Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4694 del 20/11/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 4694 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: CASSANO MARGHERITA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FILIPPONE VINCENZO N. IL 16/08/1967
avverso la sentenza n. 2772/2012 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 11/10/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARGHERITA CASSANO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. i > _
che ha concluso per ‘
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Udito, per la parte civile, l ‘Avv
Udit4difensor Avv.

c.eiz

Data Udienza: 20/11/2013

Ritenuto in fatto.

1.L’ 1 1 ottobre 2012 la Corte d’appello di Palermo confermava, salvo che
relativamente alla pena – ridotta a cinque anni, sei mesi, venti giorni di reclusione,
euro duemila di multa – la sentenza del locale Tribunale che, 1’11 ottobre 2012,
aveva dichiarato Vincenzo Filippone colpevole dei delitti di detenzione di arma
comune da sparo (esclusa l’aggravante del nesso teleologico), ricettazione,
resistenza a pubblico ufficiale e, ritenuta la contestata recidiva reiterata specifica

condannato alla pena di sette anni, dieci mesi di reclusone ed euro
duemilasettecento di multa.
2.Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione
personalmente Filippone, il quale formula le seguenti censure.
Lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con
riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi dei delitti di cui agli
artt. 2 e 7 1. n. 895 del 1967 e 648 c.p., mancando la prova della responsabilità
dell’imputato in ordine all’acquisto o alla ricezione dell’arma e della
consapevolezza circa la provenienza delittuosa della stessa.
Denuncia erronea applicazione della legge penale in relazione all’omesso
assorbimento della condotta di ricettazione in quella di detenzione illegale di arma.
Deduce, inoltre, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione con riguardo al reato di resistenza a pubblico ufficiale, essendosi
l’imputato limitato a “brandire” l’arma all’indirizzo del sovraintendente Savarino.
Eccepisce mancanza della motivazione circa il diniego delle circostanze
attenuanti generiche e il complessivo trattamento sanzionatorio.
Lamenta, infine, mancanza della motivazione in merito agli aumenti di pena per
la continuazione; in subordine deduce l’erroneità del calcolo materiale dell’aumento
per la continuazione pari ad un anno, quattro mesi e venti giorni di reclusione,
indicato come “corrispondente ad un terzo della pena per il reato base previsto
dall’art. 648 c.p.”
Considerato in diritto.

Il ricorso è manifestamente infondato.
1.In merito alla prima doglianza il Collegio osserva quanto segue.
Il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza
di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione,
1

infraquinquennale, riuniti i reati sotto il vincolo della continuazione, lo aveva

dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa
risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al
punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere
comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito ovvero quando le linee
argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari
passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione
(Sez. Un. 28 maggio 2003, ric. Pellegrino, rv. 224611; Sez. I, 9 novembre 2004, tic.

In realtà, il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in
riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all’art. 192.2 c.p.p., non
critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla
formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso
travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il
sostanziale riesame nel merito, inammissibile invece in sede d’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura
razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e
puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole
della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della
coscienza e volontà del ricorrente di detenere un’arma comune da sparo, provento
di furto.
2.Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di
specialità (art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione
prevalente, il presupposto della convergenza di norme possa ritenersi integrato solo
in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve
procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e
la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (Sez. U., n
1235 del 28 ottobre 2010).
Il raffronto strutturale tra il delitto di ricettazione e quello di illecita detenzione
di armi e l’analisi degli elementi costitutivi propri delle due fattispecie
incriminatrici evidenzia l’assenza di qualsiasi rapporto di continenza, sicché
quando essi siano integrati da un unico comportamento, si versa in un’ipotesi di
concorso formale, poiché nessuna delle due ipotesi resta assorbita dall’altra.
3.Anche il terzo motivo di ricorso non è fondato
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Santapaola, rv. 230203).

Entrambe le sentenze di merito hanno evidenziato, con puntuale riferimento agli
elementi di fatto acquisiti – in quanto tali insindacabili in sede di legittimità, ove
sorretti, come nel caso in esame da idonea motivazione – che l’imputato, rifugiatosi
sul tetto dell’abitazione della sorella, ebbe a puntare l’arma, alzando il braccio ad
altezza d’uomo, per opporsi agli ufficiali di polizia giudiziaria che stavano
eseguendo un provvedimento di fermo adottato dal Pubblico ministero e per
impedire, così, loro di avvicinarsi e di compiere un atto del loro ufficio. La sentenza

ritenuto che tale condotta integrasse gli elementi costitutivi del delitto previsto
dall’art. 337 c.p.
4.Manifestamente infondato è anche la censura concernete il diniego delle
circostanze attenuanti generiche, correttamente motivato sulla base della gravità del
fatto e sulla negativa personalità dell’imputato, gravato da numerosi e specifici
precedenti penali, nonché sulla condotta serbata successivamente alla commissione
degli illeciti.
5.Manifestamente priva di pregio è anche l’ultima censura.
I giudici d’appello hanno correttamente individuato la pena base per il più grave
delitto di ricettazione in quella di due anni, sei mesi di reclusione ed euro novecento
di multa (in primo grado la pena base era stata fissata in tre anni, sei mesi di
reclusione e 1200 euro di multa). Su tale pena hanno applicato l’ aumento di due
terzi per la contestata recidiva, così pervenendo alla pena di quattro anni, due mesi
di reclusione, millecinquecento euro di multa. Sulla sanzione così determinata
hanno applicato l’aumento della pena per la continuazione pari a complessivi un
anno, quattro mesi, venti giorni di reclusione, corrispondente ad un terzo della pena
base previsto dall’art. 648 c.p., comprensivo, nella misura di un anno e tre mesi di
reclusione, della pena irrogata per il delitto di detenzione illegale di arma e, nella
misura di un mese e venti giorni di reclusione della sanzione inflitta per il reato di
resistenza a pubblico ufficiale. In tal modo sono pervenuti alla determinazione della
pena complessiva di cinque anni, sei mesi e venti giorni di reclusione ed euro
duemila di multa.
Il computo della pena in precedenza illustrato è pienamente rispondente alle
previsione di legge, atteso che, in presenza di reati avvinti dalla continuazione, in
relazione ai quali sia stata riconosciuta sussistente ed effettivamente applicata la
recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p. (Sez. U., n 20798 del 24 febbraio 2011), la
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impugnata è, pertanto, esente all’evidenza dai vizi denunciati nella parte in cui ha

pena base per il reato più grave su cui devono essere computati gli ulteriori aumenti
è quella comprensiva dell’aumento di pena per la recidiva stessa, fermo restando
che il limite minimo stabilito dall’art. 81, ultimo comma, c.p. deve intendersi
riferito all’aumento complessivo per la continuazione e non a quello applicato per
ciascuno dei reati satellite (Sez. 2, n. 44366 del 26 novembre 2010).
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa

del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle
ammende.
Così deciso, in Roma, il 20 novembre 2013.

l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186

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