Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46790 del 07/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 46790 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Ferraro Angela, nata a Taurianova il 14/09/1963

avverso l’ordinanza del 30/01/2013 del Tribunale di Reggio Calabria

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Oscar Cedrangolo, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio
dell’ordinanza impugnata, Gon riguardo ai temi della ravvisabilità delle esigenze
cautelari e dell’applicazione dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 12/05/2011, rigettava
una richiesta di riesame presentata nell’interesse di Angela Ferraro avverso un
provvedimento restrittivo della libertà personale emesso dal G.i.p. dello stesso

Data Udienza: 07/06/2013

Tribunale in data 15/04/2011, essendo la Ferraro gravata da indizi di
colpevolezza quanto a reati ex artt. 416-bis, 629 cod. pen. e 12-quinquies d.l. n.
152 del 1991: l’indagata veniva ritenuta partecipe della associazione di tipo
mafioso denominata ‘ndrina Pesce, facente capo al di lei marito Salvatore Pesce,
all’interno della quale ella si era occupata, fra l’altro, di mantenere in contatto il
coniuge ristretto in carcere con altri membri del sodalizio, veicolando
comunicazioni e direttive; alla stessa si addebitava altresì di avere concorso con
il marito ed i figli in una fittizia intestazione di mezzi di trasporto alla ditta Travel

perché costretto a versare somme mensili comprese fra 800,00 e 1.000,00 euro
alla consorteria criminale.
Il collegio rigettava alcune eccezioni in rito sollevate dalla difesa, e
richiamava il contenuto di numerose intercettazioni ambientali captate in
occasione di colloqui in carcere tra la Ferraro ed altri membri dell’associazione (in
particolare, il marito, il fratello ed il figlio della stessa indagata), ricavandone la
conferma del ruolo di vettore di informazioni per i sodali detenuti e di ordini che
costoro impartivano: ella si era anche dimostrata a conoscenza di particolari
relativi all’omicidio di un amico del figlio, e coinvolta nella riscossione dei
proventi dell’estorsione in danno dell’Armeli. Inoltre, l’altra figlia della Ferraro,
Giuseppina Pesce, aveva dichiarato che la madre faceva effettivamente parte
della cosca, incaricandosi anche di gestire somme di denaro per conto della
stessa.

2. Con sentenza del 29/05/2012, su ricorso presentato nell’interesse della
Ferraro, la Sezione Prima di questa Corte annullava la predetta ordinanza,
rilevando che «con riguardo alle eccezioni preliminari, il Tribunale del riesame ha
risposto in modo incongruo alla prima eccezione sollevata dalla ricorrente, la
quale si era lamentata della mancata trasmissione al G.i.p. – all’atto della
richiesta avanzata dal P.M. di Reggio Calabria dell’ordinanza di custodia cautelare
– della documentazione e della memoria difensiva presentate dalla difesa
all’udienza in data 01/05/2010 davanti al G.i.p. di Milano per la convalida del
fermo, atti che il P.M. aveva l’obbligo di trasmettere al G.i.p. per il disposto
dell’art. 291, comma 1, cod. proc. pen.. E’ di tutta evidenza, infatti, che alla
difesa, non informata della richiesta di misura cautelare da parte del P.M., non
può essere addossato l’onere di (ri)produrre la suddetta documentazione
difensiva. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la mancata
trasmissione, da parte del Pubblico Ministero, in violazione del disposto di cui
all’art. 291, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen., delle eventuali memorie
difensive già depositate (anche se riferibili, come nella specie, a precedenti

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Sud, il cui titolare – Signorino Armeli – era stato anche vittima di estorsione,

richieste di misure cautelari, successivamente divenute inefficaci e relative
sempre agli stessi fatti), si traduce in una causa di nullità dell’ordinanza
applicativa della misura, per violazione dell’art. 292, comma 2, lett. c)-bis, cod.
proc. pen., nella parte in cui esso impone al giudice l’esposizione dei motivi per i
quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa; nullità,
quella anzidetta, da qualificare come “intermedia” e quindi destinata ad essere
sanata se non rilevata o dedotta, nel caso in cui venga proposta richiesta di
riesame, prima che su tale richiesta intervenga il provvedimento del Tribunale

innanzi tutto accertare se la documentazione suddetta fosse stata effettivamente
depositata dalla difesa davanti al G.i.p. del Tribunale di Milano e, in secondo
luogo, verificare che la documentazione in questione non fosse stata trasmessa
dal P.M. al G.i.p. di Reggio Calabria, unitamente agli atti posti a fondamento
della richiesta di ordinanza cautelare.
[…] Fondate risultano […] le censure rivolte alla motivazione dell’ordinanza
impugnata con le quali è stata contestata la gravità degli indizi a carico della
ricorrente in ordine ai delitti contestati. Con riguardo al delitto di estorsione di
cui al capo 13 in danno di Armeli Signorino, non sono stati indicati gli elementi
dai quali è stata desunta la consapevolezza dell’indagata che i versamenti
effettuati dalla predetta parte offesa fossero frutto di imposizioni estorsive da
parte di familiari della stessa indagata. Non risulta dalla motivazione
dell’ordinanza impugnata che Ferraro Angela sia in qualche modo intervenuta nel
rapporto instauratosi tra Pesce Francesco e Armeli Signorino, in base al quale il
primo – che aveva la proprietà degli autocarri che aveva fatto intestare alla
società Travel Sud amministrata dall’Armeli – pretendeva da quest’ultimo il
versamento di una somma mensile, a prescindere dal fatto che gli autocarri in
questione fossero stati impiegati nelle attività della suddetta società. Il fatto
che l’indagata abbia, in qualche occasione, riscosso somme dall’Armeli per conto
del proprio figlio Pesce Francesco non costituisce di per sé un grave indizio della
partecipazione al reato di estorsione, se non vengono indicati elementi dai quali
desumere che la Ferraro fosse a conoscenza della causa illecita in base alla quale
venivano consegnate le somme in questione.
Con riguardo al delitto di cui al capo 12, concernente l’intestazione fittizia di
più mezzi di trasporto di proprietà di Pesce Francesco alla società di Armeli
Signorino, dalla ordinanza impugnata non si evince quale sia stata la specifica
condotta addebitata alla ricorrente, dovendosi comunque tenere conto che il
reato di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306/92 è reato istantaneo con effetti
permanenti, e quindi il contributo dato da Ferraro Angela deve essere individuato
nella fase della intestazione fittizia dei beni.

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[…]. Il Tribunale del riesame, quindi, avrebbe dovuto (e dovrà in sede di rinvio)

Con riguardo al delitto associativo, premesso che l’indagata aveva
ovviamente rapporti di natura familiare con il marito, i figli ed il fratello, devono
essere precisati – ai fini della individuazione di gravi indizi di colpevolezza in
ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. – i comportamenti della predetta
non collegabili alla sfera familiare intrattenuti anche con gli stessi familiari, ma
inequivocabilmente indicativi di una partecipazione della Ferraro alle attività della
cosca, non apparendo tali la contestata partecipazione a reati fine, per carenza di
motivazione sulla gravità indiziaria; la conoscenza di particolari dell’omicidio di

solo un affiliato poteva conoscere; la gestione di somme per la difesa di membri
del dan, se non si specifica da quali elementi risulti che dette somme
provenivano da attività riferibili alla cosca e nei confronti di quali altri membri del
dan – diversi dai suoi stretti familiari – la Ferraro si sia interessata per dare loro

assistenza legale».

3. Con ordinanza del 30/01/2013, decidendo in sede di rinvio, il Tribunale di
Reggio Calabria respingeva nuovamente il riesame proposto, confermando la
sussistenza a carico della Ferraro sia di gravi indizi di colpevolezza – tranne che
per l’addebito di cui all’art. 12-quinquies sopra ricordato, rubricato al capo 12) sia di esigenze cautelari rilevanti ex art. 274 del codice di rito.
3.1 Il Tribunale osservava innanzi tutto che doveva riconoscersi libertà di
determinazioni al giudice di rinvio, in caso di annullamento derivante da vizio
della motivazione: ciò perché «il giudice di rinvio conserva la libertà di decisione
mediante autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto
annullato, anche se è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo
schema implicitamente od esplicitamente enunciato nella sentenza di
annullamento. In tale ipotesi, secondo la giurisprudenza consolidata della
Suprema Corte […], il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova
decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di
Cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse
da quelle censurate in sede di legittimità, ovvero integrando e completando
quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata».
3.2 II collegio, sulla questione in rito in ordine alla quale vi era stato un
primo motivo di annullamento da parte della Sezione Prima di questa Corte,
dava atto che le memorie della cui mancata allegazione si era lamentata la difesa
erano invece nella disponibilità del G.i.p. del Tribunale di Reggio Calabria, come
risultava dall’esame del carteggio, in particolare dal faldone n. 48 che conteneva
la prima ordinanza del G.i.p. di Milano, trasmessa – unitamente agli atti acquisiti
in quella occasione – alla A.G. calabrese.

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Sabatino Domenico, se non si mettono in luce i particolari di questo delitto che

3.3 Sui presunti reati-fine, il Tribunale annullava l’ordinanza primigenia
quanto all’addebito di cui al capo 12), l’art.

12-quinquies del d.I., ribadendo

ancora, a proposito del contributo della donna ad attività estorsive, che:
– «gran parte degli elementi a carico di Ferraro Angela erano stati desunti da
colloqui intercettati […] nella sala colloqui del carcere in cui erano detenuti Pesce
Salvatore (marito dell’indagata), Ferraro Giuseppe (fratello dell’indagata), Pesce
Francesco […] (figlio dell’indagata); colloqui intercorsi tra i predetti detenuti e i

– da quei colloqui risultava che «la Ferraro si proponeva come ambasciatrice
delle direttive che ora l’uno, ora l’altro dei componenti della famiglia inviavano
dal carcere all’esterno», si rivelava a conoscenza dei particolari dell’omicidio di
Domenico Sabatino, amico fraterno del figlio, ed era coinvolta sia nella
riscossione di proventi di attività estorsive (vicenda Armeli) che «nella gestione
di somme da utilizzate per le spese della difesa di membri del dan»;
– notevole rilievo doveva riconoscersi alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce, nel
frattempo divenuta collaboratrice di giustizia e da considerare pienamente
attendibile perché non aveva receduto dal programma, come sostenuto dalla
difesa dell’indagata, ma si era limitata a non voler più rispondere ed a non
sottoscrivere un verbale in occasione di un solo interrogatorio, dell’11/04/2011
(né risultavano elementi concreti per intenderla un soggetto inaffidabile in
quanto affetta da problemi di salute incidenti sul suo equilibrio psichico).
Le intercettazioni de quibus venivano quindi richiamate per ampi stralci,
contenenti ad esempio riferimenti alla necessità di far pervenire il denaro “dei
camion”, da intendersi relativo all’estorsione in danno dell’Armeli, alla Ferraro: in
alcuni di tali colloqui, il figlio menzionava soldi che avrebbero dovuto essere
incassati al primo di ogni mese, con la madre a ribattergli di avere ricevuto “400
euro di merda” invece degli 800 previsti, e Francesco Pesce le dava l’espresso
incarico di andare ad esigere quanto stabilito, altrimenti – al soggetto cui si
dovevano rivolgere, definito “Rino lo sbirro” – avrebbe fatto bruciare tutti i
camion, e pure lui dentro. L’ipotesi del ricorso alla violenza era ribadita in più
colloqui con interlocutori diversi, con tanto di aggiunta “a questo cornuto l’altra
volta lo abbiamo menato, un’altra volta lo dobbiamo menare”; in una occasione,
lamentandosi che prima erano 1.000, poi erano scesi a 800 e dopo il suo arresto
si erano ridotti a 600 o ancora meno, Francesco Pesce diceva al cugino Vincenzo
“siete capaci di andare a prenderlo e menargli?”; ancora, parlando con la madre
che gli diceva che l’altro avrebbe pagato, lo stesso detenuto spiegava che il patto
era tutto a danno suo – cioè che la somma da versare era fissa, a prescindere

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loro congiunti che erano andati a trovarli, tra i quali la stessa Ferraro Angela»;

dal fatto che venissero impiegati o meno i suoi camion del Pesce – e che “una
volta l’ho menato, stavolta lo ammazzo”.
Quello dell’indagata, ad avviso del Tribunale, era pertanto un ruolo di ausilio
diretto e rilevante alla regolare percezione del “pizzo” corrisposto dalla vittima
dell’estorsione, idoneo ad integrare un concorso nel delitto di cui all’art. 629 cod.
pen. e non già un semplice favoreggiamento: del resto, che fosse lei ad
occuparsi di ricevere il denaro era stato confermato anche da Giuseppina Pesce,
in sede di udienza dibattimentale nel processo di merito già in corso di

tra il figlio e l’Armeli vi fosse un accordo lecito, non foss’altro per il contenuto
esplicito di quei colloqui e per la circostanza che Francesco Pesce palesava intenti
del tutto sproporzionati rispetto ad una eventuale ipotesi di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni, sul presupposto di una legittima ragione di credito.
3.4 A proposito della diretta partecipazione dell’odierna ricorrente al
sodalizio mafioso, i giudici del riesame segnalavano la significatività di ulteriori
intercettazioni, tra cui quelle relative a commenti di Salvatore Pesce sulla
collaborazione intrapresa da Rosa Ferraro con le forze dell’ordine: egli aveva
invitato la moglie a dire allo zio (Mario Ferraro) di farsi carico del problema, da
intendersi la soppressione della congiunta, altrimenti ci avrebbe pensato lui a
prendere il provvedimento in 24 ore (“ditegli che io martedì voglio la risposta. La
faccio investire sulla strada. Come attraversa la strada arriva una macchina
veloce e..”). L’episodio doveva intendersi confermare il rilievo dell’indagata
all’interno della cosca, perché messa a conoscenza di fatti di evidente importanza
ed incaricata dal marito di richiedere un intervento risolutivo di altri parenti su
un problema urgente, incarico da considerarsi di estrema fiducia.
Anche Giuseppina Pesce aveva confermato la vicenda delle recriminazioni
della sua famiglia verso i Ferraro per quella collaborazione, aggiungendo
addirittura che Mario Ferraro aveva proposto alla nipote Angela – che sosteneva
di avere paura di Rosa – di prendere una pistola e ucciderla lei, invito declinato
dall’indagata che si era detta incapace di fare una cosa del genere.
Angela Ferraro, come già rilevato nell’ordinanza oggetto di annullamento,
aveva altresì confermato al fratello detenuto particolari importanti sull’omicidio
del Sabatino, dichiarandosi a conoscenza sia della dinamica che di fatti pregressi.
Infine, sempre in occasione di colloqui con il fratello, ella era stata ripresa
dalle immagini nell’atto di prendere biglietti che il detenuto le passava da sotto il
tavolo.
Il Tribunale, dopo aver fatto riferimento a numerose altre intercettazioni
concernenti l’esigenza di corrispondere denaro ad avvocati per garantire la difesa
a membri del sodalizio in vinculis o comunque in vista di processi da celebrare

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svolgimento. Era in particolare da escludersi che la donna potesse ritenere che

nei loro confronti, richiamava la giurisprudenza di questa Corte sulla prova della
partecipazione di un soggetto ad un’associazione di tipo mafioso, ricordando in
particolare l’evoluzione (nell’approccio esegetico alla norma dettata dall’art. 416bis cod. pen.) segnata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 33748 del
12/07/2005, ric. Mannino.
3.5 In ordine alle esigenze cautelari, il collegio operava ulteriori riferimenti
giurisprudenziali quanto all’interpretazione dell’art. 275, comma 3, del codice di
rito, rilevando che – nei riguardi di soggetti per cui esistano gravi indizi di

pericolosità sociale esonera il giudice da un obbligo di accertamento in positivo,
salvo dover egli constatare la sussistenza di elementi che impongano ictu °cui/ di
superarla, mentre quella di adeguatezza della custodia in carcere non limita la
discrezionalità del giudicante soltanto con riguardo al momento genetico di
applicazione della misura cautelare, ma anche in corso di esecuzione. Ad avviso
del Tribunale, erano pertanto da intendere decisive le circostanze della mancata
emergenza di dati indicativi della avvenuta rescissione del vincolo associativo, e
della genericità delle allegazioni difensive sul mero stato di pregressa
incensuratezza della Ferraro, ovvero sulla impossibilità di ravvisare un pericolo di
fuga o di inquinamento probatorio.
I giudici del rinvio consideravano infine non applicabile al caso di specie il
disposto di cui all’art. 275 comma 4 cod. proc. pen. (invocato dalla difesa sul
presupposto che l’indagata dovesse assistere l’altra figlia Maria Rosaria Pesce,
affetta da patologia invalidante ma comunque maggiorenne), dato che la giovane
doveva ritenersi sufficientemente in grado di provvedere a se stessa, come da
acquisizioni in atti, ivi comprese alcune intercettazioni che ne dimostravano una
normale vita di relazione: la norma de qua doveva peraltro intendersi non
suscettibile di applicazione analogica in quanto di natura eccezionale, come già
ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte.
Inoltre, la stessa questione era già stata sollevata con autonomo atto di
appello ex art. 310 del codice di rito, e rigettata con provvedimento confermato
in sede di legittimità (veniva riportata a riguardo una ampia parte della
motivazione della sentenza della Sezione Prima di questa Corte, n. 49522 del
10/10/2012): pertanto era da considerare inaccoglibile anche la richiesta di una
perizia sullo stato di salute della ragazza.

4. Avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Reggio Calabria in sede di
rinvio propone nuovo ricorso, personalmente sottoscritto, Angela Ferraro.
4.1 La ricorrente deduce

in primis violazione di legge sostanziale e

processuale (con riferimento agli artt. 623, 627 e 273 cod. proc. pen., 416-bis,

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colpevolezza quali partecipi di associazioni di tipo mafioso – la presunzione di

629 cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991), oltre a carenze motivazionali del
provvedimento impugnato. Richiamato il contenuto della sentenza della Prima
Sezione di questa Corte, con cui era stato disposto l’annullamento della
precedente ordinanza, la Ferraro sostiene che il Tribunale non avrebbe
correttamente applicato i principi che regolano il giudizio di rinvio: in particolare,
ciò risulterebbe dalla circostanza che i giudici del riesame avrebbero nuovamente
fatto riferimento alle stesse intercettazioni che – nella disamina compiuta in
sede di legittimità – erano state ritenute non congruenti. L’indagata segnala

arguire che ella (a proposito della presunta estorsione di cui l’Armeli sarebbe
rimasto vittima) era veramente convinta di parlare di attività lecite, in virtù di
accordi altrettanto leciti stipulati dal figlio con il suddetto. Indicativa in proposito
sarebbe la circostanza che la donna, nel sentirsi chiedere da Francesco Pesce
come mai l’altro le aveva fatto avere solo 400,00 euro in luogo della maggiore
somma che egli si attendeva, aveva risposto “perché non ti ha lavorato il
camion”, dando così una spiegazione plausibile e logica; il seguito del colloquio
(di cui i giudici di merito avevano arbitrariamente offerto una opposta lettura)
era invece tra il figlio dell’indagata ed un altro soggetto, senza che potesse
assumere rilievo il fatto che la Ferraro non fosse intervenuta per smentire o
contenere le intemperanze verbali del figlio, palesemente adirato. Perciò, le
intese presupposte tra il Pesce e l’Armeli riguardavano in effetti una sorta di
affitto di un camion che il primo aveva consegnato al secondo, con l’impegno di
costui di corrispondere 1.000,00 euro al mese, con manutenzione, assicurazione
ed autista in carico al ricevente, come ulteriormente chiarito da altra
intercettazione.
L’atteggiamento della Ferraro, remissivo rispetto alle invettive che il figlio
rivolgeva all’Armeli (parlando comunque con altri), non poteva comunque dirsi
equivalente a certezza della gravità indiziaria. Del resto, aggiunge la ricorrente
che anche Giuseppina Pesce aveva dichiarato che le donne della famiglia
ritenevano leciti quei rapporti tra l’Armeli e suo fratello, e che solo in un secondo
momento ella aveva iniziato a sospettare qualcosa, vedendo quanto si
arrabbiava il congiunto nel trattare l’argomento.
Sulla stessa Giuseppina Pesce, doveva poi escludersi che la madre avesse in
qualche modo cercato di avvicinarla per indurla a recedere dalla collaborazione
intrapresa, visto che la giovane aveva dichiarato in dibattimento di avere avuto
colloqui telefonici con la madre, limitatasi a chiedere come stesse ed a rivolgerle
espressioni di affetto.
In ordine alle intercettazioni considerate rilevanti ai fini della piattaforma
indiziaria sulla sua partecipazione al sodalizio qualificato ex art. 416-bis cod.

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peraltro che da alcuni passi delle medesime conversazioni si dovrebbe piuttosto

pen., la ricorrente rileva che Salvatore Pesce aveva richiesto l’intervento della
famiglia di appartenenza su Rosa Ferraro non perché collaboratrice di giustizia,
ma perché era andata a casa sua a minacciare la moglie e la figlia Giuseppina
(spiegazione coerente con l’episodio dello zio dell’indagata, che le aveva detto di
armarsi di pistola, con la Ferraro a ribattergli che non era cosa per lei).
Inoltre, doveva intendersi irrilevante l’avere la donna raccontato al fratello i
particolari di come fosse stato ucciso il Sabatino, né sarebbe stato comunque
accertato il contenuto del bigliettino che la Ferraro aveva ricevuto dallo stesso

affrontare le spese legali necessari alle vicende giudiziarie dei propri familiari non
poteva dimostrare alcunché circa la sua intraneità al sodalizio. Perciò, la tesi
difensiva è che si rimarrebbe al massimo su un piano di «condivisione
meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche»,
insufficiente a concretizzare un compendio indiziario dimostrativo dell’assunzione
da parte dell’indagata di un «ruolo materiale all’interno della struttura criminosa,
manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla
struttura» (al massimo si potrebbe discutere di un’ipotesi di favoreggiamento
quanto ad attività illecite ascrivibili al marito e/o al fratello).
4.2 La Ferraro lamenta poi inosservanza di legge processuale (con
riferimento agli artt. 125, 546, 275, 284 e 299 cod. proc. pen.) nonché difetto di
motivazione, sull’invocata applicazione dell’art. 275 comma 4 e sulla richiesta di
una perizia medico-legale circa le condizioni di salute della figlia bisognosa di
assistenza, indicata – con il supporto di certificazioni obiettive ed elaborati
tecnici di parte – quale invalida al 100% ed avente una età mentale di 7 anni, a
dispetto di quella anagrafica.
La ricorrente offre una analitica illustrazione dello stato di salute della
ragazza, con riproduzione integrale del contenuto di una relazione del consulente
di fiducia, e rinnova una questione di legittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 4, «nella parte in cui non prevede il divieto di disporre e mantenere la
custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di
eccezionale rilevanza, quando imputata sia la madre di prole, con lei convivente,
totalmente invalida, che versa in condizioni di salute particolarmente gravi e che,
per tale ragione, necessita di continue cure ed assistenza, o il padre, qualora la
madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a fornire alla prole le cure e
l’assistenza di cui ha ininterrottamente bisogno».
La questione, in altro procedimento, era già stata ritenuta fondata e
sottoposta alla Corte Costituzionale, ma in concreto non era intervenuta alcuna
decisione perché medio tempore il reato contestato alla protagonista di quella

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germano: il fatto che l’indagata si occupasse infine di raccogliere denaro per

vicenda – la fattispecie associativa ex art. 74 legge stup. – era stato escluso dal
novero di quelli comunque impositivi della massima misura cautelare.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, «a seguito di

di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla
Corte di Cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni
diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e
completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia
annullata. Ciò in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito il compito di
ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il
significato e il valore delle relative fonti di prova, senza essere condizionato da
valutazioni in fatto eventualmente sfuggite al giudice di legittimità nelle proprie
argomentazioni, essendo diversi i piani su cui operano le rispettive valutazioni e
non essendo compito della Corte di Cassazione di sovrapporre il proprio
convincimento a quello del giudice di merito in ordine a tali aspetti. Del resto,
ove la Suprema Corte soffermi eventualmente la sua attenzione su alcuni
particolari aspetti da cui emerga la carenza o la contraddittorietà della
motivazione, ciò non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo
giudizio sui soli punti specificati, poiché egli conserva gli stessi poteri che gli
competevano originariamente quale giudice di merito relativamente
all’individuazione ed alla valutazione dei dati processuali, nell’ambito del capo
della sentenza colpito da annullamento» (Cass., Sez. IV, n. 30422 del
21/06/2005, Poggi, Rv 232019).
Per converso, è stato altresì rilevato che «il provvedimento

de libertate

annullato dalla Corte di Cassazione per vizio di motivazione può essere
confermato dal giudice del rinvio a condizione che la decisione si fondi su
valutazioni diverse da quelle censurate, o su integrazioni di queste ultime se
ritenute carenti» (Cass., Sez. VI, n. 16659 del 21/01/2009, Muto, Rv 243514).
Nella fattispecie in esame, risultano rispettati i principi espressi in entrambe
le massime appena ricordate.
Infatti, la Prima Sezione di questa Corte, nell’annullare l’ordinanza del
12/05/2011, aveva rilevato carenze motivazionali – in punto di gravità indiziaria
per il delitto di estorsione, sulla base degli elementi evidenziati quanto al
contenuto delle conversazioni intercettate – sulla circostanza che la Ferraro

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annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto

fosse consapevole della natura illecita degli accordi tra il figlio e l’Armeli:
riesaminando le acquisizioni istruttorie, anche illustrando dati ulteriori desumibili
dalle stesse intercettazioni, il collegio ha effettivamente integrato la prima
motivazione, facendo emergere la diretta partecipazione della Ferraro alla
volontà del figlio di conseguire profitti ingiusti in danno dell’Armeli (non avendo,
sul piano logico, altra possibile spiegazione l’invito di Francesco Pesce alla donna
affinché andasse a riscuotere la differenza pretesa, stante l’espressa precisazione
che altrimenti avrebbe dato fuoco agli automezzi di “Rino lo sbirro”, facendoci

richiamo del Pesce, anche in presenza della madre, a precedenti percosse inferte
allo stesso Armeli).
Il vuoto motivazionale riscontrato in precedenza risulta quindi
obiettivamente colmato, con riflessi immediati anche in ordine all’ulteriore
addebito concernente il reato associativo (mentre il Tribunale di Reggio Calabria
non è riuscito a fare altrettanto, tenendo conto delle indicazioni di questa Corte,
sulla contestazione ex art. 12-quinquies del d.l. n. 152 del 1991): ciò in quanto
la medesima sentenza di annullamento con rinvio aveva precisato come – in
vista della prova della partecipazione della Ferraro alle attività della cosca – non
potesse in quel momento invocarsi la dimostrata partecipazione della donna ai
reati-fine, proprio in ragione della rilevata carenza di motivazione sulla gravità
indiziaria. Sopperito a quelle carenze, invece, ben può affermarsi che «la
partecipazione dell’indagato ad episodi di estorsione compiuti nell’ambito di un
contesto mafioso costituisce per sé solo elemento gravemente indiziante di
partecipazione al gruppo criminale, senza che siano necessarie ulteriori
rappresentazioni di frequentazione con altri associati» (Cass., Sez. VI, n. 47048
del 10/11/2009, Plastino, richiamata anche nel corpo dell’ordinanza qui
impugnata).
1.2 Corrette ed ineccepibili appaiono, una volta rilevato un quadro di gravità
indiziaria anche in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., le

bruciare dentro anche lui; analogamente, appare oltremodo significativo il

conseguenze che il Tribunale reggino ha inteso desumerne sotto il profilo della
presunzione (relativa) di sussistenza di esigenze cautelari, in assenza di
qualsivoglia segnale di cessazione del vincolo o di allontanamento dell’indagata
dal contesto criminale, come pure della presunzione (assoluta) di adeguatezza
della custodia in carcere: a quest’ultimo riguardo, in particolare, pur dovendosi
ricordare che «la presunzione di cui all’art. 275, comma quarto, cod. proc. pen.,
che esclude l’applicabilità della custodia in carcere nei confronti di determinate
persone che versino in particolari condizioni salvo che ricorrano esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza, prevale rispetto alla presunzione di
adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui al comma terzo del

01j,
11

medesimo articolo prevista ove si proceda per determinati reati» (Cass., Sez. II,
n. 11714 del 16/03/2012, Ruoppolo, Rv 252534), si impone la presa d’atto che il
problema della necessità della Ferraro di prendersi cura dell’altra figlia, affetta da
peculiari patologie, risulta già espressamente affrontato da altra pronuncia di
questa Corte (ancora della Sezione Prima, n. 49522 del 10/10/2012) a seguito di
specifico appello ex art. 310 del codice di rito che l’odierna ricorrente aveva
promosso avverso un precedente provvedimento emesso ai sensi dell’art. 299
cod. proc. pen.

di legittimità erano stati diffusamente affrontati, ed il collegio ritiene di doversi
certamente riportare a quella decisione, per completezza e congruenza del
percorso argomentativo adottato, che non è necessario qui riprodurre
ulteriormente essendo già stato oggetto di espresso richiamo nell’ordinanza
impugnata.

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della Ferraro al pagamento
delle spese del presente giudizio di legittimità.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà della ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti
di cui al dispositivo.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp.
att. cod. proc. pen.

Così deciso il 07/06/2013.

In quella sede, i temi su cui la ricorrente ha nuovamente sollecitato il giudice

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