Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4691 del 22/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 4691 Anno 2014
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da Marrelli Marcello, Suriano Francesco, Di Puppo Michele,
Zingone Raffaele e Germano Francesco, nonché sul ricorso proposto dal PG
presso la Corte d’appello di Catanzaro nei confronti di Zambon Jolanda,
avverso la sentenza 28.9.12 della Corte d’Appello di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Antonio Manna;
udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. Gianluigi Pratola, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso del PG presso la Corte d’appello di
Catanzaro con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata in
relazione alla posizione della Zambon e per il rigetto degli altri ricorsi;
uditi i difensori presenti – Avv. Vincenzo Nino D’Ascola per il Marrelli, Avv.
Antonio Quintieri per lo Zingone, Avv. Francesco Alessandro Caruso per il
Germano, Avv. Marcello Manna per il Di Puppo, Avv. Sergio Rotundo per il
Suriano, Avv. Giuseppe Bruno per il Marrelli e il Suriano e Avv. Giovanni
Frullano per la Zambon -, che hanno concluso per l’annullamento dell’impugnata
sentenza in virtù dei motivi di cui ai rispettivi ricorsi.

Data Udienza: 22/11/2013

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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza 28.9.12 la Corte d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma di
quella emessa il 15.6.11 all’esito di rito abbreviato dal GUP del Tribunale della
stessa sede nei confronti di Marcello Marrelli, Francesco Suriano, Michele Di
Puppo, Raffaele Zingone, Francesco Germano e Jolanda Zambon (tutti imputati di

assolveva la Zambon dai reati a lei ascritti per non aver commesso il fatto,
revocava le statuizioni civili adottate in prime cure in favore del De Seta riguardo
alla posizione degli altri imputati (e ciò per rinuncia manifestata dalla stessa parte
civile nei confronti di costoro) e confermava nel resto la pronuncia di primo
grado.
Questi, in sintesi, i fatti così come ricostruiti dai giudici d’appello: Jolanda
Zambon, imprenditrice della provincia di Lucca, aveva intrattenuto una relazione
sentimentale con Salvatore De Seta, che nel contempo, accreditandosi come
esperto di sicurezza aziendale e vantando esperienze professionali di altissimo
profilo, aveva da lei ricevuto l’incarico di responsabile della sicurezza d’una
società facente capo alla stessa Zambon. I rapporti fra i due, deterioratisi, erano
stati poi definiti con una transazione del 24.1.10 all’esito della quale la Zambon
aveva versato al De Seta tre assegni per complessivi euro 22.750,00. Ritenendo di
essere stata vittima, in occasione di tale transazione, di una condotta estorsiva e
truffaldina e, quindi, di non dovere alcunché al De Seta, l’imprenditrice — giunta
in Calabria, nella zona di Isola Capo Rizzuto per discutere di affari — tramite lo
Zingone si era rivolta al Marrelli (titolare della Marrelli SM Security) per
risolvere la questione insorta con il De Seta. A sua volta il Marrelli, con l’ausilio
dello Zingone medesimo, del Germano, del Suriano e del Di Puppo, aveva
ottenuto, mediante minacce e violenza, che il De Seta emettesse a favore della
Zambon tre cambiali per complessivi € 13.000,00 (cambiali materialmente
consegnate a Salvatore Esposito, dipendente del Marrelli, e poi consegnate alla
Zambon), mentre la pretesa restituzione degli assegni aveva sortito esito solo
parzialmente positivo.
Ricorrevano contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento, il
Marrelli, il Suriano, il Di Puppo, lo Zingone e il Germano, nonché il PG presso la
Corte d’appello di Catanzaro nei confronti della sola Zambon.

estorsione continuata e tentata ai danni di Salvatore De Seta, reati aggravati ex
artt. 628 co. 3 0 n. 1 c.p. e 7 d.l. n. 152/91, convertito in legge n. 203/91),

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Il Marrelli lamentava:
1) erronea qualificazione giuridica dei reati, dovendosi essi derubricare in
violazione dell’art. 393 c.p. o, al più, dell’art. 610 c.p., atteso che egli era
intervenuto al solo fine di assicurare il recupero di un credito liquido ed
esigibile vantato dalla Zambon nei confronti del De Seta (giacché costui —
come ritenuto dagli stessi giudici di merito — non aveva titolo per

aveva disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di
Lucca in merito alle condotte tenute dal De Seta nei confronti della
Zambon); nel fare ciò il Marrelli non aveva ricevuto alcun compenso né
aveva realizzato alcun ingiusto profitto ed aveva agito senza altro interesse
personale che non fosse quello — lecito — di accreditarsi agli occhi
dell’imprenditrice lucchese per poter entrare in rapporti di affari con lei;
né vi era nesso alcuno fra l’emissione delle cambiali da parte del De Seta e
il preteso ingiusto profitto, senza conseguire il quale non si ha
consumazione del delitto di cui all’art. 629 c.p.; sul versante soggettivo,
non vi era dolo da parte del Marrelli, considerato che egli aveva agito nella
convinzione della legittimità del credito vantato dalla Zambon, quindi
senza alcuna rappresentazione dell’ingiusto profitto costituente evento del
delitto di estorsione; quanto al danno, esso non poteva ravvisarsi
nemmeno nella pretesa di 3.000,00 euro in più rispetto a quanto
originariamente dovuto dal De Seta allo Zambon, dal momento che il
Marrelli si era limitato a riferire al soggetto passivo che ciò era quel che
volevano terze persone;
2) insussistenza dell’aggravante delle più persone riunite, poiché in tutta la
vicenda non era mai emersa la simultanea presenza di due o più persone
nelle condotte estorsive oggetto di contestazione e, men che meno, del
Marrelli insieme con altri negli episodi del 3.3.10 e del 5.3.10, episodi di
cui l’impugnata sentenza aveva parlato sulla base delle non credibili e
comunque non riscontrate dichiarazioni del De Seta e delle ammissioni
dello Zingone, che in realtà si era limitato ad assistere passivamente al
colloquio con la persona offesa;
3) insussistenza dell’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/91 (che l’impugnata
sentenza aveva ravvisato nella sua accezione metodologica), non

pretendere gli assegni ricevuti dalla Zambon, tanto che lo stesso GUP

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essendovene prova né potendola desumere dalle generali presenze mafiose
nel territorio calabrese ove si era svolta la vicenda (quasi si potesse parlare
di una sorta di principio di territorialità) o dalla parcellizzazione delle
singole presunte condotte estorsive o dall’essere stati apoditticamente
ritenuti il Di Puppo e il Suriano come esponenti della criminalità
organizzata locale.

4) vizio di motivazione, travisamento delle prove e/o mancata loro
valutazione, atteso che la Corte territoriale si era limitata ad aderire
apoditticamente alla motivazione del primo giudice, sostanzialmente
eludendo l’obbligo di motivare, in particolare riguardo agli elementi
costitutivi del delitto di cui all’art. 629 c.p. e all’insussistenza dell’ingiusto
profitto e del danno per il De Seta, dal momento che la Zambon voleva
soltanto, legittimamente, che le fossero restituiti gli assegni che il De Seta
medesimo le aveva estorto o che le fosse resa una somma corrispondente;
la pronuncia era, poi, contraddittoria per aver assolto la Zambon
nonostante che nel capo di accusa ella figurasse come mandante
dell’estorsione e persona interessata all’ingiusto profitto; quanto agli
ulteriori 3.000,00 euro che sarebbero stati pretesi in più rispetto al credito
vantato dalla Zambon nei confronti del De Seta, si trattava di fatto non
contestato nell’editto accusatorio né provato e, comunque, non ascrivibile
al Suriano; né la gravata pronuncia aveva motivato in ordine all’elemento
soggettivo del reato di estorsione, pur essendo chiaro che il Suriano aveva
agito al solo fine di esercitare il diritto nell’interesse della Zambon;
5) errata qualificazione giuridica del delitto di estorsione anziché di
violazione dell’art. 393 c.p.: il mero impiego di violenza fisica (limitato ad
un solo episodio), la reiterazione delle richieste di pagamento e
l’evocazione di personaggi appartenenti alla criminalità organizzata non
bastavano a far ravvisare il delitto p. e p. ex art. 629 c.p.; a sua volta
l’elemento distintivo del delitto di estorsione da quello di esercizio
arbitrario delle proprie ragioni risiedeva solo nell’elemento psicologico e
non nella maggiore o minore gravità delle minacce o delle violenze
(diversamente, si sarebbe leso il principio di stretta legalità); nel caso di
specie non solo le condotte, per quanto insistenti, non erano state

Il Suriano denunciava:

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sproporzionate rispetto al credito vantato dalla Zambon, ma il Suriano
aveva incontrato il De Seta in una sola occasione; quanto all’ingiusto
profitto, esso non poteva ravvisarsi né nella pretesa di ulteriori euro
3.000,00 (per le ragioni innanzi dette) né nei proficui rapporti d’affari che
si sarebbero potuti instaurare con l’imprenditrice lucchese in caso di esito
positivo del recupero del suo credito;

affermato dalla sentenza impugnata — non poteva ravvisarsi nella lesione
dell’autonomia decisionale del soggetto passivo: al più, trattandosi di
nocumento privo di rilevanza economica, si sarebbe potuto configurare
solo il delitto di violenza privata;
7) insussistenza dell’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/91, non essendovene
prova né bastando a tal fine il contesto territoriale ove si era svolta la
vicenda, non essendo stata in concreto evocata alcuna forza intimidatrice
di tipo mafioso né risultando altrimenti che taluno degli imputati
partecipasse ad associazioni mafiose.
Il Di Puppo prospettava (nei due ricorsi a firma dei difensori, avv.ti Manna e
Pugliese):
8) mancato esame dei motivi d’appello aggiunti (erroneamente ritenuti
tardivi, pur essendo stati depositati presso il Tribunale di Cosenza il
27.4.12 e, quindi, nei termini di cui all’art. 585 c.p.p.) con cui si era
lamentata la situazione di incompatibilità in cui versava, ex art. 34 c.p.p.,
il GUP che aveva emesso la sentenza di primo grado, per aver espletato le
funzioni di GIP nell’ambito del proc. pen. 48/09 R.G.N.R. — cd.
operazione Terminator 4 — a carico del Di Puppo, procedimento connesso
a quello in esame ex art. 12 lett. b) e c) c.p.p.; né poteva dirsi, come aveva
fatto la Corte territoriale, che unico rimedio per far valere un’eventuale
ipotesi di incompatibilità del giudicante sarebbe stato quello della
ricusazione nei termini di cui all’art. 38 c.p.p., giacché nel caso di specie
la difesa del Di Puppo era venuta a conoscenza della descritta situazione di
incompatibilità unicamente dopo l’ordinanza di custodia cautelare nel
citato procedimento cd. Terminator 4, emessa il 29.11.11 e, quindi, dopo
la sentenza di primo grado;

6) inesistenza del danno per il De Seta, danno che — contrariamente a quanto

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9) vizio di motivazione — oltre che violazione degli artt. 191, 192 e 546 c.p.p.
— per avere la Corte territoriale formulato un complessivo giudizio di
attendibilità del nucleo essenziale del narrato del De Seta nonostante la
scarsa credibilità delle sue dichiarazioni per altri versi ravvisata dagli
stessi giudici di merito, il che andava oltre le possibilità di applicazione
del criterio della cd. credibilità frazionata; in particolare, quanto alla

presso il bar “La Pigna” di Amantea (il cui tenore risultava, per altro, da
una registrazione che il De Seta aveva consegnato alla polizia solo in
copia anziché in originale) emergeva semplicemente che il Di Puppo era
stato precedentemente informato dal Marrelli delle percosse subite dal De
Seta, ma non che vi avesse concorso; inoltre, dalle stesse dichiarazioni del
De Seta non risultava che il Di Puppo aveva posto in essere violenze o
minacce che, invece, l’impugnata sentenza aveva tratto dalla suddetta
registrazione del colloquio; ulteriore elemento di contraddittorietà della
motivazione emergeva dall’assoluzione della Zambon, che pur doveva
essere la mandante delle pretese avanzate nei confronti del De Seta;
10) mancata derubricazione del delitto di estorsione in quello di cui all’art.
393 c.p. o, al più, in quello p. e p. ex art. 610 c.p., nonostante che i
soggetti attivi avessero agito nella convinzione di realizzare la legittima
pretesa restitutoria della Zambon, senza perseguire alcun personale
interesse od arrecare danno alcuno al De Seta; quanto alla pretesa di
3.000,00 euro ulteriori rispetto al debito del De Seta verso la Zambon, si
trattava di circostanza di fatto non provata (anzi, lo stesso De Seta l’aveva
esclusa) e che comunque non era stata oggetto di contestazione nell’editto
accusatorio; la stessa pronuncia di primo grado, condivisa sul punto da
quella d’appello, aveva affermato che il De Seta non aveva alcun titolo per
trattenere gli assegni che aveva estorto alla Zambon, che — di contro —
legittimamente ne esigeva la restituzione;
11) erronea condanna per estorsione consumata anziché semplicemente
tentata, poiché l’unica condotta addebitabile al Di Puppo — consistita nel
colloquio del 13.3.10 con il De Seta ad Amantea — era stata anteriore
all’emissione delle cambiali, emissione (decisa dallo stesso De Seta per
evitare di dover restituire l’assegno ancora in suo possesso o il denaro

posizione del Di Puppo, dalla conversazione da lui avuta con il De Seta

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corrispondente) di per sé insufficiente ad integrare l’ingiusto profitto
necessario ai fini della consumazione del delitto p. e p. ex art. 629 c.p.
perché inidonea a soddisfare l’interesse della Zambon o degli altri
imputati, anche perché il De Seta non aveva alcuna intenzione di onorare
dette cambiali;
12) insussistenza dell’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/91, considerato che il

bis c.p. e che non aveva mai speso il nome di soggetti appartenenti a
cosche mafiose; semmai, era stato lo stesso De Seta a fare il nome, a
sproposito, di esponenti della criminalità organizzata vantando conoscenze
pericolose per intimidire i propri interlocutori, in particolare nell’incontro
avuto il 4.3.10 con il Marrelli;
13) omessa motivazione dell’entità del trattamento sanzionatorio e della
ritenuta aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/91, nonché erroneo diniego
delle attenuanti generiche sol per l’asserita “biografia penale” del Di
Puppo, con omessa valutazione degli altri elementi di cui all’art. 133 c.p.
Lo Zingone deduceva:
14) insussistenza del delitto di estorsione per assenza dell’ingiusto profitto con
altrui danno (visto che si trattava soltanto di far restituire alla Zambon
quanto lo stesso De Seta le aveva in precedenza estorto) e per mancanza
d’un suo concorso nel reato ascrittogli, essendosi egli limitato a mettere in
contatto dapprima la Zambon con il Marrelli e, poi, questi con il De Seta,
senza neppure immaginare i futuri drammatici sviluppi della vicenda;
15) mancanza di prova dell’asserito concorso dello Zingone, che sarebbe stato
limitato ad un solo incontro, avvenuto il 5.3.10 con il De Seta e da questi
registrato: contrariamente a quanto affermato dall’impugnata sentenza, in
realtà non risultava in atti che il De Seta avesse attribuito allo Zingone la
voce del proprio interlocutore in quella occasione, in cui — per altro — era
presente anche Raffaele Speranza (altro coimputato, poi assolto), che
aveva lo stesso nome di battesimo del ricorrente: e se incertezza vi era
circa l’attribuzione della voce allo Zingone, contestarla in prime cure non
era onere del ricorrente (contrariamente a quanto asserito dalla Corte
territoriale);

Di Puppo non aveva mai riportato condanne per il delitto di cui all’art. 416

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16) inesistenza dell’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/91, anche perché — ad
ogni modo — ex art. 59 c.p. tale aggravante oggettiva non poteva essere
posta a carico del concorrente che, senza colpa, avesse ignorato l’uso di
metodi mafiosi da parte dei correi, come nel caso dello Zingone; costui,
inoltre, non era nemmeno ricollegabile al soggetto — il Di Puppo – che la
gravata pronuncia aveva indicato come prossimo ad ambienti mafiosi;

dell’art. 393 c.p., non essendo sufficiente — per ravvisare un’estorsione l’apodittica affermazione secondo la quale le minacce e le violenze
esercitate sarebbero state tanto gravi da risultare sproporzionate rispetto al
fine perseguito.
Il Germano denunciava:
18) inesistenza del delitto p. e p. ex art. 629 c.p. per mancanza di ingiusto
profitto, tale non essendo il recupero del credito legittimamente vantato
dalla Zambon nei confronti del De Seta per ottenere la mera restituzione
della somma di denaro che costui le aveva estorto (del che davano atto
entrambe le sentenze di merito); al più, l’ipotesi delittuosa oggetto di
contestazione si sarebbe dovuta derubricare in quella p. e p. ex art. 393
c.p., considerato che il Germano era convinto di agire a tutela delle
legittime spettanze della Zambon, come icasticamente affermato dallo
stesso ricorrente nel corso di una conversazione telefonica oggetto di
intercettazione; né poteva dirsi che il ricorrente e gli altri coimputati
(diversi dalla Zambon) avessero agito per realizzare propri interessi: tali
non erano né l’intento di ottenere dal De Seta 3.000,00 euro in più rispetto
al credito dell’imprenditrice lucchese né la prospettiva di instaurare futuri
rapporti economici con lei, ipotesi sfornite di prova e frutto di mere
congetture da parte dei giudici di merito;
19) inesistenza dell’asserita sproporzione tra il recupero del credito e le
violenze e minacce impiegate (in proposito il ricorrente argomentava le
proprie critiche alla contraria giurisprudenza di questa Suprema Corte),
posto che le minacce e le violenze gravi potevano essere soltanto quelle
commesse con uso di armi, come desumibile dall’art. 339 c.p. e dall’art.
612 cpv. c.p.; nel caso in esame la violenza fisica si era limitata, a tutto
concedere, ad una spinta e a un pugno sul volto (come descritto in

17) errata qualificazione del reato come violazione dell’art. 629 c.p. anziché

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rubrica), senza trasmodare nel pestaggio patito dal De Seta ad opera del
Germano, pestaggio di cui — in realtà – aveva parlato solo l’impugnata
sentenza;
20) mancanza di prova di tale pestaggio, atteso che lo stesso De Seta aveva
riferito soltanto d’una spinta e di un pugno ricevuto sulla mascella dal
Germano (il quale, a sua volta, aveva incontrato il De Seta in una sola

perseguito (il recupero crediti nell’interesse della Zambon) e i mezzi
adoperati e dimostrava l’estraneità del Germano alle ulteriori iniziative
poste in essere dagli altri coimputati, sicché nei suoi confronti non poteva
parlarsi di sistematica pervicacia nel reiterare la condotta criminosa;
21) errata configurazione dell’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152/91, perché il
Germano non aveva mai evocato l’intervento di personaggi legati ad
ambienti mafiosi; a tal fine non bastava neppure l’asserita sua vicinanza a
soggetti di elevata caratura criminale (come tale Cataldo Marino); inoltre,
ex art. 59 c.p. tale aggravante non poteva porsi a carico di un concorrente
che, come il Germano, aveva comunque ignorato l’uso — in ipotesi – di
metodi mafiosi da parte degli altri coimputati;
22) insussistenza del concorso del Germano nei delitti di estorsione consumata
e tentata e, in subordine, mancata riqualificazione del concorso medesimo
come anomalo ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p., non essendovi
prova alcuna che il ricorrente, resosi responsabile d’un solo segmento del
fatto, fosse consapevole della condotta degli altri coimputati e che il suo
dolo si riferisse al delitto di estorsione anziché a quello proprio del reato p.
e p. ex art. 393 c.p.;
23) erroneo diniego dell’attenuante dell’art. 62 n. 4 c.p. in base al mero rilievo
del ruolo asseritamente non marginale del Germano, considerato che
l’attenuante riguardava – invece – il danno patrimoniale di speciale tenuità.
Con unico articolato motivo di ricorso il PG presso la Corte d’appello di
Catanzaro denunciava mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione,
nonché violazione dell’art. 110 c.p., nella parte in cui l’impugnata sentenza aveva
assolto la Zambon da entrambi i reati, per non aver commesso il fatto, in base al
dubbio che ella potesse anche non sapere dei metodi illeciti usati dai coimputati
per costringere il De Seta a restituirle gli assegni o a versarle una somma

occasione, il 4.3.10): ciò escludeva l’asserita sproporzione tra il fine

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corrispondente: obiettava invece il PG territoriale che la Zambon non aveva
affatto avuto una conoscenza meramente postuma delle minacce e delle violenze
realizzate ai danni del De Seta, ma sin dall’inizio ne era stata puntualmente tenuta
al corrente, come emergeva da conversazioni telefoniche intercettate, da quanto
riferito dallo stesso Zingone al De Seta e da una telefonata che quest’ultimo aveva
dovuto fare alla Zambon perché costrettovi dal Marrelli; d’altronde, la stessa

– aveva suggerito al Germano di non parlarne al telefono e aveva manifestato tutta
la propria ira, parlando al telefono con il Marrelli, per l’avvenuta negoziazione da
parte del De Seta dell’ultimo assegno; a ciò il Marrelli aveva risposto con il
riferirle che il pomeriggio prima si era recato a casa del De Seta per prenderlo a
schiaffi, pur non riuscendo a rintracciarlo. In conclusione, la Zambon era stata la
mandante di tutta l’operazione e aveva fornito continui e decisivi impulsi alla
condotta estorsiva posta in essere dai correi, nella consapevolezza dei mezzi e dei
metodi mafiosi adoperati.
La difesa della Zambon ha depositato memoria con cui ha chiesto la
dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso del PG.
La difesa del Suriano e del Marrelli ha depositato motivi aggiunti con cui ha
denunciato violazione dell’art. 63 co. 4 0 c.p. nel calcolo della pena.
La difesa del Di Puppo ha depositato motivi aggiunti con cui ha insistito nella
dedotta violazione degli artt. 34 e 37 c.p.p. e, in subordine, ha chiesto sollevarsi
incidente di costituzionalità di tali disposizioni per violazione degli artt. 3, 24 e
111 Cost. nella parte in cui non consentono di ricusare il giudice in situazione di
incompatibilità determinatasi nell’ambito di procedimenti penali connessi.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Si premetta che, essendosi in presenza di una doppia pronuncia conforme
(quanto alla penale responsabilità del Marrelli, del Suriano, del Di Puppo, dello
Zingone e del Germano), le motivazioni delle due sentenze di merito si integrano
reciprocamente, saldandosi in un unico complesso argomentativo (cfr. Cass. Sez.
H n. 5606 del 10.1.2007, dep. 8.2.2007; Cass. Sez. I n. 8868 del 26.6.2000, dep.
8.8.2000; v. altresì, nello stesso senso, le sentenze n. 10163/02, rv. 221116; n.
8868/2000, rv. 216906; n. 2136/99, rv. 213766; n. 5112/94, rv. 198487; n.
4700/94, rv. 197497; n. 4562/94, rv. 197335 e numerose altre).

Zambon — consapevole dell’illiceità dei mezzi adoperati nei confronti del De Seta

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Inoltre, è la stessa Corte territoriale ad esordire nella propria motivazione — v.
pag. 19 — avvertendo che “La sentenza deve intendersi interamente richiamata, in
questa sede, relativamente a tutti gli imputati diversi da Zambon Jolanda” e,
quindi, a rinviare (v. altresì pag. 29 della sentenza d’appello), quanto alla
ricostruzione in punto di fatto e al contenuto delle intercettazioni telefoniche, alla
pronuncia di primo grado, da cui si discosta soltanto nell’apprezzare la

Zambon.
Ciò detto, il prosieguo di motivazione si svolgerà secondo un ordine logico e
mediante accorpamento, per esigenze di sintesi espositiva, di analoghe censure
mosse dai ricorrenti.

L’asserita incompatibilità del giudice di prime cure
Il motivo che precede sub 8) e quelli aggiunti depositati sempre dalla difesa del
Di Puppo sono manifestamente infondati.
Infatti, anche a voler ipoteticamente ed astrattamente supporre l’esistenza di
quel vincolo di connessione ex art. 12 lett. b) e c) c.p.p. tra il presente processo e
il proc. n. 48/09 R.G.N.R. — cd. operazione Terminator 4 — a carico del Di Puppo,
ad ogni modo non sarebbe ravvisabile la lamentata situazione di incompatibilità
ex art. 34 c.p.p. e ciò in forza dell’insuperabile rilievo che la sentenza di primo
grado è stata pronunciata dal GUP il 15.6.11, mentre l’ordine di custodia cautelare
emesso dallo stesso giudicante in funzione di GIP nel citato diverso proc. n. 48/09
R.G.N.R. è, per stessa ammissione dell’odierno ricorrente, successivo (29.11.11).
Dunque, al momento della sentenza che nel presente processo ha chiuso il primo
grado di giudizio non poteva ancora sussistere incompatibilità alcuna ex art. 34
c.p.p. (né è immaginabile un’incompatibilità retroattiva).
Né incompatibilità alcuna poteva ravvisarsi nel mero fatto che lo stesso giudice
avesse — sempre in via di mera astratta ipotesi – già prima del 15.6.11 emesso un
qualche diverso provvedimento nel corso delle indagini preliminari, vuoi perché
di ciò non vi è neppure allegazione vuoi perché l’incompatibilità del GIP ex art.
34 c.p.p. (nel testo risultante dalla sentenza additiva n. 432/95 della Corte cost.)
può scattare soltanto in presenza di una misura cautelare personale applicata dallo
stesso giudice.

significatività delle medesime risultanze probatorie concernenti la suddetta

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Le considerazioni che precedono dimostrano l’irrilevanza — ancor prima della
manifesta infondatezza — della questione di legittimità costituzionale sollecitata
nei motivi aggiunti depositati dalla difesa del Di Puppo.

L’attendibilità del narrato del De Seta in ordine all’estorsione subita
I motivi che precedono sub 9), sub 14) e sub 15) si collocano all’esterno

sollecita un nuovo apprezzamento nel merito circa l’attendibilità della persona
offesa, almeno nella parte del narrato riguardante le minacce e la violenza
denunciate.
Le differenti letture ipotizzate in tali motivi di ricorso scivolano sul piano della
rivisitazione dell’intera ricostruzione della vicenda, del contenuto del colloquio fra
il Di Puppo e il De Seta presso il bar “La Pigna” di Amantea, del ruolo avuto dal
primo nell’estorsione per cui è processo e del concorso dello Zingone.
In breve, l’esame delle suddette doglianze difensive presupporrebbe un accesso
diretto agli atti e una loro delibazione in punto di fatto incompatibili con il
giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle
massime di esperienza adottate nella valutazione delle prove o degli indizi di cui
all’art. 192 co. 2° c.p.p., nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del
ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento
indiziario come grave, preciso e concordante, senza che ciò possa tradursi in un
nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria
dei gradi precedenti (cfr., ad es., Cass. Sez. VI n. 20474 del 15.11.02, dep.
8.5.03).
A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non
può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito,
dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con
massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.
Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto
generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a
decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui
osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono
adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei

dell’area di cui all’articolo 606 co. 1° c.p.p. poiché in essi, sostanzialmente, si

13

sillogismi giudiziari di cui alle regole di valutazione della prova sancite dal co. 2°
dell’art. 192 c.p.p.
Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del
sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit,
insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti
priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. VI, n. 15897 del

Ciò detto, si noti che il motivo in esame non evidenzia l’uso di inesistenti
massime di esperienza né violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare
soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce
compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può
prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera
possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza (anche a
riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e costante: cfr., e pluribus, Cass.
Sez. In. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. I n. 1685 del 19.3.98, dep.
4.5.98; Cass. Sez. I n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. I n. 13528
dell’11.11.98, dep. 22.12.98; Cass. Sez. In. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass.
S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96;
Cass. Sez. In. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).
Quanto alla scindibilità o frazionabilità delle dichiarazioni in tema di
valutazione delle prove storiche, essa è conforme a consolidato principio
giurisprudenziale (cfr., ex aliis, Cass. Sez. II n. 10469 del 22.3.96, dep. 6.12.96,
rv. 206491), che i giudici del merito – sempre riguardo al narrato del De Seta
concernente la violenza e le minacce patite – hanno rispettato e correttamente
motivato nel caso specifico, avvalendosi anche degli univoci riscontri tratti dalle
intercettazioni telefoniche acquisite al materiale probatorio.
L’unico limite alla cd. valutazione frazionata di una prova dichiarativa è che
non vi siano interferenze fattuali e logiche fra la parte del narrato ritenuta falsa o
comunque non attendibile e le rimanenti parti ritenute invece meritevoli di
credito, interferenze che si verificano solo quando fra la prima parte e le altre
esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l’una sia imprescindibile
antecedente logico dell’altra (cfr., ad es., Cass. Sez. V n. 37327 del 15.7.08, dep.
1°.10.08, rv. 241638; Cass. Sez. IV n. 12349 del 29.1.08, dep. 20.308, rv. 239300;
Cass. Sez. IV n. 9450, del 24.1.08, dep 3.3.08, rv. 239254; Cass. Sez. III n. 40170

15 aprile 2009; Cass. Sez. VI n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).

14

del 26.9.06, dep. 6.12.06, rv. 235575; Cass. Sez. I n. 24466 del 17.3.06, dep.
14.7.06, rv. 234412; Cass. Sez. In. 468 del 18.12.2000, dep. 19.1.01, rv. 217820).
Ma non risulta che tale limite sia stato travalicato nel caso di specie, poiché la
natura dei rapporti fra la Zambon e il De Seta (quale che sia la lettura che se ne
voglia dare) e l’entità delle reciproche pretese creditorie non incide sulla storicità
delle minacce e della violenza esercitate nei confronti del secondo e sull’interesse

Quanto alla registrazione del colloquio presso il bar “La Pigna” di Amantea, si
tenga presente che, alla luce della più recente giurisprudenza — che qui si
condivide – la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o
mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è
prova documentale pienamente utilizzabile quantunque effettuata dietro
suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di
registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli
apparati investigativi e pienamente legittimata a rendere testimonianza nel
processo (cfr. Cass. Sez. VI n. 31342 del 16.3.11, dep. 5.8.11; Cass. Sez. I n.
14829 del 19.2.09, dep. 6.4.09; Cass. Sez. VI n. 16986 del 24.2.09, dep. 22.4.09,
rv. 243256, Abis; Cass. Sez. I n. 14829 del 19.2.09, dep. 6.4.09, rv. 243741,
Foglia).
Il fatto, poi, che la registrazione consegnata dal De Seta agli inquirenti sia solo
una copia – e non l’originale – è censura, ancor prima che infondata, preclusa ex
art. 606 ult. co . c.p.p. perché non fatta valere in appello.
Ancora, per quel che attiene al concorso dello Zingone, nel motivo che precede
sub 15) si contesta la sentenza là dove afferma che sarebbe stato onere
dell’imputato negare in primo grado di

lossr

aver accompagnato il Marrelli

nell’incontro del 5.3.10 con il De Seta e da questi registrato: ma tale obiezione
coglie soltanto una delle due ragioni della decisione a riguardo adottata, l’altra
essendo costituita dalle dichiarazioni accusatorie della persona offesa che
attingono anche lo Zingone e sulla cui credibilità la Corte territoriale ha
adeguatamente motivato.
Né per escludere il concorso basta l’asserito carattere passivo della presenza
dello Zingone accanto al Marrelli, noto essendo, per antico e costante
insegnamento di questa S.C., che per ravvisare un concorso nel reato può bastare
anche la mera presenza non occasionale nel medesimo contesto topico-temporale

della prima (pacifico fra le parti) a recuperare i crediti vantati.

15

durante l’esecuzione del reato, qualora essa sia servita a fornire all’autore del fatto
stimolo all’azione o maggior senso di sicurezza nella propria condotta (cfr., ad
es., Cass. 11/3/97 n. 4805, dep. 22/5/97, Perfetto; Cass. n. 1108 del 6/2/97, ud.
4/12/96, P.M. in proc. Famiano; Cass. n. 8389 del 12/9/96, ud. 29/4/96, Santi ed
altri; Cass. n. 4041/94; Cass. n. 7957 del 24/8/93, ud. 15/4/93, La Torre ed altri;
Cass. 11/12/93 n. 11344, ud. 10/5/93, Algjanati ed altri; Cass. 8/3/91 n. 3003, ud.

La qualificazione giuridica dei reati per cui è processo
I motivi che precedono sub 1), 4), 5), 6), 10), 11), 14), 17), 18), 19), 20) — da
trattarsi congiuntamente nella parte in cui investono la qualificazione giuridica dei
reati per cui è processo, i relativi elementi costitutivi e l’esistenza di un’estorsione
consumata — sono infondati.
Per costante giurisprudenza si configura il reato di estorsione di cui all’art. 629
c.p. e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni p. e p. ex art. 393 c.p.
allorché il terzo incaricato (mandatario) dell’esazione del credito – a nulla
rilevando la natura lecita di esso, su cui molto hanno insistito le difese
sottolineando che la Zambon aveva diritto a ottenere dal De Seta la restituzione
degli assegni – agisca con violenza o minaccia nei confronti del debitore non al
mero fine di coadiuvare il creditore a farsi ragione da sé, ma anche per propri
autonomi interessi illeciti, rispetto alla realizzazione dei quali lo stesso creditore
mandante si pone come concorrente morale (cfr. Cass. Sez. V n. 22003 del 7.3.13,
dep. 22.5.13, rv. 255651; Cass. Sez. II n. 12982 del 16.2.06, dep. 12.4.06, rv.
234117; Cass. Sez. V n. 29015 del 12.7.02, dep. 1°.8.02, rv. 222292; Cass. Sez. H
n. 4681 del 21.3.97, dep. 16.5.97, rv. 207595; Cass. n. 5801/95, rv. 201681; Cass.
n. 4025/94, rv. 197397; Cass. n. 1556/92, rv. 189943; Cass. n. 8836/91, rv.
188123).
Analogamente si pone come concorrente nello stesso reato chi comunque
collabori con il mandatario nella realizzazione di tale illecito interesse.
A ciò si aggiunga che ricorre il reato di estorsione (e non già quello di ragion
fattasi o quello di violenza privata) quando si costringa, mediante violenza o
minaccia, altra persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo
ingiusto, in quanto connesso ad azione intimidatoria, il profitto che ne ricavi
direttamente l’autore e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a

2/10/90, Iankson ed altro; Cass. 11/4/90 n. 5332, ud. 6/12/89, Giusti).

16

versare denaro o titoli nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio,
senza alcuna garanzia di effetto liberatorio (il mandante di tale operazione, titolare
del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale: cfr. Cass.
Sez. V n. 5193 del 27.2.98, dep. 5.5.98).
Nel caso di specie gli interessi personali e illeciti consistono negli accordi di
affari per un giro di rifiuti e riciclaggio che, secondo il Marrelli, avrebbe dovuto
coinvolgere la Zambon (secondo quel che si legge a pag. 9 – 10 della sentenza di

primo grado), nonché nella somma ulteriore di cui il Marrelli ha parlato al De
Seta (v. pag. 9 della sentenza di prime cure).
Non si trattava, dunque, di meri leciti interessi imprenditoriali.
È pur vero che a pag. 13 e a pag. 54 della sentenza del GUP si legge che la
somma in più pretesa è stata di 3.000,00 euro e non di 33.000,00 (come invece
riportato nel capo di imputazione): tuttavia il dato di fatto per cui la pretesa
estorsiva riguardava non la mera restituzione degli assegni alla Zambon, ma
qualcosa in più e di sicuramente illecito, risulta tecnicamente contestato e, con
esso, risulta contestata l’ingiustizia d’un profitto che non ha nulla a che vedere
con un supposto recupero crediti.
Né rileva che l’importo contestato fosse superiore a quello poi accertato dal
primo giudice e confermato dalla Corte territoriale: ciò non incide sulla validità
della contestazione, noto essendo che può ravvisarsi violazione del principio di
cui all’art. 521 c.p.p. solo ove il fatto storico – inteso nella sua realtà fenomenica ritenuto in sentenza si riveli completamente e radicalmente diverso, tanto da fare
riferimento ad elementi costitutivi del tutto estranei a quelli delineati nel capo
d’accusa, al punto che su di essi la difesa risulti essere stata concretamente
impedita o grandemente menomata.
Non è questo il caso di una mera diversità dell’importo preteso sine titulo
nell’ambito della vicenda estorsiva per cui è processo.
È poi irrilevante che il Marrelli o il Suriano non avessero, a loro dire, un
personale interesse agli ulteriori 3.000,00 euro pretesi nei confronti del De Seta,
posto che per la sussistenza del dolo del delitto di cui all’art. 629 c.p. è sufficiente
che l’autore agisca al fine di procurare un ingiusto profitto a sé o ad altri.
Ulteriore — e autonoma – conferma dell’impossibilità dell’invocata
derubricazione, nel caso di specie, del reato p. e p. ex art. 629 c.p. in quello di cui
all’art. 393 c.p. si ricava sotto altro profilo, cioè in forza della costante

V1,
I

17

giurisprudenza secondo cui, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni,
la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente
di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come
elemento accidentale. Pertanto, essa non può consistere in manifestazioni
sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario,
ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un

(Cass. Sez. V n. 28539 del 14.4.10, dep. 20.7.10, rv. 247882; Cass. Sez. II n.
35610 del 27.6.2007, dep. 26.9.2007, rv. 237992; conf. Cass. N. 14440/07, rv.
236457; Cass. n. 47972/2004, rv. 230709; Cass. n. 10336/04, rv. 228156; Cass. n.
29015/02, rv. 222292).
Contrariamente a quanto diffusamente sostenuto in alcuni dei ricorsi, la
giurisprudenza di questa S.C. – che ravvisa il delitto di estorsione anche quando,
pur nella realizzazione d’una legittima (o tale ritenuta) pretesa creditoria, il
soggetto attivo abbia impiegato violenze o minacce sproporzionate rispetto al fine
perseguito – non introduce un discrimine extranormativo tra le due fattispecie, ma
valorizza semplicemente il rilievo che tale sproporzione, essendo altamente
sintomatica della pretestuosità della ragione creditoria che si dichiara di voler
realizzare, è invece idonea a dimostrare che il fine della condotta è in realtà un
altro e che il diritto rivendicato non è che un mero schermo dietro il quale si
nasconde una diversa pretesa, illecita.
In altre parole, tale giurisprudenza si mantiene nel solco della pacifica e
consolidata interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale che individua il
discrimine tra le due fattispecie (estorsione e ragion fattasi mediante violenza o
minaccia alla persona) nel relativo elemento psicologico.
Nel caso in esame la sproporzione si ricava dal tenore delle reiterate minacce
evocative dell’intervento della locale criminalità organizzata e dal fatto che, se il
De Seta non avesse ceduto, il Germano lo avrebbe messo “su una sedia a rotelle”.
Altre sproporzionate minacce – addirittura di morte – sono state poste in essere
dal Marrelli nel momento in cui, rivolto al De Seta, gli ha ricordato che con soli €
0,50 (il costo di un bossolo) sarebbe stato ucciso senza alcuna remora se avesse
seguitato a resistere alla pretesa estorsiva.
Né può considerarsi grave solo la minaccia commessa con uso di armi: se è vero
che questa è sicuramente grave (cfr. Cass. Sez. V n. 5624 del 30.1.86, dep.

profitto ex se ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione

18

16.6.86), non è però vera la proposizione reciproca, atteso che la gravità può
risiedere tanto nel mezzo adoperato quanto nell’evento dannoso prospettato (la
morte o la totale inabilità fisica, nel caso di specie), a prescindere dalla
configurabilità — riguardo all’azione violenta perpetrata dal Germano — di un vero
e proprio pestaggio ai danni del De Seta, il che rende irrilevanti le censure che a
tale ultimo riguardo si leggono nei motivi che precedono sub 19) e sub 20).

di cui all’art. 629 c.p. in quello p. e p. ex art. 610 c.p. invocata nei motivi di
ricorso che precedono sub 1) e sub 10).
È noto che la differenza tra estorsione e violenza privata risiede nella necessità
che la condotta, nel primo, sia qualificata da un ingiusto profitto (che può anche
non essere di natura patrimoniale) con altrui danno, danno che invece deve
consistere, secondo costante giurisprudenza, in una deminutio patrimonii, vale a
dire in un nocumento di rilevanza economica; diversamente, se il danno non è
qualificabile in tali termini, ricorre la diversa fattispecie di cui all’art. 610 c.p.,
che tutela la libertà di autodeterminazione dell’individuo al di fuori di qualsiasi
limite o condizione che non sia legittimamente posta (cfr., fra le numerose in tal
senso, Cass. Sez. II n. 49388 del 4.12.12, dep. 20.12.12; Cass. Sez. I n. 5639 del
3.11.05, dep. 14.2.06, rv. 233837, Calabrese ed altri; Cass. Sez. I n. 9958 del
27.10.97, dep. 5.11.97, rv. 208938, Carelli ed altri; Cass. Sez. I n. 1683 del
22.4.93, dep. 8.6.93, rv. 194418).
Nella specie, la deminutio patrimonii consiste già nella mera emissione di
cambiali da parte del De Seta, con conseguente sua responsabilità patrimoniale: la
circostanza che il soggetto passivo abbia rilasciato gli effetti con la riserva
mentale di non onorarli è un mero post factum che non influisce sul già avvenuto
depauperamento patrimoniale, tale essendo anche soltanto l’assunzione d’una
obbligazione cartolare.
Ciò va affermato in base a due rilievi: in primo luogo l’obbligazione cartolare,
essendo caratterizzata da astrazione processuale e ambulatorietà nel lato attivo, ha
una propria limitata autonomia — in ragione, altresì, del differente regime di
opponibilità delle eccezioni da parte del debitore – rispetto all’obbligazione
oggetto del rapporto sottostante all’emissione; in secondo, il concetto di
patrimonio consiste nell’insieme dei diritti e degli obblighi suscettibili di

Le considerazioni che precedono escludono, altresì, la derubricazione del delitto

19

rilevanza economica e non semplicemente nel quantum di denaro o di altri beni
che siano nella materiale disponibilità d’una data persona.
Pertanto, ogni ulteriore assunzione di obbligazioni (di natura cartolare o meno)
importa una già avvenuta deminutio patrimonii, a prescindere dal fatto che esse
siano poi in qualche modo adempiute.
Ne discende il rigetto anche dei motivi di ricorso che precedono sub 6) e sub

sulla ventilata non configurabilità di un’estorsione consumata.
Ancora da disattendersi è l’obiezione — che si legge nel motivo di ricorso che
precede sub 18) — che il Germano avrebbe agito nella convinzione della
legittimità del proprio operato, che di per sé non ha alcuna idoneità scriminante, a
maggior ragione vista la già spiegata compresenza di autonomi interessi illeciti
(ulteriori rispetto a quello di recuperare il credito vantato dalla Zambon verso il
De Seta).
Infine, quanto alla contraddizione – lamentata nei motivi di ricorso che
precedono sub 4) e sub 9) – fra la condanna del Suriano e del Di Puppo e
l’assoluzione della Zambon che pur figurava nel capo d’accusa come mandante
dell’estorsione, essa inficia (nei termini appresso chiariti) la seconda e non la
prima (su ciò v. meglio infra).

Insussistenza dell’ipotesi del cd. concorso anomalo ex art. 116 c.p. da parte
del Germano
Il motivo che precede sub 22) è infondato.
Per costante insegnamento di questa S.C. (dal quale non si ravvisa motivo di
discostarsi) il concorso di persone nel reato non deve necessariamente essere
presente fin dal momento della programmazione e preparazione della condotta
vietata, poiché l’adesione del correo può intervenire in qualsiasi istante dello
svolgimento del comportamento illecito, purché la partecipazione avvenga ad
azione ancora in itinere (cfr., ad es., Cass. Sez. V n. 30412 del 30.6.11, dep.
1°.8.11; Cass. Sez. III n. 3506 del 5.3.96, dep. 6.4.96, rv. 204868; conf. Cass. rv.
177167; Cass. rv. 176634; Cass. rv. 161077; Cass. rv. 146430).
Pertanto, la condivisione anche solo di un segmento della linea unitaria della
condotta criminosa configura pienamente il concorso allorquando – consentendo il
raggiungimento dell’evento mediante una fattiva collaborazione – abbia avuto

11), incentrati, rispettivamente, sull’asserita mancanza di danno patrimoniale e

20

efficacia decisiva nella realizzazione del delitto (cfr., ad es., Cass. Sez. V n. 8984
del 18.5.2000, dep. 10.8.2000, rv. 217766).
Alla stregua di quanto accertato dai giudici di merito, è indubbio che ciò sia
avvenuto nel caso del Germano, perché egli ha realizzato una porzione consistente
e decisiva della condotta criminosa (violenza e minacce gravi) nella piena
consapevolezza degli scopi perseguiti e dell’altrui contributo (visto anche il

Zambon il 23.4.10).
Dunque, si è distanti dall’ipotesi del cd. concorso anomalo di cui all’art. 116
c.p., poiché esso presuppone che l’evento realizzatosi sia diverso e più grave di
quello voluto dal soggetto attivo, mentre nel caso in esame il Germano voleva lo
stesso evento (proprio del delitto di estorsione e non di ragion fattasi, come sopra
chiarito) avuto di mira dai correi.

L’aggravante delle più persone riunite
Il motivo che precede sub 2) è da disattendersi giacché la Corte territoriale ha
accertato, con motivazione scevra da vizi logico-giuridici, che negli episodi del
4.3.10, del 5.3.10 e del 12.3.10 erano stati sempre presenti almeno due
concorrenti (uno dei quali, nei primi due episodi, era proprio il Marrelli).
Si tratta di valutazione di mero fatto, in quanto tale riservata al giudice del
merito, che nel caso di specie l’ha correttamente effettuata in base alle
dichiarazioni del De Seta riscontrate (pur non essendo ciò indispensabile, non
essendo applicabili alle dichiarazioni della persona offesa i commi 3° e 4° dell’art.
192 c.p.p.) dalle ammissioni dello stesso Zingone.
A tale riguardo le contrarie considerazioni del ricorrente mirano soltanto a
promuovere una rilettura in punto di fatto delle risultanze processuali, il che non è
consentito nella presente sede.

L’aggravante di cui all’art. 7 di n. 152/91 e la sua estensione ex art. 59 c.p.
I motivi che precedono sub 3), 7), 12), 13), 16) e 21) — da esaminarsi
congiuntamente nella parte in cui investono la configurabilità dell’aggravante
dell’art. 7 d.l. n. 152/91 e la sua estensione soggettiva — sono infondati.
Ribadito che, essendovi sul punto una doppia conforme, le motivazioni adottate
in primo e secondo grado si integrano reciprocamente, deve rilevarsi che

reiterato uso del plurale, da parte sua, nella conversazione telefonica avuta con la

21

l’aggravante in discorso è stata ravvisata non già in base al mero contesto
territoriale caratterizzato da forte presenza mafiosa (‘ndrangheta), pur
indubbiamente rilevante a tali fini, bensì anche in ragione dell’esplicita e ripetuta
menzione dell’intervento, ove il De Seta non avesse ceduto, di esponenti della
locale criminalità organizzata evocati nominativamente, come nel caso di Umile
Lanzino e in quello di Cataldo Marino: quest’ultimo è stato espressamente

boss di Cirò Marina, la cosca è quella di Marincola Farao, ti ho detto tutto …”.
Ed ancora, in una delle conversazioni trascritte in sentenza il Marrelli così si
rivolge al De Seta: “Non ci scherzare, conoscono a tutti, conosciamo tutti, in tutta
la Calabria, conosciamo tutti come ti ha detto il figlioccio di Cataldo che ti ci
portiamo a schiaffi, quelli non sono delinquenti da strapazzo.”.
Risulta inoltre, sempre dalle intercettazioni telefoniche riportate in sentenza, un
insistito richiamo anche allo scopo principale della pretesa estorsiva, che non era
tanto quello di ricavare un modesto guadagno di € 3.000,00 quanto l’entrare in
rapporti di affari con la Zambon, affari illeciti nel momento in cui si parla di un
giro di rifiuti e riciclaggio (secondo quel che si legge a pag. 9 – 10 della sentenza
di primo grado).
Come ben si vede, nel caso di specie i giudici del merito hanno accertato con
motivazione immune da vizi logici o giuridici che la pretesa estorsiva ha
presentato i tipici connotati metodologici mafiosi, vale a dire la riferita
provenienza da una organizzazione criminale nota, esplicitamente evocata anche
attraverso i nominativi dei suoi più pericolosi adepti, con ripetuta affermazione
della sua pervasività, della sua pericolosità (… Quelli non scherzano …) e della
sua capacità di raggiungere la vittima dovunque e in qualunque momento
(“…conoscono a tutti, conosciamo tutti, in tutta la Calabria …”), in un contesto
territoriale caratterizzato da una notoria presenza mafiosa.
Quanto alla attribuibilità dell’aggravante in discorso, essa è stata esattamente
ravvisata riguardo al Marrelli e allo Zingone vista la presenza del secondo mentre
il primo profferiva le minacce sopra ricordate: per di più, sempre secondo quanto
accertato in sede di merito, lo Zingone non ha contestato la materialità dei fatti
ascrittigli (e quindi le modalità delle minacce), difendendosi solo con il dire di
aver agito disinteressatamente al solo scopo di aiutare una donna sola come la
Zambon.

definito dal Marrelli, rivolto al De Seta e alla presenza dello Zingone, come “il

22

Per il Suriano, il Di Puppo e il Germano l’estensione dell’aggravante di cui
all’art. 7 d.l. n. 152/91 è stata, poi, correttamente configurata dai giudici di merito
in conformità all’insegnamento di questa Corte Suprema, secondo cui ex art. 59
co. 20 c.p. essa è applicabile ai concorrenti nel delitto anche quando costoro non
ne siano consapevoli, ma versino in una situazione di ignoranza colpevole (cfr., ex
aliis, Cass. Sez. II n. 3428 del 20.12.12, dep. 23.1.13).

ravvisata unicamente nel profilo metodologico, il che rende ininfluente, nel caso
di specie, accertare o meno che uno o più imputati avessero precedenti condanne
per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. o risultassero comunque intranei ad
associazioni mafiose.

L’attenuante dell’art. 62 n. 4 c.p.
La censura che precede sub 23), avanzata dalla difesa del Germano, è infondata.
Per costante giurisprudenza di questa S.C., ai fini della configurabilità
dell’attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.) in riferimento al
delitto di rapina o di estorsione non è sufficiente che il bene mobile sottratto od
estorto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli
ulteriori effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata
esercitata la violenza o la minaccia, atteso che il delitto de quo ha natura di reato
plurioffensivo perché lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà e l’integrità
fisica e morale aggredite per la realizzazione del profitto; ne consegue che, in
applicazione della seconda parte della disposizione citata, può farsi luogo
all’applicazione dell’attenuante solo ove la valutazione complessiva del
pregiudizio sia di speciale tenuità; il relativo apprezzamento, risolvendosi nella
verifica di circostanze fattuali, è riservato al giudice di merito e non può essere
censurato in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. Sez.
II n. 21872 del 6.3.2001, dep. 30.5.2001, rv. 218795; Cass. Sez. 11 n. 12456 del
4.3.2008, dep. 20.3.2008, rv. 239749; Cass. Sez. II n. 41578 del 22.11.2006, dep.
19.12.2006, rv. 235386; Cass. Sez. H n. 30275 del 10.4.2002, dep. 5.9.2002, rv.
222784).
Nel caso di specie, si tenga presente che dalle sentenze di merito è stato
accertato che il Germano è stato quello — fra i correi — che non si è limitato a
profferire gravi minacce all’incolumità personale del soggetto passivo (“ti metto

Da ultimo, è appena il caso di ricordare che l’aggravante in discorso è stata

23

su una sedia a rotelle)”, ma è andato oltre, spintonando e percuotendo con un
pugno al volto il De Seta.
Di conseguenza, non può dirsi che minacce e violenze di questo tipo abbiano,
valutate nel loro complesso e in rapporto anche all’importo delle cambiali

I motivi aggiunti depositati dai difensori del Suriano e del Marrelli per
denunciare la violazione dell’art. 63 co. 4 0 c.p. nel calcolo della pena
Si tratta di censure inammissibili perché i motivi aggiunti incontrano il limite
del necessario riferimento ai motivi principali, di cui quelli aggiunti devono
rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore esposizione, anche per ragioni
eventualmente non evidenziate, ma pur sempre collegabili ai capi e ai punti già
dedotti nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581 lett. a) c.p.p. (cfr., ex
aliis, Cass. Sez. II n. 1417 dell’11.10.12, dep. 11.1.13; Cass. Sez. In. 46950 del
2.11.04, dep. 2.12.04; Cass. Sez. IV n. 17386 del 20.2.03, dep. 14.4.03; Cass. S.U.
n. 4683 del 25.2.98, dep. 20.4.98).
Nel caso di specie, al contrario, gli originari ricorsi del Suriano e del Marrelli
non hanno in alcun modo investito le modalità di calcolo del trattamento
sanzionatorio.

La motivazione della trattamento sanzionatorio relativo al Di Puppo
Il motivo che precede sub 13) – nella parte in cui investe la motivazione della
pena inflitta al Di Puppo – è infondato, noto essendo in giurisprudenza che ai fini
della determinazione della pena e dell’applicabilità delle circostanze attenuanti di
cui all’art. 62 bis c.p. non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai parametri di
cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che specifichi a
quale di essi ha inteso fare riferimento. Ne consegue che con il rinvio ai gravi
precedenti penali del Di Puppo e al ruolo da lui ricoperto nella vicenda per cui è
processo l’impugnata sentenza ha adempiuto l’obbligo di motivare sul punto (cfr.
ad esempio Cass. Sez. In. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. In. 8677 del
6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre).
Né in contrario rileva il precedente di Cass. n. 11698/88 invocato nel ricorso a
firma dell’avv. Pugliese, poiché in esso si afferma che il diniego delle attenuanti
generiche può avvenire anche sulla base di un solo elemento soggettivo negativo

rilasciate dal De Seta, arrecato un pregiudizio di speciale tenuità.

24

ritenuto prevalente sugli altri elementi di cui all’art. 133 c.p., mentre nell’ipotesi in
discorso – come si è detto – i giudici d’appello hanno valutato a carico del Di
Puppo ben due parametri fra quelli astrattamente rilevanti nel momento in cui si
decide se concedere o meno le attenuanti dell’art. 62 bis c.p., senza che ne
emergessero di favorevoli all’imputato.
Ogni ulteriore obiezione sollevata dal ricorrente finisce con l’invadere il terreno

legittimità.

Il ricorso del PG territoriale nei confronti della Zambon
Il ricorso – ammissibile — è fondato quanto al dedotto vizio di motivazione, il
che assorbe ogni ulteriore disamina dell’ulteriore censura di violazione dell’art.
110 c.p.
Come sopra si è anticipato, la Corte d’appello motiva anche rinviando (v. pag.
19 e 29), quanto alla ricostruzione in punto di fatto e al contenuto delle
intercettazioni telefoniche, alla pronuncia di primo grado, da cui si discosta
soltanto nell’apprezzare la significatività delle medesime risultanze probatorie
riguardo alla posizione della Zambon.
Si noti che i giudici d’appello non forniscono un’interpretazione differente —
rispetto a quella data dal GUP – del significato letterale delle frasi che nelle
conversazioni captate si scambiano i colloquianti (anche perché il linguaggio da
loro adoperato non è per nulla criptico).
Tale essendo la premessa, bisogna dare per enunciate nell’impugnata sentenza —
in forza, appunto, del rinvio a quella di prime cure — tutte le circostanze fattuali e,
segnatamente, le trascrizioni delle intercettazioni così come riportate per esteso
dalla pronuncia del GUP, al fine di verificarne la coerenza con le altre
affermazioni in punto di fatto operate dai giudici del gravame nell’assolvere la
Zambon.
Ciò vuol dire che il ricorso del PG territoriale, nel citare taluni stralci delle
intercettazioni telefoniche già diffusamente riportati in quella di primo grado,
lungi dal sollecitare un inammissibile accesso agli atti processuali o una
rivisitazione nel merito delle risultanze istruttorie, in sostanza non fa altro che
isolare singoli passaggi motivazionali che, sia pure per relationem, sono già da
considerarsi come contenuti nella gravata pronuncia e che risultano inconciliabili

dell’apprezzamento del merito, estraneo alle delibazioni proprie della sede di

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(v. meglio infra) con il nucleo della motivazione assolutoria (cioè con l’ipotizzata
conoscenza meramente postuma, da parte della Zambon, della condotta violenta e
minatoria posta in essere dai coimputati ai danni del De Seta).
Dunque, trattandosi di motivazione (in parte) per relationem, è fuor di luogo
anche l’ulteriore causa di inammissibilità del ricorso del PG territoriale eccepita
nella memoria depositata dalla difesa della Zambon per omessa indicazione degli

realtà tale indicazione è prescritta solo ove si censuri un travisamento della prova,
mentre quello del fatto, com’è noto, non è denunciabile con ricorso per cassazione
(cfr., e pluribus, Cass. Sez. III n. 39729 del 18.6.2009, dep. 12.10.2009, rv.
244623; Cass. n. 15556 del 12.2.2008, dep. 15.4.2008; Cass. n. 39048/2007, dep.
23.10.2007; Cass. n. 35683 del 10.7.2007, dep. 28.9.2007; Cass. n. 23419 del
23.5.2007, dep. 14.6.2007; Cass. n. 13648 del 3.4.06, dep. 14.4.2006, ed altre).
Nel caso di specie, al contrario, quello fatto valere nel ricorso del PG territoriale
è un vizio di motivazione “risultante dal testo del provvedimento impugnato”
inteso nei sensi di cui sopra.
Si premetta, ancora, che l’impugnata sentenza ha assolto la Zambon — sia detto
in sintesi — perché a dimostrare il presunto mandato estorsivo non basterebbero né
i suoi personali interessi al recupero del credito verso il De Seta né le
intercettazioni telefoniche, essendo queste ultime tali da lasciar ipotizzare una
consapevolezza meramente postuma dei metodi illeciti adoperati dai coimputati
nei confronti del soggetto passivo.
Ciò premesso, una prima contraddizione dell’impugnata sentenza risulta a pag.
35: dapprima vi si ipotizza che la Zambon abbia avuto una conoscenza meramente
postuma delle modalità violente e minacciose poste in essere ai danni del De Seta,
che potrebbero essere avvenute a sua insaputa; poi, subito dopo, si afferma che il
ruolo della Zambon non può essere desunto esclusivamente dalle conversazioni
telefoniche “dalle quali emerge che la donna veniva informata delle azioni
violente poste in essere verso il De Seta”.
Ora, si noti che l’unica azione violenta (e ciò è pacifico in entrambe le sentenze
di merito) è stata quella commessa dal Germano il 4.3.10 (altro sono state le
minacce, proseguite anche dopo tale data).
Si consideri altresì che a pag. 24 della sentenza di primo grado (pronuncia cui
rinvia quella di appello quanto al contenuto delle intercettazioni) emerge che

“altri atti del processo” mediante i quali apprezzare il vizio di motivazione: in

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almeno il 23.4.10 la Zambon veniva messa al corrente, in maniera del tutto
esplicita, dallo stesso Germano delle violenze da lui già realizzate ai danni del De
Seta e dell’intento del Germano medesimo di picchiarlo di nuovo, oltre che della
possibilità che a ciò provvedessero anche altre persone.
Ciò equivale a dire che ella sapeva delle condotte illecite adoperate nei confronti
del soggetto passivo prima che si esaurissero.

delle cambiali risulta anche dalle ultime telefonate fra la Zambon e il Marrelli,
sempre in base a quanto accertato in sede di merito (si veda pag. 61 della sentenza
di primo grado, là dove si rimarca che le minacce sono proseguite anche dopo la
consegna delle cambiali da parte del De Seta, avvenuta il 20.4.10, come accertato
a pag. 20 della sentenza di primo grado e richiamato mediante il generale rinvio
effettuato a pag. 19 e 29 dell’impugnata sentenza).
Si vedano, ancora, la telefonata del 25.4.10 (riportata per esteso a pag. 27 della
sentenza di primo grado: nell’occasione il Marrelli riferisce espressamente alla
Zambon i metodi violenti usati nei confronti del De Seta) e quella del 27.4.10 (il
cui contenuto è anch’esso riportato per esteso dalla sentenza di prime cure,
conversazione nel corso della quale l’imprenditrice si lamenta con il Marrelli del
fatto che il De Seta ha negoziato uno degli assegni e il Marrelli le ribadisce
esplicitamente l’intento di seguitare nelle intimidazioni verso il De Seta).
Conferma ulteriormente che la condotta estorsiva era ancora in corso anche la
telefonata minatoria effettuata, sempre il 27.4.10, dal Marrelli al De Seta e il cui
tenore è in parte riportato pure nel capo d’accusa, condotta la cui storicità
riguardo agli altri coimputati è stata pur ribadita dalla stessa impugnata sentenza.
In altre parole, avendo previamente rinviato al contenuto delle intercettazioni
trascritte nella pronuncia di prime cure e non avendo fornito una differente
interpretazione del significato letterale delle frasi che si scambiano i colloquianti,
nel tirare le proprie conclusioni la Corte territoriale non si avvede di incorrere in
due asserzioni fra loro inconciliabili, ossia negare e affermare nel contempo che la
Zambon abbia avuto una conoscenza meramente postuma dell’altrui illecito
operato.
Ciò costituisce un’insanabile contraddizione – decisiva e intrinseca – nel testo
della sentenza, come tale censurabile ai sensi dell’art. 606 co. 10 lett. e) c.p.p.

E che tali condotte non si fossero esaurite neppure al momento della consegna

27

L’impugnata sentenza incorre in altra contraddizione interna là dove afferma, a
pag. 34, che la Zambon, nelle conversazioni telefoniche del 23.4.10 ore 19,23 e
19,26 e del 24.4.10 ore 8,44, avrebbe espresso il proprio dissenso rispetto alle
modalità di recupero del credito indicate o prospettate dal Marrelli (in quella del
23.4.10 – ore 19,23 — questi espressamente parla di “menare”, “picchiare di
nuovo” il De Seta).
Ma esprimere il proprio dissenso sui metodi quando l’azione è ancora in corso

implica la conoscenza corrente, non già quella meramente postuma poi ipotizzata
dalla stessa Corte territoriale.
Né la sentenza si fa carico di chiarire se tale dissenso sia rimasto nell’alveo di
un generico prudenziale non voler sapere dell’illiceità d’una condotta che pur
tacitamente si continuava ad avallare (nella sentenza di primo grado si riporta lo
stralcio di una conversazione telefonica in cui la Zambon esorta i propri
interlocutori a tutelarsi a fronte del rischio che il De Seta registri le telefonate e
comunque a non parlare per telefono di certe cose) o se invece abbia dato luogo
ad un fattivo e immediato intervento per impedirla.
Infine, a pagina 40 della sentenza di primo grado si legge che la Zambon, una
volta risoltasi il 6.5.10 a rivolgersi ai C.C., nella propria denuncia contro il De
Seta dichiarava “… di non avere mai creduto realmente alle minacce di morte che
il Marrelli e i suoi amici profferivano nei confronti del De Seta, anzi di essere
convinta che anche tali soggetti la stavano prendendo in giro, d’accordo con lo
stesso De Seta, per conseguire soltanto i benefici che avevano di mira”.
Ciò significa che pure in tale denuncia (richiamata anche a pag. 35 della
sentenza d’appello senza indicarne un contenuto diverso da quello riportato in
prime cure) la Zambon si proclamava sostanzialmente consapevole delle minacce
narratele dai correi, sia pure dubitando della loro veridicità, il che è inconciliabile
con l’averne avuto conoscenza meramente postuma.
In sintesi, la conclusione grazie alla quale la Zambon è stata assolta all’esito del
giudizio d’appello è viziata dalle sopra evidenziate insanabili contraddizioni
(interne al testo della sentenza impugnata) su un aspetto decisivo della
motivazione.

Statuizioni conclusive

(come sopra si è detto) è un atteggiamento che logicamente e necessariamente ne

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In conclusione, vanno rigettati i ricorsi di Marcello Marrelli, Francesco Suriano,
Michele Di Puppo, Raffaele Zingone e Francesco Germano. Ex art. 616 c.p.p.
consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
In accoglimento del ricorso del PG territoriale si annulla la sentenza impugnata
limitatamente alla posizione di Jolanda Zambon, con rinvio per nuovo giudizio ad
altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale,
annulla la sentenza impugnata limitatamente alla posizione di Zambon Jolanda
con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro per nuovo giudizio.
Rigetta i ricorsi di Marrelli Marcello, Suriano Francesco, Di Puppo Michele,
Zingone Raffaele e Germano Francesco e li condanna al pagamento delle spese
processuali
Così deciso in Roma, in data 22.11.13.

P.Q.M.

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