Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 47017 del 03/10/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 47017 Anno 2013
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da Picarella Roberto (n. il 26.05.1946) avverso la
sentenza della Corte d’appello di Roma, Il Sezione penale, in data
20.07.2011.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Roberto
Aniello, il quale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA:

Data Udienza: 03/10/2013

Con sentenza del 12.07.2007, il Tribunale di Frosinone dichiarò
Picarella Roberto responsabile dei reati di ricettazione di un’autovettura e di
truffa e — con le attenuanti generiche e unificati i reati ex art. 81 del c.p. – lo
condannò alla pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione ed € 3.000,00 di multa.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame. La Corte d’appello
di Roma, con sentenza del 20/07/2011, in riforma della sentenza del

per essere lo stesso estinto per intervenuta prescrizione e rideterminò la
pena per il residuo reato di ricettazione in anni 1 e mesi 4 di reclusione ed
Euro 2.400,00 di multa. Confermò, nel resto, la decisione di primo grado.
Ricorre per cassazione l’imputato deducendo la mancanza, la
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sua
ritenuta penale responsabilità. In particolare evidenzia che nessun elemento
probatorio rivela che egli fosse consapevole della provenienza delittuosa
dell’autovettura; inoltre la Corte di appello non ha tenuto conto del valore
dell’auto ceduta in permuta. Sottolinea lo stesso vizio motivazionale in ordine
alla mancata derubricazione del reato di ricettazione in quello di incauto
acquisto. Chiede, infine, che il reato sia dichiarato estinto per prescrizione.
Il ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento dell’impugnata
sentenza.
motivi della decisione

Le doglianze relative alla carenza di motivazione in ordine alla
sussistenza dell’elemento psicologico e alla mancata derubricazione del
delitto di cui all’art. 648 del c.p. nella contravvenzione prevista dall’art. 712
del c.p. sono manifestamente infondate. Infatti, la Corte territoriale ha con
esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutti i motivi
dai quali desume la piena responsabilità dell’imputato per il reato di cui
sopra. A solo titolo di esempio, appare opportuno ricordare che la Corte di
appello — dopo aver riportato le parti salienti della motivazione del Tribunale,
quanto riferito dalla P.O. lacovielli Pierluigi, le dichiarazioni e i comportamenti
di tutti gli imputati – ha sottolineato che, oltre quanto emerge dalle predette
dichiarazioni e comportamenti, il ricorrente non ha mai fornito una
giustificazione plausibile sul possesso dell’autovettura di provenienza

Tribunale di Frosinone dichiarò il non doversi procedere per il reato di truffa

delittuosa. Come ben rilevato dal Giudice di merito, questa Suprema Corte
ha, in proposito, più volte affermato il principio – condiviso dal Collegio – che
ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento
soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa – o non
attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è
sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile

dep. 13/03/1997 – Rv. 207313; Sez. 2, Sentenza n. 16949 del 27/02/2003
Ud. – dep. 10/04/2003 – Rv. 224634). Dunque, la Corte di appello ha
puntualizzato di ravvisare nel caso di specie il dolo diretto dell’imputato
tenendo conto proprio della mancata giustificazione del possesso del bene e
del comportamento del Picarella. Si osserva, in proposito, che le valutazioni
di merito sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di
valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e
l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie. (Cass. pen. sez.
un., 24 novembre 1999, Spina, 214794).
Quanto sopra spiega, con evidenza, anche perché la Corte territoriale
non abbia ravvisato il reato di cui all’articolo 712 del c.p. e perché non vi sia
la necessità di ulteriore spiegazione sul punto, oltre a quella esaustiva fornita
dal Giudice di merito. Infatti, tale deduzione difensiva è logicamente
incompatibile con la decisione adottata e pertanto non era neppure
necessario che fosse confutata esplicitamente (Sez. 4, Sentenza n. 1149 del
24/10/2005 Ud. – dep. 13/01/2006 – Rv. 233187). A tal proposito questa
Suprema Corte ha, infatti, più volte, affermato il principio — condiviso dal
Collegio — che la regola della “concisa esposizione dei motivi di fatto e di
diritto su cui la decisione è fondata”, enunciata dall’art. 546, comma primo,
lettera e), cod. proc. pen., rende non configurabile il vizio di legittimità
allorquando nella motivazione il giudice abbia dato conto soltanto delle
ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto
quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto
incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni
giuridiche sviluppate. (Sez. 4, Sentenza n. 36757 del 04/06/2004 Ud. – dep.
17/09/2004 – Rv. 229688). Si osserva, inoltre, che, contrariamente a quanto
sostenuto nel ricorso, la Corte di merito prende in esame la questione

con un acquisto in mala fede (Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 27/02/1997 Ud. –

relativa all’eventuale sopravvalutazione della macchina data in permuta dalla
P.O., ma con motivazione incensurabile la ritiene irrilevante (si veda pagina 8
dell’impugnata sentenza). Infine, apoditticamente il ricorrente sostiene che il
Picarella non ha tratto alcun profitto; invero, come emerge chiaramente dalle
due sentenze di merito, il profitto è costituito dal fatto che a fronte di
un’autovettura rubata l’imputato riceve 27 milioni di lire (17 milioni di lire è il

sopravalutato, il valore dell’auto in permuta ha pur sempre una certa
consistenza). Si deve, poi, osservare che questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio — condiviso dal Collegio e correttamente applicato dai
Giudici di merito — che il delitto di ricettazione è un reato istantaneo
(ancorchè il fatto possa avere effetti permanenti) e al tempo stesso un reato
formale, in quanto si consuma con il compimento dell’azione,
indipendentemente dalla realizzazione del fine specifico di questa e dal
verificarsi di un danno. Pertanto, nel caso in cui taluno, dopo aver conseguito
il possesso di una cosa furtiva, per realizzare il fine di profitto perseguito
l’abbia venduta ad altri ponendo in essere artifici o raggiri in guisa da trarre in
inganno il compratore circa l’identità e la provenienza della stessa cosa, con
il delitto previsto dall’ad 648 concorre materialmente il delitto di truffa
concretantesi in tale fraudolenta attività successiva alla consumazione
dell’altro reato; e lo stesso delitto di truffa deve inoltre ritenersi aggravato ai
sensi dell’ad 61, n 2, cod. pen. siccome commesso per assicurare il profitto
della ricettazione. Inoltre, il reato di ricettazione si perfeziona con il
conseguimento del possesso della cosa di provenienza delittuosa, con
l’intenzione di trarre da essa profitto. Nell’ipotesi in cui il soggetto attivo
commetta, per realizzare il profitto che si è proposto, un secondo delitto, tale
ultimo reato non è assorbito nel primo, che è già perfetto ma concorre
materialmente con esso (Sez. 2, Sentenza n. 367 del 07/03/1966 Ud. – dep.
26/05/1966 – Rv. 101566; Sez. 2, Sentenza n. 931 del 07/07/1981 Ud. – dep.
30/01/1982 – Rv. 151881; Sez. 2, Sentenza n. 19644 del 08/04/2008 Ud. dep. 16/05/2008 – Rv. 240406). Da quanto sopra emerge, chiaramente,
anche la manifesta infondatezza della generica richiesta del ricorrente di
ravvisare, nel caso di specie, il reato di favoreggiamento reale e non il reato
di ricettazione; infatti il ricorrente ha acquistato o comunque ricevuto l’auto

valore dell’auto data in permuta e 10 milioni in assegni; è ovvio che seppure

consapevole della sua illecita provenienza e al fine di trarne profitto (si veda,
sul punto, anche: Sez. 2, Sentenza n. 47171 del 06/12/2005 Ud. – dep.
23/12/2005 – Rv. 232931).
A fronte di quanto sopra il ricorrente — come si è già detto – contrappone
solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni della Corte
territoriale e che si fondono solo su mere congetture. In particolare non

territoriale allorchè conferma la decisione del Tribunale. Si deve osservare, in
proposito, che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve
essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato
a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze (che tra l’altro nel caso di specie non si ravvisano). Inoltre,
questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal
Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando
manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione,
che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza
cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett.
c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1,
sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Per quanto riguarda, infine, la richiesta di applicazione della
prescrizione del reato si deve rilevare che il reato non era prescritto quando è
stata pronunziata la sentenza di secondo grado (sentenza della Corte di
appello del 20.07.2011, prescrizione – pur seguendo il calcolo del ricorrente —
in data 18.03.2012), data alla quale bisogna fare riferimento dovendosi
dichiarare l’inammissibilità del ricorso. Inammissibilità che non consente il
formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la
possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art.
129 cod. proc. pen. maturate, nel caso di specie, successivamente alla
sentenza impugnata con il ricorso (si veda fra le tante: Sez. 4, Sentenza n.
18641 del 20/01/2004 Ud. – dep. 22/04/2004 – Rv. 228349). E’ appena il
caso di precisare che quando si parla di sentenza di condanna non si deve
far riferimento al deposito della motivazione, bensì al momento della
pronuncia della sentenza di condanna, mediante lettura del dispositivo. È

evidenzia alcuna illogicità o contraddizione nella motivazione della Corte

infatti incontrovertibile, in generale, il principio di diritto che, al fine di
individuare il momento nel quale si produce l’interruzione della prescrizione
del reato, occorre avere riguardo a quello dell’emissione di uno degli atti
indicati nell’art. 160 c.p. (ex plurimis Sez., un. 16 marzo 1994, dep. 31 marzo
1994, dep. 3760, id. 28 ottobre 1998, dep. 18 dicembre 1998, n. 13390) e,
con specifico riferimento, alla sentenza di condanna che l’interruzione della
prescrizione opera al momento della lettura del dispositivo – anche quando

non sia data contestuale lettura della motivazione – in quanto tale è il
momento in cui si accerta la responsabilità e si infligge la pena, e non in
quello successivo del deposito che serve, appunto, alla ulteriore
comunicazione delle ragioni di condanna, a fini processuali (Sez. 2, 20
ottobre 1980, dep. 3 dicembre 1980, n. 1283; Sez. 5, 4 novembre 2003, dep.
2 dicembre 2003, n. 46231; Sez. 6, Sentenza n. 31702 del 26/05/2008 Ud. dep. 29/07/2008 – Rv. 240607). Si deve, infine, rilevare che la sentenza citata
dal ricorrente (Sez. 3, Sentenza n. 19330 dell’11/03/2009 Ud. – dep.
08/05/2009 -) non contrasta con quanto sopra. Infatti, la Corte in tale
sentenza ritiene che i ricorsi siano infondati e non inammissibili, come è,
invece, nel caso di cui ci stiamo occupando oggi. Si legge, infatti, nella
motivazione della predetta sentenza: “Il collegio rileva preliminarmente che il
reato ascritto si è estinto per prescrizione essendo maturato alla data del 16
maggio del 2008, ossia dopo la decisione impugnata, il termine
prescrizionale prorogato, secondo la disciplina, applicabile alla fattispecie
ratione temporis, vigente prima della novella n. 251 del 2005. I ricorsi,
ancorché infondati, non possono comunque considerarsi manifestamente tali
perché pongono comunque delle questioni interpretative”.
Uniformandosi a tali orientamenti, che il Collegio condivide, va
dichiarata inammissibile l’impugnazione.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

6

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 03.10.2013.

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