Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4709 del 08/01/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 4709 Anno 2014
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RAGIONE ANTONIO N. IL 14/04/1974
avverso la sentenza n. 69/2010 CORTE APPELLO di LECCE, del
09/03/2012

Data Udienza: 08/01/2014

visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI
Udito il Procuratore Generale in perso del Dott.
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arte civile, l’Avv

Uditi difensor Avv.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Lecce, con sentenza del 9/3/2012, pronunciando
sull’appello proposto da Ragione Antonio avverso la sentenza del G.U.P. del
Tribunale di Lecce che lo aveva condannato alla pena di anni otto di reclusione
per i reati di tentato omicidio, tentate lesioni aggravate, rapina e tentato
danneggiamento, confermava la sentenza impugnata.
Le condotte si inserivano in un burrascoso rapporto tra Ragione e l’ex moglie
Garofalo Emanuela i quali, pochi giorni prima dei fatti, erano tornati a vivere
insieme. La donna, peraltro, era incinta di un altro uomo; la vittima del tentato
omicidio, Mascoma Romina, è la sorella di questi.
Secondo l’imputazione, il 28/10/2007 l’imputato aveva aggredito l’ex moglie
con pugni e calci (con un referto per giorni due) e si era impossessato della sua
borsa, contenente la somma di euro 20,00 e un telefono cellulare; la notte
successiva aveva tentato di incendiare l’autovettura di Mascoma Vincenzo con
una tanica di benzina, rinvenuta e sequestrata dai Carabinieri a seguito della
denuncia di Mascoma Romina; il giorno dopo l’uomo aveva seguito per strada le
due donne con la sua autovettura e le aveva sorprese da sole proprio dopo che
esse erano uscite dalla Caserma dei carabinieri: con un coltello da cucina con
lama della lunghezza di centimetri 20, successivamente sequestrato, aveva
tentato di colpire la moglie, che era riuscita a fuggire, e poi si era rivolta verso la
Mascoma e l’aveva colpito al fianco (la donna era svenuta), dandosi poi alla fuga
con l’autovettura. Il colpo aveva trapassato la milza (che era stata asportata
chirurgicamente) e l’emiperitoneo. La donna, prontamente soccorsa e sottoposta
ad intervento chirurgico, non era stata in pericolo di vita.

L’imputato aveva negato la rapina e le percosse ai danni della ex moglie,
nonché le tentate lesioni ai danni della stessa, sostenendo di avere colpito la
Mascoma per rabbia perché ella lo aveva insultato, calunniato e minacciato di
morte, tenendo un sasso in mano (la donna aveva sostenuto di aver lanciato un
sasso contro l’uomo per distoglierlo dal tentativo di colpire l’ex moglie).

La Corte territoriale riteneva credibili le dichiarazioni delle due persone
offese, riscontrate da elementi obiettivi; nelle due narrazioni non si rinvenivano
discrasie di rilievo, mentre la versione dell’imputato era ritenuta inverosimile: in
particolare, Ragione non veniva creduto quando aveva sostenuto di avere colpito
la Mascoma solo per difendersi dall’aggressione delle due donne, essendo egli
smentito dalle testimonianze delle persone offese, dai rilievi dei militari, dai
referti medici e dalla consulenza medico – legale.

.

La condotta più grave doveva essere qualificata come tentato omicidio – e
non come lesioni personali aggravate, come aveva ritenuto il Tribunale del
Riesame – in quanto l’uomo aveva tentato due volte di colpire la vittima, prima
attingendola solo di striscio al petto (zona vitale) e poi ferendola al fianco,
cosicché la fuga dopo il secondo colpo non aveva rilevanza per escludere il
tentativo di omicidio.
La consulenza medico legale aveva dimostrato che la zona attinta, per le sue
caratteristiche, era vitale e che il coltello da cucina era di sicura capacità lesiva;

differenti zone vitali con un coltello di elevata potenzialità offensiva.

La Corte escludeva la sussistenza della scriminante putativa della legittima
difesa: le donne erano appena uscite dalla Caserma dei carabinieri e non
avevano affatto aggredito l’imputato, mentre la Mascoma gli aveva lanciato
contro un sasso solo per distoglierlo dall’aggressione in corso nei confronti della
Garofalo; non vi era stata, poi, alcuna provocazione.
Le tentate lesioni ai danni della Garofalo venivano ritenute premeditate:
Ragione aveva già percosso l’ex moglie il giorno prima, l’aveva minacciata di
morte mostrando quel coltello che poi avrebbe usato e l’aveva seguita con la sua
autovettura portando con sé l’arma.

La Corte sottolineava che la rapina e le percosse poste in essere nei
confronti della Garofalo erano state denunciate la sera stessa dalla vittima, che
aveva prodotto il referto ospedaliero, così come il tentativo notturno di incendio
dell’autovettura era stato immediatamente denunciato dalla Mascoma, la cui
presenza aveva costretto l’imputato ad interrompere l’azione.
La Corte respingeva, infine, le censure concernenti la misura della pena.

2. Ricorre per cassazione il difensore di Ragione Antonio, deducendo distinti
motivi.
In un primo motivo il ricorrente deduce manifesta illogicità della motivazione
con riferimento al difforme contenuto delle dichiarazioni rese dalle due persone
offese con riferimento all’episodio più grave.
Era, infatti, inverosimile la giustificazione data dalla Corte alla circostanza
che la Garofalo non si era accorta del lancio del sasso da parte della Mascoma
nei confronti di Ragione.

In un secondo motivo si deduce vizio della motivazione con riferimento
all’esclusione dell’attenuante della provocazione, pur in presenza dei presupposti

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l’animus necandi si ricavava dall’avere più volte l’imputato colpito la vittima in

per la sua applicazione.

In un terzo motivo si denuncia violazione della legge penale e illogicità della
motivazione con riferimento alla qualificazione della condotta come tentato
omicidio, anziché come lesioni: apoditticamente la Corte aveva definito come
zone vitali il petto e il fianco; il coltello era stato ritenuto arma di sicura capacità
lesiva, ma la Corte aveva tralasciato che la vittima non era mai stata in pericolo

Con riferimento allo stesso reato, il ricorrente denuncia l’erronea
applicazione della legge penale, essendo stato ritenuto sussistente il tentato
omicidio nonostante la vittima non fosse stata concretamente in pericolo di vita.

Nel motivo successivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione
con riferimento al reato di rapina: la Corte aveva omesso di valutare
l’attendibilità delle dichiarazioni della Garofalo e di tenere conto che l’evento
delittuoso era da ricondurre ai rapporti tra i due ex coniugi e non era frutto della
perseguimento di un ingiusto profitto patrimoniale.

Nell’ultimo motivo si contesta violazione della legge penale con riferimento
alla determinazione della pena e alla mancata concessione delle attenuanti
generiche. In particolare la Corte non ha tenuto conto che il G.I.P. aveva potuto
convalidare l’arresto del Ragione solo sulla base delle sue parziali ammissioni.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

3. Il difensore del ricorrente ha depositato motivi aggiunti, con cui, in
particolare, sottolinea che la Mascoma, secondo il suo stesso racconto, si era
munita del grosso sasso che aveva poi lanciato contro il ricorrente assai prima
dell’incontro con Ragione dopo l’uscita dalla Caserma dei carabinieri. Ricorreva,
quindi, con ogni evidenza l’attenuante della provocazione.
Per sostenere la esatta qualificazione del reato più grave in quello di lesioni
volontarie, il ricorrente sottolinea che l’evento letale non sopraggiunse non per la
rapidità dei soccorsi, ma per la natura delle ferite, non idonee a cagionare la
morte della persona offesa. Rilevante era anche la circostanza che la
documentazione medica non riportava affatto la lesione di striscio al petto che,
secondo il racconto della persona offesa, le era stata procurata nel primo
tentativo posto in essere dall’imputato. Il colpo era stato, quindi, unico ed esso
non aveva comportato il pericolo di vita della vittima.
Il ricorrente insiste, quindi, nelle conclusioni precisate in ricorso.

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di vita e che l’imputato si era allontanato dopo avere colpito la Mascoma.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile, sia per la manifesta infondatezza di alcuni
motivi, sia perché le deduzioni del ricorrente sono in fatto e sollecitano questa
Corte ad una diversa ricostruzione degli avvenimenti, pur in presenza di una
motivazione della sentenza impugnata adeguata, completa e priva di illogicità
manifeste o di contraddittorietà con atti del processo.

In particolare, la Corte motiva adeguatamente sulla credibilità delle due

avevano puntualmente ed immediatamente denunciato le precedenti azioni ai
loro danni, che la loro versione è concorde e che l’imputato si è limitato a negare
le condotte meno gravi messe in atto il giorno e la notte prima e, quanto
all’aggressione, ha sostenuto di essersi limitato a reagire alle calunnie e agli
insulti della Mascoma.
Dalla lettura della sentenza di primo grado, d’altro canto, si evincono
ulteriori elementi: in particolare che Ragione era già stato arrestato in
precedenza per maltrattamenti nei confronti della moglie e che egli aveva
sostenuto di avere portato il coltello con sé nell’autovettura perché spaventato
della minacce subite, mai precisate.

In questo quadro, la giustificazione della Corte in ordine alla lieve
discordanza nel racconto delle due donne in ordine all’episodio più grave – la
Garofalo non aveva riferito del lancio del sasso da parte della Mascoma nei
confronti di Ragione – non è affatto illogica: la Corte osserva che la Garofalo
stava fuggendo di fronte all’aggressione con il coltello dell’uomo e che, pertanto,
ciò rendeva verosimile che ella non si fosse accorta che la Mascoma stava
facilitando la sua fuga con il lancio del sasso contro Ragione il quale,
immediatamente dopo, aveva rivolto il coltello nei suoi confronti.

L’esclusione dell’attenuante della provocazione discende dal credito
attribuito al racconto delle due donne: se il lancio del sasso era avvenuto dopo
che Ragione aveva tentato di ferire la Garofalo, evidentemente il lancio non
costituiva nessuna provocazione, ma un’attività difensiva.
L’assurdità della tesi della provocazione si evince dalla constatazione che le
donne erano appena uscite dalla caserma dei carabinieri dove – per la terza volta
– avevano denunciato l’uomo: questi, da parte sua, le stava cercando con la sua
autovettura e aveva portato con sé un coltello con una lama di venti centimetri.

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persone offese e sulla non attendibilità dell’imputato, sottolineando che le prime

2. La qualificazione della condotta più grave come tentato omicidio è
ampiamente motivata e in maniera assai convincente: che il petto e il fianco
siano zone vitali non è affatto affermazione apodittica; il giudizio della Corte sulla
micidialità dell’arma e sull’idoneità della ferita a provocare la morte è fondata sui
dati medici legali; il fatto che la Mascoma non sia mai stata concretamente in
pericolo di vita è chiaramente attribuibile al rapido intervento dei sanitari (la tesi
contraria sostenuta nei motivi aggiunti è – questa sì – apodittica, visto il tenore
della relazione del consulente medico-legale del P.M., che riferiva che il pronto

la necessità di trasfusioni di plasma e globuli rossi).

Soprattutto, il ricorrente sembra fare confusione tra il concetto di “concreto
pericolo di vita” collegato al requisito dell’idoneità degli atti (art. 56 cod. pen.) e
gli effetti fisici che la condotta dell’agente produce sulla persona offesa. Appare
ovvio che un tentativo di omicidio può esistere anche se la vittima non ha
riportato alcun danno fisico: ad esempio nel caso di un colpo di pistola sparato
contro una persona senza colpirla.
Il giudizio di idoneità degli atti consiste, quindi, in una prognosi compiuta ex
post con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento
dell’azione, in base alle condizioni meramente prevedibili nel caso particolare,
che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (Sez. 1, n.
32851 del 10/06/2013 – dep. 29/07/2013, Ciancio Cateno, Rv. 256991); occorre
tenere conto delle circostanze in cui operava l’agente e delle modalità
dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine
a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto
dalla norma incriminatrice (Sez. 1, n. 1365 del 02/10/1997 – dep. 05/02/1998,
Tundo ed altro, Rv. 209688).

3. Anche il motivo concernente il delitto di rapina è manifestamente
infondato: non solo la Corte territoriale ha valutato l’attendibilità della persona
offesa, ma il suo racconto era, per di più, riscontrato dal referto medico rilasciato
alla Garofalo.

Il ricorrente contesta che la sottrazione della borsa della donna, contenente
il telefono cellulare e una modesta somma di denaro, fosse finalizzata al
perseguimento di un ingiusto profitto patrimoniale: ma la costante
giurisprudenza di questa Corte insegna che nel delitto di rapina il profitto può
concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi
soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non

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intervento in ospedale aveva permesso un rapido arresto dell’emorragia, ma con

immediatamente, dalla

propria azione,

purché questa sia attuata

impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a
chi la detiene (Sez. 2, n. 49265 del 07/12/2012 – dep. 19/12/2012, Iudice, Rv.
253848).

4.

Anche l’ultimo motivo di ricorso, con cui si censura la mancata

concessione delle attenuanti generiche e la determinazione della pena, è
inammissibile in quanto assolutamente generico: già la Corte aveva ritenuto

mutare il giudizio operato dal giudice di primo grado; il ricorrente individua, in
sede di ricorso, un motivo costituito dalla circostanza che le dichiarazioni di
Ragione erano state utilizzate dal G.I.P. per convalidare il suo arresto: ma la
Corte valuta tali dichiarazioni, ritenendo che l’imputato si sia “limitato ad
esercitare il proprio diritto a mentire”, escludendo, quindi, la loro utilità per la
determinazione della pena; ritiene anche – con motivazione sintetica ma
adeguata – la pena inflitta dal primo giudice “non particolarmente severa, ove si
tenga conto della gravità dei fatti e della personalità del colpevole, estraneo a
qualsiasi resipiscenza”.

5. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale
ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle Ammende, non
esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte
Cost. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro 1.000 alla Cassa delle
ammende.

Così deciso 1’8 gennaio 2014

Il Consigliere estensore

generico il motivo di appello, che non offriva alcun elemento obiettivo per

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