Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46954 del 21/05/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 46954 Anno 2015
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: PAOLONI GIACOMO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
BONGIOVANNI Filippo, nato a Patti (ME) il 09/09/1968,
avverso la sentenza del 11/04/2014 della Corte di Appello di Messina;
esaminati gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata;
udita la relazione del consigliere Giacomo Paoloni;
udito il pubblico ministero in persona dell’Avvocato generale Carlo Destro, che ha
chiesto il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. Costantino Tonelli Conti (in sostituzione dell’avv. Rosalia
Eliana Raffa), che si è riportato ai motivi di ricorso, insistendo per il suo accoglimento.

RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di Appello di Messina ha
confermato la sentenza del Tribunale di Patti del 14.10.2010 con cui Filippo Bongiovanni
è stato riconosciuto colpevole del reato di peculato e condannato, concessegli le
attenuanti generiche e l’attenuante del fatto di particolare tenuità (art. 323

bis c.p.),

alla pena condizionalmente sospesa di un anno e sei mesi di reclusione.
Condotta criminosa ascritta al Bongiovanni, incaricato di pubblico servizio (o
“agente contabile”) quale titolare di una ricevitoria del gioco del lotto (n. ME3078 di

Patti) affidatagli in regime di concessione dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli
di Stato, per essersi lo stesso appropriato la somma di euro 2.824,64, corrispondente

Data Udienza: 21/05/2015

(detratte le cifre per vincite pagate agli utenti e per l’aggio di sua pertinenza) agli
importi riscossi per le giocate ricevute nella settimana contabile dal 24 marzo
(mercoledì) al 30 marzo (martedì) del 2004, omettendo di versare detta somma alla
amministrazione entro il giovedì successivo, come stabilito dal contratto di concessione.
Le due conformi decisioni di merito, dopo aver ripercorso vigente disciplina
primaria e regolamentare della gestione delle ricevitorie del lotto in rapporto di
concessione, hanno ricostruito le scansioni modali e temporali della condotta
appropriativa posta in essere dal Bongiovanni, sottolineando come la stessa vada

già affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare la sentenza di secondo grado, respingendo uno specifico motivo
aggiunto di appello, ha escluso la riconducibilità del fatto appropriativo del Bongiovanni
alla ipotesi criminosa speciale di cui all’art. 8 L. 19.4.1990 n. 85 (recante modificazioni
della legge 2.8.1982 n. 528 sull’ordinamento del gioco del lotto), secondo la quale il
raccoglitore del gioco del lotto che versa i proventi della raccolta del gioco (scommesse)
oltre il giovedì della settimana successiva all’estrazione è punito con la reclusione fino
ad un anno o con la multa fino a lire due milioni (reato da ritenersi prescritto alla data
della decisione di appello). Tale norma, osserva la Corte territoriale, punisce la sola
circoscritta ipotesi del semplice “ritardo” (di pochi giorni) nel versamento dei proventi
della ricevitoria e non è applicabile alla condotta di appropriazione dell’imputato,
protrattasi ben oltre la settimana e, soprattutto, dopo l’intervenuta diffida ad adempiere
notificatagli dall’Amministrazione dei M.S., la relativa procedura essendosi poi esaurita
con la revoca (21.7.2004) della concessione per la raccolta delle giocate del lotto
(ricevitoria) conferita al Bongiovanni. Donde congiuntamente, aggiungono i giudici di
appello, l’irrilevanza per gli effetti di cui all’art. 314 c.p. del postumo versamento da
parte del Bongiovanni della somma dovuta, verificatosi soltanto 5.12.2004.
2. Contro la sentenza di appello Filippo Bongiovanni ha proposto, con il ministero
del difensore, ricorso per cassazione, deducendo le violazioni di legge e le carenze della
motivazione di seguito riassunte.
2.1. Violazione degli artt. 521, 522, 552 e 649 c.p.p. e difetto di motivazione.
Come dedotto con un motivo aggiunto di appello, l’accusa aveva in origine
contestato al Bongiovanni il reato di cui all’art. 314 c.p., chiedendone il rinvio a giudizio.
Ma all’esito dell’udienza preliminare svoltasi il 4.4.2006 il g.u.p. del Tribunale di Patti
aveva disposto -ai sensi dell’art. 33 sexies c.p.p.- la restituzione degli atti al p.m.,
riqualificando la condotta dell’imputato a norma dell’art. 8 L. 85/1990, reato per il quale
è previsto (artt. 550, 552 c.p.p.) l’esercizio dell’azione penale mediante citazione diretta
a giudizio davanti al Tribunale in composizione monocratica. In siffatta situazione
processuale il p.m. aveva una duplice alternativa: o impugnare per cassazione il

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univocamente sussunta nell’area della fattispecie criminosa del peculato, come del resto

provvedimento del g.u.p., censurandone l’abnormità; o accedere alla decisione,
disponendo la citazione diretta a giudizio del prevenuto per il reato di cui all’art. 8 L.
85/1990 come riqualificato dal g.u.p. Il procedente p.m., invece, non tenendo in alcun
conto il provvedimento del g.u.p., ha formulato nuova richiesta di rinvio a giudizio per il
reato di peculato, accolta dal g.u.p. (magistrato diverso dal precedente) che ha emesso
il decreto dispositivo del giudizio il 21.5.2008.
Come hanno chiarito le Sezioni Unite della S.C. (Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007,
dep. 2008, Battistella, Rv. 238239), il provvedimento del g.u.p. quale atto legittimo in

poteri del giudice in ogni fase processuale quello di dare al fatto contestato una diversa
definizione giuridica. Ne consegue che la sentenza di primo grado, che non ha preso in
considerazione la descritta evenienza, ha prodotto una sentenza di condanna “viziata da
nullità in quanto emessa per un reato già implicitamente ritenuto insussistente dal
g.u.p.” [art. 314 c.p., ndr]. Su tale nullità pur eccepita con i motivi aggiunti di appello la
Corte distrettuale non si è espressa.
2.2. Violazione dell’art. 521 c.p. in relazione agli artt. 8 L. 85/1990 e 314 c.p. e
mancanza o contraddittorietà della motivazione.
Erroneamente i giudici di appello non hanno ritenuto configurabile nel contegno
dell’imputato il reato previsto dall’art. 8 L. 85/1990, perché -al contrario della
interpretazione operatane dalla Corte territoriale- tale norma punisce la condotta del
raccoglitore del gioco del lotto che effettui il versamento dei proventi riscossi
giorno di giovedì della settimana successiva all’estrazione”,

“oltre il

senza postulare una

scansione temporale della durata del ritardo, che può protrarsi “anche di diversi mesi”. I
giudici di merito hanno creduto applicabile la fattispecie del peculato, che invece
sanziona la diversa ipotesi del raccoglitore che “ometta totalmente il versamento dei
proventi”. Ciò che non si è verificato nel caso di Bongiovanni che, come riconosce la
stessa sentenza di appello, ha provveduto al “pagamento” nel dicembre del 2004.
2.3. Violazione degli artt. 43 e 314 c.p. e motivazione apparente.
I giudici di appello avrebbero comunque dovuto escludere la sussistenza in capo
al Bongiovanni dell’elemento psicologico del reato di peculato, essendo emerso nel corso
del dibattimento di primo grado che il ricorrente non gestiva direttamente la ricevitoria
(avendone affidato la conduzione al padre Antonino Bongiovanni), non era presente
nella stessa e non ha personalmente ricevuto la diffida al pagamento delle somme,
giacché i solleciti di pagamento dell’amministrazione finanziaria sono stati sì recapitati
presso la ricevitoria, ma non sono stati consegnati fisicamente all’imputato, rimasto
sostanzialmente estraneo ai fatti contestati.
2.4. Violazione dell’art. 603 c.p. e mancanza di motivazione.

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virtù dell’estensione analogica dell’art. 521 c.p.p. non è atto abnorme, rientrando nei

La Corte territoriale ha omesso di decidere o di motivare le ragioni del diniego
della parziale riapertura dell’istruttoria “per assumere quale teste” Antonino Bongiovanni
a sostegno della tesi difensiva esposta dall’imputato.
2.5. Violazione dell’art. 157 c.p.
Alla data della pronuncia della sentenza di appello il reato di cui all’art. 8 L.
85/1990, quale riqualificato dal g.u.p. a fronte della prima richiesta di rinvio a giudizio

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse di Filippo Bongiovanni deve essere rigettato per
infondatezza, per alcuni versi manifesta, dei descritti motivi di impugnazione.
1. L’ultima censura neppure può definirsi tecnicamente un motivo di ricorso,
trattandosi di una mera constatazione che trova la premessa maggiore nei precedenti
motivi di ricorso (di natura processuale o sostanziale) prefiguranti la configurabilità nella
condotta appropriativa dell’imputato del reato di cui all’art. 8 L. 85/1990 e non del
contestato reato di peculato. Nessuno dubita infatti che, qualora la condotta
dell’imputato fosse stata o sia nell’odierno giudizio giuridicamente definita ai sensi del
citato art. 8 L. 85/1990, il corrispondente termine massimo di prescrizione (sette anni e
sei mesi) dovrebbe considerarsi (non registrandosi nel corso dei due giudizi di merito
sospensioni ex lege) spirato ben prima dell’impugnata pronuncia di appello; con l’ovvia
conseguente della declaratoria di tale causa estintiva del reato.
2. La doglianza relativa all’asserita violazione dell’art. 603 c.p.p. (secondo motivo
di ricorso) per mancata assunzione (in parziale riapertura dell’istruttoria) della
testimonianza del padre dell’imputato, Antonino Bongiovanni, che sarebbe stato, al di là
della formale intestazione della ricevitoria al figlio attuale imputato, l’effettivo gestore
dell’esercizio di raccolta delle giocate del lotto è indeducibile e palesemente infondata.
La Corte peloritana ha rimarcato, con motivazione puntuale e corretta,
l’inconducenza decisoria dell’eventuale testimonianza del padre dell’imputato, siccome
certamente non idonea a scriminare la penale responsabilità di Filippo Bongiovanni, che
-a tacer d’altro- avrebbe scientemente violato il “contratto” di concessione stipulato con
l’Amministrazione dei Monopoli, cedendo arbitrariamente o comunque consentendo la
conduzione della ricevitoria da parte di una terza persona estranea al vincolo di
concessione dell’esercizio del gioco del lotto, cioè del relativo servizio pubblico “riservato
allo Stato” (come statuisce l’art. 1 della L. 2.8.1982 n. 528, recante l’ordinamento del
gioco del lotto). In patente elusione, quindi, del carattere fiduciario tipico del rapporto
concessorio intercorrente tra una pubblica amministrazione e il privato concessionario.

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del p.m., era già estinto per sopravvenuta prescrizione.

Con la coerente inferenza, per tanto, che ineccepibile deve valutarsi l’argomentazione
della sentenza di appello, secondo cui giammai il ricorrente potrebbe andare esente da
penale responsabilità per l’accertata appropriazione delle somme delle giocate raccolte
dalla “sua” ricevitoria per il solo fatto di “essersi colpevolmente posto nella condizione di
affidare ad altri illegalmente la gestione della ricevitoria, dovendo in questo caso
rispondere degli abusi da costoro commessi ex art. 40 cpv. c.p.”.

Di qui la palese

inutilità dell’invocato esame del terzo supposto concessionario di fatto, che al più
avrebbe potuto originare un suo concorso nel reato proprio del Bongiovanni, lasciando

3. Il primo motivo di ricorso sull’asserito giudicato endoprocessuale che si
sarebbe formato ex art. 649 c.p.p. sul reato di peculato (“insussistente”) in luogo di
quello di cui all’art. 8 L. 85/1990, per effetto della iniziale riqualificazione del fatto
appropriativo formulata dal g.u.p. con restituzione degli atti al p.m., non ha pregio.
3.1. Giova innanzitutto precisare che la mancata risposta della Corte di Appello
alla omologa censura sollevata nel giudizio di secondo grado appare giustificata dal fatto
che la stessa è stata formulata con un motivo aggiunto di appello, che -come è facile
evincere dalla lettura dell’atto di appello genetico- non mostra nessuna inerenza ai capi
e punti della decisione di primo grado investiti dall’appello principale del Bongiovanni. In
totale assenza, quindi, della indispensabile connessione funzionale o logica, che -solane legittima l’apprezzamento, tra tale motivo “nuovo” o aggiunto e i motivi originari
dell’appello. Motivi, questi, riferiti unicamente alla pretesa assenza dell’elemento
soggettivo del contestato reato di peculato (imputato non edotto dal padre, cui ha
affidato la gestione della ricevitoria, dell’emerso

“ammanco”)

e alla insufficienza

dell’attività istruttoria dibattimentale per la mancata audizione (id est ammissione della
prova) del

“testimone”

Antonino Bongiovanni. Nessuna eccezione di carattere

processuale è stata mai prospettata con l’atto di appello originario (cfr., ex plurimis, da
ultimo: Sez. 6, n. 45075 del 02/10/2014, Sabbatini, Rv. 260666; Sez. 6, n. 6075 del
13/01/2015, Comitini, Rv. 262343).
3.2. In secondo luogo, ad ogni buon conto, la censura muove da una incongrua
lettura della decisione delle Sezioni Unite menzionata nel ricorso a supposto sostegno
della legittimità della prima decisione del g.u.p. del Tribunale di Patti in punto di diversa
e meno grave qualificazione del fatto reato contestato al Bongiovanni (Sez. U, n.
5307/2008, Battistella, cit.). Decisione volta a definire la nozione del provvedimento
giudiziario abnorme, ma non pertinente alla specifica situazione processuale regolata
dall’art. 33 sexies c.p.p., eccepita con il ricorso e riproduttiva della doglianza espressa
con un motivo nuovo di appello non scrutinabile dal giudice di secondo grado.

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immutata la responsabilità di quest’ultimo.

In linea di principio va chiarito che, pur ben potendo il g.u.p. attribuire al fatto
contestato una diversa definizione giuridica (in estensiva applicazione della regola
generale dettata dall’artt. 521 c.p.p.) ovvero precisare, modificare o correggere gli
eventuali errori dell’imputazione nel rispetto dei percorsi procedurali indicati dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 384 del 2006, si profilerebbe come illegittimo, prima
ancora o piuttosto che abnorme, il provvedimento del g.u.p. che pervenga ai predetti
esiti valutativi al di fuori degli schemi decisori rappresentati dalla emissione del decreto
dispositivo del giudizio (ex art. 429 c.p.p.) ovvero della sentenza di non luogo a

provvedimento del g.u.p. del Tribunale di Patti)- con la irrituale restituzione degli atti al
pubblico ministero ai sensi dell’art. 33

sexies c.p.p. Tale disposizione afferisce

pacificamente (ex multis Sez. 5, n. 15051 del 22/02/2012, De Cicco, Rv. 252475) al
solo fatto reato così come contestato dal p.m., non potendo il g.u.p. nelle eventuali
ipotesi di citazione diretta a giudizio modificare i “termini fattuali dell’imputazione” (ex
plurimis: Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162; Sez. 6, n. 29855 del
30/05/2012, Rv. 253177; Sez. 1, n. 10666 del 27/01/2015, Comparone, Rv. 262694).
3.3. Ne discende, allora, che a fronte della persistente richiesta di rinvio a
giudizio del p.m. per il reato di peculato, il difensore avrebbe in tesi potuto unicamente
eccepire, durante la successiva nuova udienza preliminare (definita con il decreto di cui
all’art. 429 c.p.p.) e prima della sua conclusione ovvero subito dopo il compimento delle
formalità di apertura del dibattimento di primo grado (art. 491 c.p.p.), l’inosservanza
delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del giudice di primo grado,
secondo quanto previsto dall’art. 33 quinquies c.p.p. Ferma rimanendo l’inefficacia
preclusiva del precedente provvedimento del g.u.p. “riqualificante” l’imputazione ex art.
314 c.p.p., emerge ex actis che l’imputato né nell’udienza preliminare, né all’inizio del
giudizio di primo grado ha sollevato eccezioni di sorta. Di tal che nessuna violazione di
legge (e tanto meno degli artt. 521 e 649 c.p.p.) sarebbe stato possibile dedurre, anche
in nome del principio utile per inutile non vitiatur sotteso al disposto dell’art. 33 octies co. 1 e 2- c.p.p., con l’atto di appello avverso la sentenza di primo grado, né può essere
dedotta nell’odierno giudizio di legittimità (v. Sez. 6, n. 2416 del 08/10/2009, dep.
2010, Briatico, Rv. 245805).
4. L’assunto difensivo, oggetto del secondo motivo di ricorso, della definibilità
della condotta appropriativa del Bongiovanni ai sensi, non del contestato art. 314 c.p.,
ma della più mite fattispecie prevista dall’art. 8, comma 1, L. 19.4.1990 n. 85 (reato
proprio che altro non integra se non una forma lieve, se così può dirsi, di peculato del
“raccoglitore del gioco del lotto”) non ha fondamento.

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procedere ex art. 425 c.p.p. E non certo -come è accaduto nel caso in esame (primo

4.1. La vicenda processuale rimessa al giudizio di questa Corte regolatrice
impone di ribadire (Sez. 6, n. 30541 del 17/05/2007, Lombardo, Rv. 237185) che il
titolare di una ricevitoria in regime contrattuale di concessione pubblica
(Amministrazione dei Monopoli), investito dell’attività di raccolta delle giocate del lotto,
è senz’altro qualificabile come persona incaricata di un pubblico servizio per gli effetti di
cui all’art. 358 c.p. (se non un pubblico ufficiale, ove voglia valorizzarsene la congiunta
indiretta posizione di agente contabile ai sensi dell’art. 178 R.D. 23.5.1924 n. 827),
poiché svolge un servizio, quello del gioco del lotto, di natura pubblica in quanto per

delle giocate, rilascio delle relative ricevute, pagamento delle vincite entro prefissati
limiti di valore), da norme primarie di valenza pubblica (L. 2.8.1982 n. 528, L.
19.4.1990 n. 85 e loro successive modificazioni). Ond’è che il raccoglitore-ricevitore
delle giocate del lotto risponde del delitto, avente natura istantanea, di peculato quando
si appropri le somme riscosse dai giocatori, omettendone il versamento erariale nel
termine individuato dalla legge nel giovedì successivo all’estrazione del lotto cui
pertengono le giocate o nel diverso termine stabilito dal contratto di concessione. Il
denaro che costui incassa dai giocatori (scommettitori) è pubblico, perché entra
immediatamente (ipso facto nel momento stesso in cui sono ricevute le giocate) nella
appartenenza dell’amministrazione pubblica, a nulla rilevando che il ricevitore abbia
facoltà (come da concessione) di disporre di parte del denaro riscosso per le percentuali
di aggio a suo favore e per il pagamento immediato di talune vincite. Sicché il ricevitore
non è un semplice debitore di quantità dell’erario, ma entra in possesso del denaro
incassato per conto dell’amministrazione finanziaria, verso cui ha obbligo di rendiconto.
4.2. Come correttamente ha già osservato l’impugnata sentenza di appello, il 1°
comma dell’art. 8 L. 85/1990 sanziona il “mero ritardo nel versamento” dei proventi
effettuato entro il giovedì della settimana successiva all’estrazione del lotto cui i
proventi si riferiscono, così come il 2° comma della stessa norma prevede, solo in simili
casi, una sorta di ravvedimento operoso (“Non è punibile il raccoglitore del gioco del
lotto che abbia omesso di versare i proventi estrazionali della raccolta in misura non
superiore alla metà della somma dovuta entro il termine di cui al comma 1, quando
compia il versamento integrativo entro sette giorni dal ricevimento di apposito avviso
dell’ufficio competente”). Diversamente da quanto si ipotizza nel ricorso l’art. 8, comma
1, L. 85/90 non facoltizza affatto il ricevitore a versare le somme riscosse in un
qualunque momento, anche notevolmente distante, posteriore al giovedì della settimana
successiva all’estrazione. La disposizione va, in vero, coordinata con la ‘complessiva
disciplina dell’attività monitoria dell’amministrazione pubblica (Monopoli di Stato), cui
non siano stati tempestivamente corrisposti i proventi delle giocate entro la settimana
contabile di riferimento delle stesse. Disciplina specificamente recepita nel contratto di

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legge riservato (come detto) allo Stato e disciplinato, nei suoi aspetti esecutivi (raccolta

concessione stipulato dal Bongiovanni e diffusamente esaminata dalla sentenza di primo
grado, cui sul punto ha fatto rinvio l’attuale sentenza di appello.
4.3. Il contratto di concessione sottoscritto dall’imputato prevedeva che il
versamento dei proventi delle giocate oltre il giovedì della settimana contabile
comportasse l’applicazione della sanzione amministrativa stabilita per legge (con relativi
interessi legali) e che “il mancato versamento” nei cinque giorni dal ricevimento (con
raccomandata) dell’intimazione di pagamento dell’amministrazione finanziaria
comportasse la revoca della concessione. Nel contesto di tali previsioni contrattuali è

emerso che il 2.4.2004 l’amministrazione ha ingiunto al Bongiovanni di versare i
“proventi estrazionali omessi”, con l’avvertimento che in mancanza si sarebbe proceduto
alla revoca della concessione. Non essendo intervenuto il pagamento, il 22.4.2004
l’Ispettorato dei M.S. ha sospeso in via cautelativa la concessione e il successivo
1.6.2004 ha instaurato il procedimento di revoca, conclusosi il 21.7.2004 con la revoca
della concessione al Bongiovanni. Questi, soltanto dopo aver ricevuto una ulteriore
ingiunzione di pagamento il 5.11.2004, ha provveduto a versare nel dicembre 2004 la
somma (euro 2.824,64) relativa agli incassi dell’ultima settimana contabile del marzo
2004. Evenienza che permette di rimarcare la giustezza della notazione della sentenza
di appello sulla irrilevanza di tale postumo pagamento, eseguito quando è ormai da
tempo venuto meno ogni rapporto di concessione tra l’ente pubblico e l’imputato e
quando, dopo mesi dalla riscossione delle giocate, il reato di peculato è già stato
consumato in ragione del ruolo già ricoperto dall’imputato quale preposto a una
ricevitoria del lotto e, dunque, quale concessionario dello Stato per la riscossione di
entrate erariali (ex artt. 24 d.P.R. 7.8.1990 n. 303, 34 e 38 d.P.R. 16.9.1996 n. 560:
regolamenti di applicazione ed esecuzione dl gioco del lotto).
Reato che, alla luce della disciplina della concessione della ricevitoria appena
illustrata (e le cui sequenze non sono contestate dalla difesa dell’imputato, come
sottolineano i giudici di appello), deve considerarsi consumato fin dal momento in cui, in
pendenza del rapporto contrattuale di concessione, il Bongiovanni si è illegittimamente
appropriato le somme di pertinenza erariale venute in suo possesso grazie alla funzione
esattoriale vicaria svolta. Più esattamente, per la precisione ricostruttiva degli eventi, il
reato istantaneo di peculato è stato consumato, divenendo conclamata e non reversibile
(anche con decorso, in ipotesi, dei termini “brevi” previsti dalla fattispecie di cui all’art.
8 L. 85/1990) la condotta di appropriazione del Bongiovanni, nel momento della prima
intimazione di pagamento dei proventi estrazionali dallo stesso ritualmente ricevuta il
2.4.2004. Tale intimazione inottemperata, infatti, segna l’interversio possessionis che
modifica, rendendolo illecito ex art. 314 c.p., il titolo del possesso delle somme della
pubblica amministrazione in disponibilità del Bongiovanni, che ne ha arbitrariamente
usato utí dominus.

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1/

5. Palesemente generici e comunque infondati debbono valutarsi, infine, i rilievi
(terzo motivo di ricorso) riguardanti l’addotta assenza dell’elemento soggettivo del
delitto di peculato. Rilievi basati, in ultima analisi, sulla inconferente ignoranza da parte
dell’imputato (a suo dire disinteressatosi della ricevitoria per averla affidata alle cure del
padre) delle sollecitazioni e intimazioni di pagamento dell’amministrazione dei
Monopoli, pur regolarmente pervenute presso la ricevitoria concessa in gestione al
Bongiovanni.
In proposito è sufficiente osservare che l’indicato illegittimo e consapevole

riscosse dall’imputato, anche se realizzato (o fatto realizzare) dall’agente per presunta
ignoranza sui limiti dei propri poteri dispositivi, costituisce errore o ignoranza sulla legge
penale, che come tale non vale ad escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato
(cfr.: Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190; Sez. 6, n. 12141 del
19/12/2008, dep. 2009, Lombardino, Rv. 243054; Sez. 6, n. 53125 del 25/11/2014,
Renni, Rv. 261680).
Al rigetto dell’impugnazione segue per legge la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali del grado.
P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 21 maggio 2015
Il consigliere esteniore
Giacomo aoloni

Il Presidente
An

mutamento della destinazione del denaro pubblico formato dalle giocate del lotto

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