivazione in ordine
alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza quanto al delitto di
procurata inosservanza di pena.
La difesa segnala che, nelle circostanze in ipotesi monitorate dagli
investigatori, non risulta in ogni caso provato che il Tegano – accompagnato o
con l’ausilio del Genoese – si incontrò con il latitante, dato questo che il
Tribunale di Reggio Calabria affermerebbe in termini pressoché apodittici, solo
sulla base della circostanza che i due indagati si sottrassero al controllo in atto
da parte degli inquirenti. Secondo l’ipotesi accusatoria, più volte «vi sarebbe
stato un contatto telefonico tra esso ricorrente ed il Tegano, senza poi specificare
dove quest’ultimo si sarebbe recato; ovvero che il Tegano avrebbe lasciato la
propria autovettura presso l’abitazione di esso Genoese; ovvero che il Tegano
sarebbe stato accompagnato dal Genoese presso altra persona che lo avrebbe
prelevato; ovvero, infine, che sarebbe stato recuperato dal Genoese e portato

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irragionevoli per raggiungere il luogo della sosta successiva): ne derivava

presso la propria abitazione, senza alcuna specificazione in ordine al luogo di
provenienza». Il percorso ricostruttivo adottato nell’ordinanza, volendosi
individuare solo su tali presupposti che il luogo di destinazione del ricorrente o
del Tegano fosse il covo del latitante, sarebbe perciò viziato per carenza od
illogicità della motivazione.
In ogni caso, secondo la tesi prospettata nel ricorso non potrebbe dirsi
provato che in occasione dei presunti incontri fra il Tegano e il Condello venne
dato un concreto contributo al latitante per rimanere tale, né che vi fosse a

mantenimento dello stato di latitanza del capo-cosca, né infine che gli autori
della condotta in questione ne fossero consapevoli: a riguardo, le lacune
motivazionali del provvedimento impugnato si paleserebbero di particolare
evidenza, essendo stato erroneamente ritenuto che la norma incriminatrice ex
art. 390 cod. pen. descriva una ipotesi di reato di pericolo, dovendosi invece
sostenere che la fattispecie in esame sia strutturata in guisa «tale da configurare
un reato di danno, richiedendo pertanto una fattiva dimostrazione dell’incidenza
dimostrata dalla condotta posta in essere dal soggetto agente».
2.2 Con il secondo motivo, si spiegano analoghe censure in punto di
inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 273 cod. proc. pen. e 416 cod.
pen., quanto alla ritenuta ravvisabilità del reato associativo.
Ad avviso del difensore del ricorrente, non emergerebbe nel caso in esame
un sodalizio criminoso connotato dalla partecipazione di più soggetti, ciascuno
dei quali avrebbe agito nella consapevolezza di essere inserito in una struttura
complessa dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti: vi
sarebbe al contrario convergenza di elementi indiziari per l’affermazione di una
serie di rapporti bilaterali, in particolare fra Bruno Tegano e più presunti
complici, uno alla volta, senza che ciascuno di costoro sapesse che al contempo
altri prestassero ausilio allo stesso Tegano in vista di un generalizzato e
condiviso programma di favorire la latitanza di Domenico Condello.
Esemplificando, la Amato non pare sapesse alcunché sulle iniziative del Tegano
nell’avvalersi dell’ausilio del Richichi o del Genoese, e viceversa; analogamente è
a dirsi, sul piano della consapevolezza soggettiva, per l’odierno ricorrente quanto
all’essersi il Tegano avvalso dell’ausilio del Richichi, del Morabito o della suddetta
Amato.
In ogni caso, allo stato delle indagini la polizia giudiziaria avrebbe
evidenziato «soltanto sparute ipotesi di attività di pretesa agevolazione
(complessivamente 9)», peraltro quasi esclusivamente risoltesi in rapporti tra il
latitante ed i suoi familiari, oltre a quelle in cui risulta che al Condello venne
messo a disposizione un appartamento; nello specifico del Genoese, anche al di

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monte una correlazione funzionale tra la condotta di chi favoriva detti incontri e il

là della comunque non dimostrata prova del dolo, il suo apporto all’associazione
si sarebbe poi esaurito in un periodo assai limitato, fra il dicembre 2010 e il
marzo 2011, difficilmente compatibile con l’ipotesi della sua partecipazione al
sodalizio.
2.3 II terzo ed ultimo motivo riguarda la contestata ravvisabilità
dell’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, che il Tribunale avrebbe
affermato solo prendendo atto della posizione apicale rivestita da Domenico
Condello all’interno di una organizzazione criminale, facendone immediatamente

verso il mantenimento in vita dello stesso sodalizio. Secondo la difesa, al
contrario, mancherebbe invece la prova di un contributo che la presunta
condotta agevolatrice della latitanza avrebbe arrecato, piuttosto che ad un
soggetto individuato, all’associazione di cui questi dovrebbe intendersi figura di
spicco.
Sul punto, nell’interesse del ricorrente vengono segnalati riferimenti
giurisprudenziali di segno contrario rispetto a quelli evocati nella motivazione
dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Con riguardo al reato di cui all’art. 390 cod. pen., infatti, le censure
mosse dalla difesa del ricorrente non possono condividersi: la ricostruzione
operata dai giudici di merito circa gli spostamenti del Tegano nelle varie
occasioni monitorate è infatti plausibile e lineare, e sarebbe al contrario illogico
pensare che, dopo una serie di spostamenti adottati con ripetute cautele,
evidentemente mirate ad eludere i possibili controlli degli investigatori, sino a
riuscire a far perdere le proprie tracce ricorrendo ad uno schema
comportamentale consolidato, l’obiettivo dello stesso Tegano e di coloro che
agirono per dargli supporto fosse solo quello di non dare contezza di sé. Deve
invece ragionevolmente ritenersi che in quei giorni il Tegano, peraltro fungendo
da vero e proprio “motore” del sodalizio, si fosse accordato con gli altri
protagonisti degli episodi ricostruiti nella motivazione dell’ordinanza oggetto di
gravame (fra cui il Genoese, emerso in una pluralità di episodi fra il 6 marzo
2010 e il 24 marzo 2011, ergo per più di un anno) dando loro le direttive del
caso per sfuggire a quelle attività di controllo, e per l’unica ragione verso cui egli
potesse nutrire un concreto ed attuale interesse: vale a dire la prospettiva di
incontrarsi con il latitante o di consentire a costui di vedere i propri congiunti.

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derivare la conseguenza della strumentalità di un qualunque aiuto a lui prestato

Una possibile spiegazione alternativa, per quanto data per possibile dal
ricorrente, non viene neppure offerta.
Non potrebbe del resto sostenersi che il Genoese approfittò, in ognuna delle
circostanze sopra ricordate, di momentanee occasioni di lontananza di Polizia e
Carabinieri per raggiungere il Condello o per consentire ad altri di farlo: la
ripetitività degli accorgimenti adottati, il ricorso a “macchine pulite” ed il
controllo della sosta delle altre vetture utilizzate per raggiungere i luoghi
concordati dimostrano al contrario l’adozione di un modus operandi consolidato e

questi rimanesse nell’ombra ormai da anni potevano sfuggire al Genoese, data la
sua consolidata frequentazione con il Tegano (documentata anche dagli accordi
telefonici strumentali a realizzare le attività di “spedinamento”) sino a diventarne
un vero e proprio alter ego.
La giurisprudenza di questa Corte ha infatti già avuto modo di affermare che
«in tema di procurata inosservanza di pena, la prova circa la consapevolezza
dell’imputato di agevolare l’autore di un reato a sottrarsi all’esecuzione della
pena può fondarsi sulla notorietà della caratura criminale del soggetto favorito,
nonché del fatto che egli sia stato condannato per tale reato e che si sia reso
latitante» (Cass., Sez. VI, n. 2533 del 26/11/2009, Gariffo, Rv 245702). Anche
in punto di ricorrenza dell’aggravante della finalità di agevolazione di
un’associazione qualificabile ex art. 416-bis cod. pen., ai sensi dell’art. 7 del d.l.
n. 152 del 1991, e sempre in tema di procurata inosservanza di pena, è stata
rilevata la necessità di dimostrare che la piattaforma indiziaria riguardi non solo
«la consapevolezza da parte dell’indagato in ordine alla identità e agli specifici
connotati del boss favorito, ma anche che quest’ultimo nel periodo dell’ottenuto
favoreggiamento sia rimasto titolare, in base ad una fondata ipotesi ricostruttiva,
della capacità di continuare a dirigere l’associazione di riferimento» (v., a
proposito di clan camorristici, Cass., Sez. V, n. 19079 del 19/04/2010, Perna, Rv
247253).
Favoreggiamento che, come correttamente segnalato nell’ordinanza
impugnata, può realizzarsi anche quando il soggetto si adoperi per favorire i
contatti tra il ricercato e i suoi congiunti, attraverso la concreta predisposizione
di autoveicoli idonei ad eludere le ricerche delle forze di polizia, pur dovendosi
distinguere – ai fini della ravvisabilità della circostanza aggravante ricordata «l’aiuto prestato alla persona da quello prestato all’associazione, e potendosi
ravvisare l’aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la
oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere
dall’organizzazione criminale» (Cass., Sez. VI, n. 19300 dell’11/02/2008,
Caliendo, Rv 239556; v. anche Sez. VI, n. 13457 del 28/02/2008, Sirignano,

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tutt’altro che estemporaneo. Né la chiara fama del boss ed il fatto notorio che

relativa ad un caso in cui si assumeva agevolata la latitanza di un capo
camorrista, per averne reso possibile un incontro con il figlio, accompagnato dal
padre a bordo di un’autovettura).
Il collegio ritiene peraltro di privilegiare l’approdo interpretativo più recente,
cui è pervenuta altra pronuncia (Cass., Sez. H, n. 26589 del 26/05/2011,
Laudicina, Rv 251000), secondo la quale in caso di procurata inosservanza di
pena in favore di un boss mafioso non sarebbe invece necessario operare
distinzioni di sorta: è infatti incontestabile che «ricorre la circostanza aggravante

un’associazione di tipo mafioso se la condotta di favoreggiamento della latitanza
abbia quale beneficiario un soggetto che riveste un ruolo apicale all’interno della
struttura associativa, dal momento che la condotta diretta alla preservazione
finisce col favorire l’intera associazione».
La capacità del Condello di continuare a dirigere l’associazione di riferimento
emerge in re ipsa dal rilievo che il gruppo organizzato dal Tegano era stato
costituito anche al fine di consentire che il boss facesse pervenire al fratello della
compagna le disposizioni necessarie per svolgere il compito di reggente;

ergo,

nella fattispecie concreta non vi è alcuno spazio per ipotizzare che sia mancata la
lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, né che l’ausilio sia
stato prestato dall’indagato e dagli altri protagonisti della vicenda a Domenico
Condello come tale, piuttosto che come figura di spicco della ‘ndrangheta.
Gli elementi già ora evidenziati impongono pertanto di disattendere anche il
terzo motivo di ricorso.
1.2 E’ parimenti da condividersi quanto segnalato nell’ordinanza impugnata
in ordine alla gravità indiziaria del delitto di cui all’art. 416 cod. pen.
Si è appena ricordato che per consentire al capo-cosca di incontrarsi con
congiunti ed altri sodali (nel senso di affiliati alla presupposta associazione ex
art. 416-bis cod. pen.) Bruno Antonino Tegano aveva organizzato una struttura
stabile, ricorrendo a soggetti in grado di procurare vetture od altri mezzi di
trasporto, ad altri capaci di porre in essere manovre di depistaggio da possibili
controlli ad opera delle forze di polizia, sino a disporre di immobili
apparentemente in disuso, ma a cui veniva garantita la somministrazione di
energia elettrica od altre forniture di servizi: vi era dunque «la predisposizione di
un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla
realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte
dei singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad
operare per l’attuazione del programma criminoso comune» (v. Cass., Sez. VI, n.
3886 del 07/11/2011, Papa, Rv 251562).

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speciale dell’aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di

Che poi l’uno o l’altro dei protagonisti di quelle attività conoscesse tutti gli
altri, non può rilevare, non richiedendosi certamente – per poter affermare
l’esistenza di un vincolo associativo – che tutti i membri della struttura criminale
siano al contempo consapevoli nei particolari dell’apporto offerto dagli altri
compartecipi, o della stessa identità di costoro. Consolidata giurisprudenza
insegna infatti che «il dolo del delitto di partecipazione, semplice o qualificata, ad
una associazione per delinquere non consiste soltanto nella coscienza e volontà
di apportare quel contributo richiesto dalla norma incriminatrice, ma trattandosi

anche, di partecipare e di contribuire attivamente con esso alla vita di
un’associazione, nella quale i singoli associati, con pari coscienza e volontà,
fanno convergere i loro contributi, come parte di un tutto, alla realizzazione del
programma comune, divenuto, così, “causa comune” (civilisticamente intesa)
dell’agire del singolo e dell’ente. Naturalmente non è necessaria la conoscenza
reciproca di tutti gli associati, poiché quel che conta è la consapevolezza ed
volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa
consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata
secondo lo schema legale» (Cass., Sez. I, n. 7462 del 22/04/1985, Arslan, Rv
170231).
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del Genoese al pagamento
delle spese del presente giudizio di Cassazione.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di
cui al dispositivo.

P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp.
att. cod. proc. pen.
Così deciso il 12/02/2013.

di un reato a concorso necessario e a dolo specifico, nella consapevolezza,

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