Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46752 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 46752 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Cappabianca Ferdinando n. il 13.7.1968; Carnevale Donato n. il
30.12.1970; Carnevale Maria n. il 22.7.1968; Di Felice Domenico n. il
29.1.1961; Di Palma Lorenzo n. il 10.2.1965; Filippelli Antonio n. il
26.12.1962; Ianniello Maria Addolorata n. il 28.11.1981; Iuliano Paolo
n. il 27.11.1988; Mastroianni Mario n. il 16.11.1972; Modena Mara n.
il 22.6.1954; Musone Eremigio n. il 23.7.1978; Nocera Andrea n. il
19.2.1981; Nocera Antonio n. il 30.1.1986; Olivo Anna n. il 22.1.1960;
Ruocchio Laura n. il 20.3.1992; Zanillo Antonio n. il 30.11.1968
avverso la sentenza n. 2173/2011 pronunciata dalla Corte d’appello di
Napoli il 22.5.2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita nell’udienza pubblica del 15.10.2013 la relazione fatta dal Cons.
dott. Marco Dell’Utri;
udito il Procuratore Generale, in persona del dott. R. Aniello, che ha
concluso per il rigetto di tutti i ricorsi ad eccezione di quelli di
Filippelli, Ianniello, Nocera Antonio e Zarrillo Antonio in relazione ai
quali ha concluso per la dichiarazione d’inammissibilità;
uditi i difensori, avv.to N. Garofalo, per Olivo; avv.to F. Simoncelli,
per Di Palma, Filippelli e Modena; avv.to A. Sorbo, per Di Felice; tutti
del foro di S. Maria Capua Vetere; nonché avv.to E. Spinelli, del foro
di Roma, per Mastroianni, che hanno concluso per l’accoglimento dei
rispettivi ricorsi.

Data Udienza: 15/10/2013

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Ritenuto in fatto
— Con sentenza resa in data 3.9.2010, il tribunale di Santa
Maria Capua Vetere ha condannato Ferdinando Cappabianca, Donato
Carnevale, Maria Carnevale, Paolo Iuliano, Andrea Nocera, Laura
Ruocchio, Domenico Di Felice, Maria Addolorata Ianniello, Antonio
Nocera, Mara Modena, Eremigio Musone, Lorenzo Di Palma e Mario
Mastroianni alle pene rispettivamente loro inflitte in relazione a una
serie di reati concernenti il traffico di sostanze stupefacenti, nonché,
unitamente ad Antonio Zarrillo e ad Anna Olivo – e con esclusione di
Maria Addolorata Ianniello e Mara Modena – al reato di associazione
per delinquere finalizzata al compimento di detto traffico, commessi,
nei territori della provincia di Caserta, nei luoghi e nei periodi di
tempo specificamente indicati nei capi d’imputazione ascritti a ciascun imputato.
Con la stessa sentenza, il giudice di primo grado, assolto Antonio Filippelli dalle imputazioni contestategli, ha applicato allo stesso
la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di un anno.
Con sentenza in data 22.5.2012, la corte d’appello di Napoli,
confermate integralmente le restanti statuizioni, ha rideterminato la
pena nei confronti del solo Domenico Di Felice, applicando in suo favore la continuazione tra i reati allo stesso ascritti e quello già precedentemente giudicato con sentenza della medesima corte d’appello
del 23.9.2008, divenuta irrevocabile in data 14.5.2009.
Avverso la sentenza d’appello, hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati.
Ferdinando Cappabianca censura la sentenza impugnata
per violazione di legge in relazione agli artt. 34, co. 2, e 36, co. 1, lett.
h), c.p.p., per avere la corte territoriale emesso il proprio giudizio nonostante due membri del collegio (Anna Di Mauro e Patrizia Cappiello) avessero già manifestato il proprio convincimento in ordine alla
responsabilità penale di numerosi imputati del medesimo reato
ascritto al Cappabianca, ritenendo di separare le posizioni dei diversi
imputati sull’erroneo presupposto dell’autonoma considerabilità delle diverse condotte ascrivibili a ciascuno dei concorrenti nel medesimo reato.
A giudizio del ricorrente, viceversa, la natura necessaria del
concorso nel reato associativo avrebbe imposto di ritenere insuffi2.1. –

i.

Y

ciente il riferimento all’autonomia delle singole posizioni al fine di
escludere l’inevitabile condizionamento derivante dall’awenuta
emissione del precedente giudizio.
In particolare, tale condizionamento emergerebbe con evidenza nella valutazione dello stretto e inscindibile rapporto tra il Cappabianca e Francesco Zarrillo (separatamente giudicato), ritenuto il
promotore dell’associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti
contestata al Cappabianca, per come emerso sulla base delle dichiarazioni degli stessi collaboratori di giustizia (richiamati nella motivazione della sentenza impugnata e valutati come attendibili nel precedente processo) concordi nell’indicare il Cappabianca quale stretto e
diretto collaboratore di Francesco Zamillo.
Sotto altro profilo, il ricorrente censura la sentenza impugnata
per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 73
e 74 d.p.r. n. 309/90, 192 c.p.p. 62-bis e 133 c.p..
In particolare, si duole il ricorrente dell’assoluta insufficienza
della motivazione relativa all’accertamento del reato associativo
ascritto al Cappabianca, fondata esclusivamente sulle dichiarazioni
dei collaboratori di giustizia e sugli esiti dell’attività di captazione limitati a un arco temporale di soli quattro mesi: dichiarazioni e conversazioni riferite a vicende estranee ai fatti oggetto del processo, del
tutto generiche e prive di adeguati riscontri obiettivi.
A tale riguardo, con particolare riferimento alla conversazione
ambientale del 15.6.2007 posta a fondamento della condanna relativa
al capo A17 della rubrica, rileva il ricorrente come la corte d’appello
abbia trascurato di operare alcuna autonoma valutazione, limitandosi
a riproporre le criticabili argomentazioni sostenute dal giudice di
primo grado; così come del tutto genericamente la corte territoriale
ha ascritto al Cappabianca un ruolo attivo all’interno del sodalizio
criminoso in assenza di idonea motivazione capace di astrarre, dalla
comprovata attività relativa alla cessione di stupefacenti, la configurabilità di elementi concreti idonei ad attestare il ricorso dell’ulteriore
e diversa fattispecie associativa.
Analoga carenza motivazionale affliggerebbe, ad avviso del ricorrente, il riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art.
71. n. 203/91 in assenza di alcuna prova del dolo specifico di agevolazione dell’associazione di stampo mafioso, certamente non rinvenibi-

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Le

le nella sola circostanza costituita dall’esistenza di rapporti tra il Cappabianca e Francesco Zarrillo, quale referente del clan Belforte.
Da ultimo, il ricorrente si duole dell’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio allo stesso inflitto, in assenza di una corretta
valutazione dei parametri di cui all’art. 133 c.p., che avrebbe viceversa
condotto al ridimensionamento della figura dell’imputato e alla concessione in favore dello stesso delle circostanze attenuanti generiche.
Donato Carnevale, Maria Carnevale, Paolo Iuliano, Andrea Nocera e Laura Ruocchio, a mezzo del comune difensore, censurano la sentenza d’appello per aver ascritto agli imputati la contestata
partecipazione al reato associativo finalizzato al traffico di sostanze
stupefacenti sulla base di elementi di prova del tutto inidonei a fornire alcuna conferma sul punto, stante l’impossibilità di far discendere,
dal contenuto delle conversazioni intercettate (riguardanti la detenzione o la cessione di sostanze stupefacenti) la conseguente prova di
una stabile e consapevole partecipazione degli imputati all’ipotetico
sodalizio criminale affrettatamente ricostruito dai giudici del merito.
In particolare, l’accusa rivolta dal collaboratore Forcillo nei
confronti di Donato Carnevale risulterebbe totalmente priva di riscontri, mentre il coinvolgimento di Maria Carnevale (rimasta sconosciuta alla quasi totalità dei coimputati) parrebbe comprovato sulla
base di un’unica, sporadica intercettazione ambientale nell’arco di
quattro mesi, del tutto insufficiente a fornire alcun riscontro della
prospettata partecipazione della stessa al vincolo associativo de quo.
Analogamente, in relazione agli imputati Paolo Iuliano e Andrea Nocera, del tutto fantasiosa, ad avviso dei ricorrenti, deve ritenersi l’asserita partecipazione degli stessi al sodalizio criminoso descritto in sentenza, di per sé non comprovabile attraverso la sola attestazione della responsabilità di detti imputati per l’attività di spaccio
di stupefacenti dagli stessi esercitata; attività, peraltro, mai configurabile (come viceversa erroneamente indicato nella sentenza impugnata) in relazione a quantitativi qualificabili come ‘ingenti’, nella
prospettiva della corrispondente circostante aggravante nella specie
applicata.
Quanto a Laura Ruocchio, la stessa sarebbe stata coinvolta
dalla corte territoriale sulla base di un’erronea interpretazione del
presupposto costituito dal legame dalla stessa intrattenuto con la fa2.2. —

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miglia Nocera, giustificata esclusivamente da motivi sentimentali, o
dalla circostanza che la stessa si fosse accompagnata per qualche
tempo con altro soggetto coinvolto nell’illecito traffico (tale Ventimiglia); un coinvolgimento, peraltro, in ogni caso qualificabile entro i
limiti dell’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 73 d.p.r. n. 309/90
immotivatamente esclusa dai giudici del merito.
Da ultimo, tutti gli imputati ricorrenti si dolgono della mancata o incompleta concessione delle circostanze attenuanti generiche in
loro favore, con le conseguenti determinazioni ai fini di una più corretta individuazione della pena, in coerenza ai parametri di cui all’art.
133 c.p..
2.3. – Domenico Di Felice censura la sentenza impugnata per
vizio di motivazione e violazione di legge per avere la corte territoriale ascritto all’imputato la partecipazione all’associazione finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti a dispetto del ruolo marginale rivestito dallo stesso, quale semplice spacciatore impegnato nell’ambito
di un piccolo centro, del tutto ignaro dell’esistenza del sodalizio criminoso viceversa contestatogli come consapevolmente partecipato,
vieppiù sulla base di elementi di prova del tutto insufficienti a tal fine.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole che la corte territoriale
abbia immotivatamente escluso la riconducibilità del fatto all’ambito
della fattispecie di cui al sesto comma dell’art. 74 d.p.r. n. 309/90,
avuto riguardo alla modesta dimensione dell’attività di spaccio consumata, oltre alla mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche.
2.4. – Maria Addolorata Ianniello censura la sentenza d’appello
per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125
e 129 c.p.p., avendo la corte territoriale omesso di dettare alcuna motivazione sul mancato proscioglimento dell’imputata per talune delle
cause previste dall’art. 129 c.p.p..
2.5. – Antonio Zarrillo censura la sentenza impugnata per vizio
di motivazione in relazione agli artt. 74 d.p.r. n 309/90 e 192 c.p.p..
In particolare, si duole il ricorrente che la corte territoriale abbia affermato la responsabilità dell’imputato sulla base di elementi di

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prova nel loro complesso insufficienti a soddisfare i criteri di cui
all’art. 192 c.p.p., con particolare riferimento alla valutazione delle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, da condursi secondo i criteri messi a punto dalla giurisprudenza di legittimità.
Nel dettaglio, sottolinea il ricorrente come la corte territoriale
abbia trascurato la circostanza costituita dalla rilevata estraneità del
dichiarante Giacomo Nocera al clan Belforte, con la conseguente impossibilità per lo stesso di essere a conoscenza dei fatti narrati, additando Antonio Zarrillo quale cugino di Francesco Zarrillo e partecipe
del medesimo gruppo; e ciò, al di là dell’ulteriore significativa circostanza costituita dall’intervenuta condanna di Giacomo Nocera per
calunnia commessa ai danni del fratello Gianluca Nocera.
La stessa corte avrebbe omesso di spiegare le ragioni della ritenuta attendibilità del collaboratore Michele Froncillo condannato a
trent’anni di reclusione per omicidio senza l’attenuante della collaborazione e in relazione al quale l’autorità inquirente aveva chiesto l’ergastolo per le menzogne raccontate.
Tali rilievi appaiono, peraltro, ritenersi estensibili, secondo il
giudizio del ricorrente, ai collaboratori Antonio Gerardi e Pietro Nocera, autori di dichiarazioni tra loro del tutto contraddittorie e lacunose.
Del tutto singolare, ad avviso del ricorrente, deve ritenersi l’ulteriore circostanza secondo cui le dichiarazioni dei collaboratori, ritenute insufficienti a fondare la prova dei diversi episodi costituenti i
reati-fine, siano state poi ritenute idonee a giustificare la responsabilità dell’imputato in relazione alla partecipazione all’associazione destinata al traffico degli stupefacenti: contraddizione non adeguatamente superata dalle argomentazioni contenute nella motivazione
della sentenza impugnata.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole dell’avvenuto riconoscimento, a carico dell’imputato, della circostanza aggravante di cui
all’art. 71. n. 203/91, in assenza di una puntuale motivazione circa il
dolo specifico necessario ai fini della relativa configurazione, atteso
altresì il giudizio assolutorio pronunciato nei confronti dell’imputato
rispetto al ruolo di promotore dell’associazione criminale.
2.6. — Antonio Nocera censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 530 c.p.p.,

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avendo i giudici del merito ritenuto di riconoscere la responsabilità
dell’imputato sulla base dell’equivoco e incerto contenuto di conversazioni intercettate su un’utenza promiscuamente utilizzata dall’imputato e dal padre, esso stesso coinvolto nei fatti per cui si procede,
senza possibilità di distinguere con certezza quando fosse stato l’uno
o l’altro il reale protagonista dei dialoghi captati, né se l’oggetto delle
conversazioni fosse effettivamente costituito dallo scambio di sostanza stupefacente, stante la natura criptica del linguaggio adoperato
nelle conversazioni, non adeguatamente interpretate, sul piano logico, dai giudici del merito.
Sotto altro profilo il ricorrente censura la sentenza impugnata
per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 73,
co. 5, e 74, co. 6, d.p.r. n. 309/90, nonché in relazione all’art. 62-bis
C.p..
Sul punto, il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia
escluso la riconducibilità dei reati ascritti ad Antonio Nocera alla fattispecie di cui al quinto comma dell’art. 73 d.p.r. n. 309/90, avuto riguardo alla particolare levità dei fatti (caratterizzati da ridotta offensività); e tanto, sulla base di considerazioni inconferenti e del tutto
privi di condivisibilità.
Allo stesso modo, il ricorrente censura la sentenza impugnata
per aver escluso il ricorso della circostanza attenuante di cui all’art.
74, co. 6, d.p.r. n. 309/90, in forza di considerazioni non condivisibili
e non logicamente motivate.
2.7. – Anna Olivo censura la sentenza impugnata per violazione
della legge processuale (con la conseguente nullità della sentenza),
essendo stata omessa la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare al proprio difensore (avv.to Caputo del foro di
Velletri).
In particolare, i giudici del merito avevano erroneamente ritenuto sanata la mancata notificazione di detto avviso attraverso l’onere, imposto al sostituto di udienza, di provvedere all’inoltro dell’avviso di fissazione della nuova udienza al difensore sostituito.
Sotto altro profilo, la ricorrente censura la sentenza impugnata
per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli arti.
192, co. i e 3, c.p.p. e 74 d.p.r. n. 309/90.

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Sul punto, l’imputata si duole che la corte territoriale, così come il giudice di primo grado, abbiano ricostruito l’asserita partecipazione della stessa al sodalizio criminoso finalizzato al traffico degli
stupefacenti sulla base di elementi di prova del tutto inidonei a tale
scopo, avendo arbitrariamente ritenuto sussistente la prova della partecipazione della Olivo all’associazione de qua sulla base della sola
prova dei singoli reati-fine costituiti dalla cessione o rivendita di sostanza stupefacente, senza alcun ulteriore indice probatorio di riscontro della commissione anche del reato associativo alla stessa contestato: difetto segnatamente rilevante sul piano della prova dell’elemento soggettivo costituito dalla volontà di partecipazione alla compagine criminale.
Da ultimo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 62bis e 133 c.p., avendo la corte territoriale omesso di concedere
all’imputata le circostanze attenuanti generiche sulla base di una motivazione illogica e contraddittoria, irrispettosa dei principi e dei criteri di valutazione imposti dall’art. 133 c.p..
2.8. – Mara Modena censura la sentenza d’appello (con argomentazioni ulteriormente illustrate attraverso la memoria successivamente depositata) per violazione di legge e vizio di motivazione,
avendo la corte territoriale confermato la sentenza di primo grado
senza aver esaminato in modo specifico le censure dedotte dalla difesa avverso tale sentenza, con particolare riguardo alla dedotta equivocità del contenuto delle conversazioni telefoniche indicate come
asseritamente confermative del coinvolgimento dell’imputata nella
commissione del reato concernente la detenzione e il trasporto di sostanza stupefacente alla stessa contestati in concorso col marito, piuttosto qualificabile, al più, come un’ipotesi di favoreggiamento, e in
nessun caso riconducibile all’ipotesi aggravata dall’ingente quantità
dello stupefacente trattato, attesa la mancata conoscenza di tale
quantitativo da parte dell’imputata, viceversa meritevole della concessione della circostanza attenuante di cui al quinto comma dell’art.
73 d.p.r. n. 309/90.
2.9. — Eremigio Musone censura la sentenza impugnata per
violazione di legge in relazione agli artt. 34, co. 2, e 36, co. 1, lett. h),

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c.p.p., per avere la corte territoriale emesso il proprio giudizio nonostante due membri del collegio (Anna Di Mauro e Patrizia Cappiello)
avessero già manifestato, in altro e separato giudizio, il proprio convincimento in ordine alla responsabilità penale di numerosi imputati
del medesimo reato ascritto al Musone, ritenendo di separare le posizioni dei diversi imputati sull’erroneo presupposto dell’autonoma
considerabilità delle diverse condotte ascrivibili a ciascuno dei concorrenti nel medesimo reato.
A giudizio del ricorrente, viceversa, la natura necessaria del
concorso nel reato associativo avrebbe imposto di ritenere insufficiente il riferimento all’autonomia delle singole posizioni al fine di
escludere l’inevitabile condizionamento derivante dall’avvenuta
emissione del precedente giudizio.
In particolare, tale condizionamento emergerebbe con evidenza nella valutazione dello stretto e inscindibile rapporto tra il Musone
e Francesco Zarrillo (separatamente giudicato), ritenuto il promotore
dell’associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti contestata al
Musone, per come emerso sulla base delle dichiarazioni degli stessi
collaboratori di giustizia (richiamati nella motivazione della sentenza
impugnata e valutati come attendibili nel precedente processo) concordi nell’indicare, seppur genericamente, il Musone quale stretto e
diretto collaboratore di Francesco Zarrillo.
Sotto altro profilo, il ricorrente censura la sentenza impugnata
per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 73
e 74 d.p.r. n. 309/90, 192 c.p.p. 62-bis e 133 c.p..
In particolare, si duole il ricorrente dell’assoluta insufficienza
della motivazione relativa all’accertamento del reato associativo
ascritto al Musone, fondata esclusivamente sulle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia e sugli esiti dell’attività di captazione limitati
a un arco temporale di soli quattro mesi: dichiarazioni e conversazioni totalmente generiche ed erronee (a tacere della rivelata mancata
conoscenza del Musone da parte di alcuni collaboratori), oltre che
prive di adeguati riscontri obiettivi.
Allo stesso modo, la corte territoriale ha omesso di dettare
un’adeguata motivazione con riferimento ai reati di cui ai capi A14 e
Bi della rubrica, ritenuti comprovati, dai giudici del merito, sulla base dei risultati di conversazioni prive di alcuna univocità e chiarezza,
in alcune delle quali il Musone non risultava né presente, né quale

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diretto interlocutore dei dialoganti; così come, con riguardo al reato
associativo ascritto al Musone, la corte ha illogicamente scelto di seguire la decisione del giudice di prime cure di equiparare la posizione
dell’imputato a quella degli associati di primo livello, sulla base
dell’esito di conversazioni dalle quali è unicamente emerso un ruolo
piuttosto marginale del Musone, spesso assente dai dialoghi, e mero
spettatore, in quanto consumatore di stupefacenti e amico del Cappabianca, genericamente ascrivendo al Musone un ruolo attivo all’interno del sodalizio criminoso in assenza di idonea motivazione capace di astrarre, dalla comprovata attività relativa alla cessione di stupefacenti, la configurabilità di elementi concreti idonei ad attestare il
ricorso dell’ulteriore e diversa fattispecie associativa.
Analoga carenza motivazionale affliggerebbe, ad avviso del ricorrente, il riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art.
71. n. 203/91 in assenza di alcuna prova del dolo specifico di agevolazione dell’associazione di stampo mafioso, certamente non rinvenibile nella sola circostanza costituita dall’esistenza di rapporti tra il Musone e Francesco Zarrillo, quale referente del clan Belforte.
Da ultimo, il ricorrente si duole dell’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio allo stesso imposto, in assenza di una corretta
valutazione dei parametri di cui all’art. 133 c.p., che avrebbe viceversa
condotto al ridimensionamento della figura dell’imputato (sostanzialmente incensurato) e alla concessione in favore dello stesso delle
circostanze attenuanti generiche.
Lorenzo Di Palma censura la sentenza impugnata per
violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale
riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato espressamente
prefigurando, in capo allo stesso, il ruolo sostanziale di concorrente
esterno all’associazione criminale contestatagli, in contrasto con le
indicazioni del capo d’imputazione, là dove il fatto storico risulta sussunto nella previsione astratta di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/90 senza
alcun riferimento al disposto di cui all’art. 110 c.p..
Nella specie, la condotta e il ruolo del Di Palma, così come ricostruiti dai giudici del merito, avrebbero dovuto essere ricondotti
all’ipotesi del concorso eventuale esterno nel reato associativo, con la
conseguente violazione del principio di necessaria correlazione tra
accusa e sentenza imposto dall’art. 521 c.p.p., essendo stata viceversa
2.10. –

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riconosciuta, in capo al di Palma, la commissione del reato associativo di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/90 in difetto (ma anzi con l’espressa
esclusione) di alcun fatto concreto di partecipazione al sodalizio criminale.
Sotto altro profilo, il ricorrente censura la motivazione della
sentenza impugnata nella parte in cui non precisa come il semplice
concorso di persone nel reato di detenzione di sostanza stupefacente
possa essere elevato a prova dell’ipotesi associativa, o del ruolo
dell’imputato di intraneus nel sodalizio criminoso, ovvero nella parte
in cui non evidenzia i termini del rapporto tra l’affermata commissione, da parte dell’imputato (unitamente ad altri correi), di una serie
indeterminata di reati di importazione e di illecita detenzione di sostanza stupefacente e la contestazione del reato associativo, da ritenersi necessariamente riferito a forme o evidenze tutt’affatto diverse.
Mario Mastroianni censura la sentenza impugnata per
vizio di motivazione in relazione ai reati di cui al capi Ai e A2 della
rubrica, avendo i giudici del merito ritenuto la responsabilità penale
dell’imputato sulla base del contenuto di conversazioni intercettate
del tutto equivoco e incerto.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole del vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo A31
della rubrica, ascritto all’imputato esclusivamente in forza di una dichiarazione accusatoria di un imputato di reato connesso, tale Vincenzo Maiello, non adeguatamente analizzata, sul piano critico, secondo i principi di cui all’art. 192 c.p.p.; nonché del vizio di motivazione in relazione al reato di cui al capo B15 della rubrica, la cui prova
è stata asseritamente fornita dal contenuto di talune intercettazioni
telefoniche e dalle testimonianze di testi di polizia giudiziaria (che
hanno riferito circa gli esiti di un servizio di appostamento e controllo
effettuato sulle persone menzionate nel corso delle intercettazioni)
del tutto privi di reciproca valenza confermativa; nonché, infine, per
vizio di motivazione in relazione al reato di cui al capo A della rubrica, relativo alla pretesa partecipazione del M astroianni
all’associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, stante
l’assoluta assenza di alcuna prova idonea ad attestare l’effettiva adesione dell’imputato al sodalizio criminoso de quo.
2.11. –

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Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 62-bis
c.p., per avere la corte territoriale omesso di concedere all’imputato le
circostanze attenuanti generiche sulla base di un’erronea applicazione (anche in chiave comparativa) dei criteri di cui all’art. 133 c.p.,
nonché in relazione agli artt. 81 e 133 c.p., avendo la corte d’appello
omesso di dettare alcuna motivazione in ordine al rigetto della richiesta di applicazione del minimo aumento di pena per la continuazione
tra le varie ipotesi di reato contestate all’imputato.
Antonio Filippelli censura la sentenza d’appello per violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 115 e
229 c.p., per avere la corte territoriale del tutto erroneamente interpretato le risultanze istruttorie acquisite, da esse ricavando il ricorso
di un preteso accordo tra il Filippelli ed altri coimputati al fine di
commettere il reato di trasporto di sostanze stupefacenti, in tal modo
applicando ingiustificatamente, a carico dello stesso, la misura di sicurezza della libertà vigilata, senza peraltro neppure dettare alcuna
motivazione circa la decisione sull’adozione della misura, prevista,
dall’art. 115 c.p., come discrezionale e non obbligatoria.
2.12. –

2.13. – Con memoria depositata in data 21.6.2013, il difensore
di Ferdinando Cappabianca e di Eremigio Musone ha illustrato ulteriori argomentazioni a sostegno dei rispettivi motivi di ricorso riguardanti la violazione di legge in relazione agli artt. 34, co. 2, e 36,
co. 1, lett. h), c.p.p., con riferimento all’asserita incompatibilità di due
membri del collegio giudicante della corte d’Appello di Napoli.
2.14. – Con memoria depositata in data 24.6.2013, il difensore
di Mara Modena ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
2.15. – Con memoria pervenuta in data 13.8.2013, il difensore
di Mario Mastroianni ha proposto motivi aggiunti al ricorso già avanzato, invocando il riconoscimento dell’illegittimità della pena irrogata
a carico dell’imputato con riferimento ai capi Ai, A2 e 815, avuto altresì riguardo alla ritenuta illegittimità costituzione della legge n.
49/2006.

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Considerato in diritto
3.1. — Il ricorso di Ferdinando Cappabianca è infondato.
Dev’essere preliminarmente disattesa la doglianza avanzata
dal ricorrente con riguardo all’asserita incompatibilità (sia pure soggettivamente parziale) del collegio d’appello, per avere quest’ultimo,
in altro e diverso giudizio, espresso valutazioni e assunto decisioni
sulle posizioni di altri concorrenti nel medesimo reato associativo
contestato all’imputato.
Sul punto, la corte territoriale, già investita della questione nel
corso del giudizio d’appello, nel richiamare l’insegnamento di questa
corte di legittimità formatosi proprio con riguardo all’ipotesi criminosa di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/90 (Cass., Sez. 6, n. 39209/2005,
Rv. 232530; Cass., Sez. 6, n. 4297/2005, Rv. 233690), ha rilevato
come non costituisca causa d’incompatibilità ex art. 34 c.p.p. l’aver
espresso giudizi o assunto decisioni nei confronti di altri imputati
dello stesso reato, quando alla mera comunanza dell’imputazione faccia riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, tali da formare oggetto di autonome valutazioni, scindibili l’una dall’altra.
Di là da tale richiamo, peraltro, osserva il collegio, in termini
dirimenti, come la questione relativa all’incompatibilità del giudice,
là dove rilevata nel corso del giudizio, necessariamente trova la propria risoluzione, in via esclusiva, attraverso la promozione del procedimento di ricusazione (artt. 37 ss. c.p.p.), definito il quale (o una volta che ad esso si sia rinunciato), deve ritenersi non più consentito alla
parte il relativo rilievo in sede d’impugnazione (cfr., Cass., Sez. 6, n.
42707/2011, Rv. 250987 Cass., Sez. 6, n. 11483/1997, Rv. 209473).
Con riguardo alle censure riferite al tema della ricostruzione
probatoria della responsabilità dell’imputato (con particolare riguardo alla contestazione relativa al reato associativo ascritto al Cappabianca), varrà preliminarmente richiamare l’insegnamento di questa
corte in forza del quale, qualora i giudici d’appello abbiano esaminato
le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati
dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi
prese e ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione (come puntualmente avvenuto nel caso di specie), le sentenze di primo e
di secondo grado devono ritenersi tali da costituire, saldandosi tra
loro, un unico complesso motivazionale, destinato a concorrere uni-

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tariamente alla giustificazione delle decisioni adottate con riguardo
alla responsabilità dell’imputato e al trattamento sanzionatorio allo
stesso inflitto (cfr. Cass., Sez. 3, n. 13926/2011, Rv. 252615; Cass.,
Sez. 3, n. 10163/2002, Rv. 221116).
Ciò premesso (richiamate le ricostruzioni in fatto contenute
nelle sentenze di merito in ordine ai caratteri e alle finalità del sodalizio associativo contestato agli imputati e ai relativi legami logisticoorganizzativi con la più ampia struttura criminale risalente al c.d.
‘clan Belforte’), occorre evidenziare come del tutto correttamente i
giudici del merito abbiano raggiunto la prova della responsabilità del
Cappabianca, avendo gli stessi ritualmente corroborato le chiamate
in correità dei collaboratori di giustizia attraverso il riscontro fornito
dagli elementi di prova in larga misura tratti dal contenuto delle conversazioni ambientali e telefoniche intercettate, oltre che dagli esiti
dei sequestri di sostanza stupefacente realizzati nel corso delle attività di indagine compiute, in piena coerenza con il dettato dell’art. 192
c.p.p..
Sul punto, varrà richiamare il costante insegnamento di questa
corte di legittimità ai sensi del quale, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità, il giudice è tenuto, in primo luogo, i) ad
affrontare e risolvere il problema della credibilità del dichiarante in
relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socioeconomiche, al suo passato, ai suoi rapporti con il chiamato in correità, nonché alla genesi, prossima e remota, delle ragioni che lo hanno
indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e dei complici; 2) in
secondo luogo, a verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche
delle sue dichiarazioni, alla luce di criteri quali quelli, ad es., della
precisione, della coerenza, della costanza e della spontaneità; e infine
3) a procedere all’esame dei riscontri cosiddetti esterni (cfr., ex multis, Cass., Sez. 6, n. 16939/2011, Rv. 252630).
Al riguardo, i giudici del merito hanno evidenziato i criteri di
valutazione dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia richiamati a
fondamento dell’accertata responsabilità dell’imputato sulla base di
una motivazione pienamente congrua sul piano logico e lineare in
termini argomentativi, avendo dettagliatamente dato conto dell’assenza di contraddizioni nelle relative dichiarazioni, della relativa
complessiva coerenza, della mancata emersione di alcun motivo di
astio o di vendetta nei confronti dell’imputato o dei suoi antichi soda-

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li, senza alcun ‘appiattimento’ sulle prospettazioni accusatorie del
pubblico ministero, avendo i collaboratori sovente reso dichiarazioni
differenziate rispetto alla loro conoscenza o meno degli episodi delittuosi specifici o all’inserimento nel sodalizio criminale di alcuni degli
odierni imputati; indice, quest’ultimo, della verosimile assenza di una
previa artificiosa predisposizione delle versioni dei fatti così come riportate (cfr. fl. 6855. della sentenza d’appello).
In questo quadro, a mero titolo esemplificativo, la corte territoriale ha rimarcato come i collaboratori di giustizia Michele Froncillo, Vincenzo Maiello, Antonio Gerardi, Pietro Nocera e Giacomo Nocera si siano limitati a riferire dei soli episodi dei quali erano a diretta
conoscenza (come appartenenti al clan Belforte, oltre che in ragione
dei personali legami con taluni degli accusati), accusandosi in prima
persona di diversi reati, anche di rilevante gravità, modulando le
proprie rivelazioni in modo differenziato in dipendenza dell’effettiva
conoscenza diretta (o meno) dei diversi correi accusati, profondendosi in accurate e particolareggiate descrizioni di specifici episodi, tutti
coerenti con il personale vissuto di ciascuno di essi nel mondo del
traffico degli stupefacenti.
Il pieno coinvolgimento del Cappabianca (positivamente attestato dai collaboratori di giustizia) nel quadro dell’organizzazione piramidale facente capo al clan Belforte (al fine dell’importazione, diffusione, detenzione e spaccio di ingenti quantità di sostanze stupefacenti nell’area geografica della provincia di Caserta e nei luoghi specificamente indicati nei capi d’imputazione) ha inoltre trovato riscontro – di là dalla coordinazione delle medesime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tutte congruenti tra loro – nel contenuto delle
conversazioni ambientali e telefoniche intercettate e riportate nelle
motivazioni delle decisioni impugnate; conversazioni, la cui pregnanza significativa appare tale da costituire un’incontestabile conferma
delle rivelazioni rese dai collaboratori di giustizia.
Sul punto, varrà sottolineare come, in modo pertinente, i giudici del merito abbiano evidenziato, con riguardo alle richiamate
conversazioni (immediatamente riferite al Cappabianca, quale protagonista diretto dei dialoghi o riferimento immediato degli stessi),
l’avvenuto riconoscimento vocale dell’imputato; il riferimento delle
intercettazioni telefoniche all’utenza esistente presso l’abitazione dello stesso Cappabianca (unica persona di sesso maschile ivi residente:

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cfr. fl. 64 della sentenza d’appello); la ricorrenza dell’uso del nome
proprio dell’imputato; i continui riferimenti dei dialoganti alle quantità della merce destinata allo scambio, al carattere essenziale dei relativi connotati ponderali (cfr. fl. 67 con riguardo al pregnante significato assunto dal peso che normalmente avevano i panetti di hashish
trafficati dal gruppo in relazione alla conversazione del 15.6.2007 richiamata dal ricorrente con riferimento al reato di cui al capo A17
della rubrica) e ai relativi prezzi: il tutto, direttamente riscontrato dai
successivi sequestri di droga correlati alle conversazioni intercettate
(ivi, fl. 65).
Con particolare riguardo al tema della prova del reato associativo, rileva questa corte come del tutto correttamente il giudice d’appello abbia sottolineato l’avvenuta conferma probatoria del consapevole inserimento del Cappabianca nella struttura piramidale propria
del sodalizio criminoso descritto dai collaboratori di giustizia e della
relativa adesione al programma associativo di quello, attraverso la
significativa frequenza dei contatti tra i sodali, il continuo aggiornamento sulle relative sorti giudiziarie e il carattere diuturno dell’attività di gestione della droga (cfr. fl. 72 s. sent. appello), in tal senso adeguandosi con piena coerenza ai principi venutisi consolidando nella
giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini della configurabilità
dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, non è richiesto un patto espresso fra gli associati, ben potendo desumersi la prova del vincolo dalle modalità esecutive dei reati-fine e
dalla loro ripetizione, dai rapporti tra gli autori, dalla ripartizione dei
ruoli fra i vari soggetti in vista del raggiungimento di un comune
obiettivo e dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pure non
particolarmente complessa e sofisticata, indicativa della continuità
temporale del vincolo criminale (Cass., Sez. 6, n. 40505/2009, Rv.
245282),
Sul punto, mette ulteriormente conto di sottolineare come la
prova del reato associativo ben può essere tratta dall’intervenuto accertamento della commissione dei diversi reati-fine da parte degli associati, tanto desumendosi dall’insegnamento, che risale agli arresti
delle sezioni unite di questa corte (successivamente confermato dal
consolidato indirizzo sul punto seguito dalle sezioni semplici), secondo cui, in tema di reati associativi, è consentito al giudice (pur
nell’autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati fine) dedurre la pro-

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va dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti
rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive (in
termini di continuità dei contatti, frequenza degli aggiornamenti, familiarità e immediata reciproca comprensione dei linguaggi apparentemente criptici, etc.), posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Cass., Sez. Un., n.
10/2001, Rv. 218376, e successive conformi).
Le premesse così compendiate – in una all’accertata natura del
sodalizio facente riferimento al clan Belforte, secondo il paradigma di
cui all’art. 416-bis c.p. – valgono altresì a confermare la corretta ascrizione al Cappabianca del dolo specifico relativo alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/91, attesa l’evidente pregnanza significativa della condotta criminosa accertata a carico dell’imputato, i
cui connotati specifici valgono a predicarne una valenza intenzionale
inequivocabilmente diretta a realizzare, con il compimento dell’interesse criminoso coltivato in proprio, la sicura agevolazione delle finalità della più ampia associazione criminale concretamente supportata.
Quanto infine alle doglianze genericamente rappresentate dal
ricorrente, con riguardo alla mancata concessione delle attenuanti
generiche e alla commisurazione in concreto della pena, vale evidenziare come le stesse non individuino alcuna insufficienza o incongruità nello sviluppo logico della motivazione dettata nella sentenza impugnata, limitandosi a prospettare questioni di mero fatto o apprezzamenti di merito incensurabili in questa sede.
In thema, con riferimento al contestato diniego delle attenuanti generiche, è appena il caso di richiamare il consolidato (e qui
condiviso) indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza
di legittimità, ai sensi del quale la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di
fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle
sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa
motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere
sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati
nell’interesse dell’imputato (in termini, ex multis, Cass., n.
7707/2003, Rv. 229768).

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Quanto all’onere di motivazione sul punto imposto al giudice
del merito, è stato altresì precisato come ai fini dell’assolvimento
dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione
delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (in tal
senso, ex multis, v. Cass. n. 3772/94, Rv. 196880).
In particolare, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in
esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene
prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può
essere sufficiente in tal senso (così Cass., n. 3609/2011, Rv. 249163).
Analoghe considerazioni valgono per quel che riguarda l’entità
della pena, avendo la Corte distrettuale valutato il trattamento sanzionatorio imposto al Cappabianca come pienamente corrispondente
ai criteri di cui all’art. 133 c.p..
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha correttamente negato il ricorso di circostanze attenuanti generiche e valutato la congruità del complessivo trattamento sanzionatorio imposto al Cappabianca
dal giudice di primo grado, correlando tale giudizio alla ‘gravità
obiettiva dei fatti’, alla ‘pluralità delle condotte’ e al ‘ruolo rilevante’
dell’imputato, così radicando, il conclusivo giudizio espresso sul trattamento sanzionatorio, al ricorso di specifici presupposti di fatto coerenti alle previsioni di cui all’art. 133 c.p., sulla base di una motivazione in sé dotata di intrinseca coerenza e logica linearità.
3.2. – Il comune ricorso di Donato Carnevale, Maria Carnevale,
Paolo Iuliano, Andrea Nocera e Laura Ruocchio è infondato.
Con riguardo alla posizione di Donato Carnevale, la corte territoriale ha significativamente evidenziato come lo stesso sia stato direttamente coinvolto in numerose conversazioni (puntualmente intercettate) il cui contenuto risulta immediatamente e inequivocabilmente riferito alla detenzione, alla custodia e al trasporto di sostanza

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stupefacente, talora emerso in concorso con Ferdinando Cappabianca
(cfr. fl. 75 ss. sent. appello).
Tali circostanze sono state dalla corte adeguatamente e coerentemente valorizzate, nella prospettiva della partecipazione del
Carnevale al sodalizio criminoso allo stesso contestato, in connessione con le rivelazioni rese dal collaboratore Froncillo (sulla cui attendibilità v. supra par. 3.1.), il quale ha attestato come Donato Carnevale coordinasse la propria attività di detentore e custode di sostanze
stupefacenti nell’immediato e diretto interesse del Cappabianca, che
ne remunerava i servizi con periodicità mensile (cfr. fl. 78 sent. appello); e tanto, a conferma del carattere stabile e non occasionale della partecipazione del Carnevale agli interessi criminali perseguiti,
unitamente al Cappabianca, attraverso la comune struttura associativa di riferimento.
Quanto a Maria Carnevale, la relativa partecipazione al sodalizio criminoso ascrittole risulta correttamente comprovata dai giudici
del merito sulla base di una motivazione logicamente e coerentemente argomentata, avendo la corte territoriale eloquentemente negato
che l’imputata fosse stata coinvolta in un’unica isolata occasione nelle
conversazioni riguardanti lo scambio e la custodia dello stupefacente
trattato (cfr. fl. 79 ss. sent. appello), riproponendo il contenuto di una
pluralità di conversazioni durate le quali Maria Carnevale (quale immediato riferimento nelle conversazioni fra terzi, o quale diretta protagonista delle stesse) appare rivestire, senza alcun equivoco, il ruolo
di custode di sostanza stupefacente per conto e nell’interesse del fratello Ferdinando Cappabianca, rispetto alle cui richieste l’imputata
appare offrirsi con immediata e pronta disponibilità, senza perplessità o esitazioni di sorta (cfr. ivi, fl. 82), a conferma di una sperimentata e (conseguentemente) stabile collocazione della stessa al servizio
del gruppo criminale del quale lo stesso fratello costituiva un esponente significativamente collocato a livelli di elevata responsabilità.
Con riguardo a Paolo Iuliano e Andrea Nocera (le cui posizioni
sono state congiuntamente trattate avendo gli stessi costantemente
agito in unione tra loro: v. fl. 83 sent. appello), la corte territoriale ha
avuto cura di sottolineare come gli stessi fossero stati ripetutamente
intercettati nel quadro di numerose conversazioni aventi a oggetto il
relativo coinvolgimento in molteplici episodi di detenzione e spaccio
al dettaglio di sostanza stupefacente rifornita da Vincenzo Nocera

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(zio di Andrea Nocera e personaggio di spicco, unitamente a Ferdinando Cappabianca, dell’associazione criminale de quo: cfr. fl. 86
sent. appello).
Tali conversazioni – oltre ad aver confermato l’ingente quantità
della sostanza detenuta dagli stessi (oltre otto chili di hashish, circostanza per sé decisiva ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 8o d.p.r. n. 309/90: v. ivi, fl. 85) e la comunanza dei relativi affari (comprovata dal continuo riferimento ai guadagni ritratti dallo spaccio, dalle necessità di recupero dei crediti, della custodia o del recupero della droga) – hanno inoltre evidenziato (in
termini di coerente e logica rilevanza, ai fini della prova della partecipazione al sodalizio criminale loro contestato) un costante e ininterrotto contatto tra gli imputati e i membri dell’associazione criminale
oggetto dell’odierno giudizio, con continue richieste di aggiornamento sulle relative vicende giudiziarie, al di là delle ordinarie richieste
legate alle necessità dell’approvvigionamento dello stupefacente per
lo spaccio.
Tali elementi probatori, infine, hanno trovato un ulteriore e
definitivo riscontro nelle dichiarazioni rese dai collaboratori Pietro
Nocera e Giacomo Nocera (sulla cui attendibilità v. supra par. 3.1.), i
quali hanno inequivocabilmente ascritto ai due imputati il ruolo di
spacciatori al dettaglio nell’interesse e per conto di Vincenzo Nocera
(già indicato come personaggio di spicco, unitamente a Ferdinando
Cappabianca, dell’associazione criminale de quo), con la conseguente
intuibile instaurazione di un legame di stabile cointeressenza degli
stessi con le sorti e le comuni vicende del sodalizio criminoso così
partecipato.
Con riferimento a Laura Ruocchio, la corte territoriale ha evidenziato come (sulla base del contenuto delle conversazione captate e
riscontrate dal successivo arresto dell’imputata in possesso di sostanza stupefacente) la stessa fosse stata coinvolta in diversi episodi di
consegna di sostanza stupefacente nel quadro di un piano organizzato
a seguito di contatti con Vincenzo Nocera (su cui v. supra in questo
par.), e come l’atteggiamento e le condotte dalla stessa tenute rivelassero (secondo le logiche e ragionevoli deduzioni ricavate dai giudici
del merito) una stabile continuatività di rapporti con gli esponenti del
sodalizio criminoso oggetto d’esame, oltre che un sicuro credito di
fiducia riscosso presso i responsabili del gruppo, rivelato dalla collo-

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cazione della Ruocchio nel ruolo di affiancatrice di un soggetto (tale
Rosario Ventimiglia) poco noto al gruppo e impiegato quale corriere
della droga; tracce certe di un’intima contiguità della Ruocchio con il
sodalizio criminale, altresì confermate dalla dimostrata prontezza
della stessa nel disporsi a ottemperare, senza esitazioni, alle richieste
di Vincenzo Nocera, dirette a ottenerne la sicura collocazione nel ruolo di custode e di corriere dello stupefacente trattato dal gruppo.
Tali elementi di valutazione – connessi alla riscontrata circostanza dell’accesso liberamente goduto dalla Ruocchio alla droga custodita nell’interesse dell’associazione criminale (v. fl. 93-94 sent.
appello) e al ruolo così ben definito all’interno dell’organizzazione (di
cui la stessa Ruocchio ha mostrato di condividere le capacità di immediata comprensione del linguaggio criptico convenzionalmente
utilizzato dagli associati al fine di dissimulare le conversazioni più
sospette: cfr. ivi fl. 93) – devono ritenersi tali da giustificare pienamente l’attribuita partecipazione dell’imputata all’associazione criminosa alla stessa ascritta, in totale contrasto con le infondate censure critiche su tale specifico punto sollevate dall’odierna ricorrente.
Quanto infine alle censure dai ricorrenti riferite alla mancata
concessione delle attenuanti generiche (per coloro che non ne hanno
usufruito) e alla commisurazione in concreto della pena, è appena il
caso di evidenziare (recuperando le argomentazioni sul medesimo
punto già sviluppate nella parte finale del superiore par. 3.1.) come la
corte territoriale abbia, in relazione ai ricorrenti, evidenziato la congruità del trattamento sanzionatorio loro inflitto dal primo giudice
(ivi compresa la mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche nei casi previsti) sulla base del richiamo alla concreta gravità dei fatti accertati, alla continuità nel tempo delle condotte criminose, ai precedenti riscontrati (là dove indicati) o alla concreta rilevanza del ruolo rivestito nell’ambito del sodalizio criminoso, in tal
senso radicando, il conclusivo giudizio espresso sul trattamento sanzionatorio, al ricorso di specifici presupposti di fatto coerenti alle
previsioni di cui all’art. 133 c.p., sulla base di una motivazione in sé
dotata di intrinseca coerenza e logica linearità.
3.3. — Il ricorso di Domenico Di Felice è infondato.
Con riferimento alla posizione del Di Felice, la corte territoriale, sulla base delle dichiarazioni rese dal collaboratore Vincenzo

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Maiello, ha osservato come l’imputato fosse da tempo inserito
nell’ambito della struttura associativa oggetto dell’odierno esame, in
essa rivestendo il ruolo di acquirente-spacciatore.
In particolare, il Maiello ha specificato come il Di Felice acquistasse la droga tramite Vincenzo Nocera, quindi destinandola alla
vendita a Casapulla, trattenendo per sé, sul ricavato della vendita,
una percentuale; un’attività, dunque, caratterizzata in termini di ripetitività e costanza, significativa di uno stabile e radicato rapporto del
Di Felice, e dello stesso collaboratore di giustizia, con il venditore
Vincenzo Nocera (su cui v. supra par. 3.2.): stabilità a sua volta confermata attraverso le convergenti dichiarazioni sul punto rese
dall’altro collaboratore, Giacomo Nocera (v. fi. 96 sent. appello).
Con riguardo alla doglianza dell’imputato riferita alla pretesa
relativa mancanza di consapevolezza di partecipare al sodalizio criminoso in esame, del tutto correttamente il giudice d’appello ha richiamato l’insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del
quale la partecipazione all’associazione criminosa non richiede la
precisa conoscenza (e, tanto meno, la deliberazione) di tutte le attività che rientrano nel suo programma, di per sé indeterminato, essendo sufficiente la consapevolezza del partecipe della natura illecita di
tali attività; egli infatti è responsabile dell’attività associativa che
svolge e dei reati-fine alla cui deliberazione concorre, per cui, allorché
l’associazione sia dedita al traffico di stupefacenti, il partecipeacquirente stabile risponde del contributo dato in tale qualità alla vita
e all’azione dell’associazione criminale (Cass., Sez. 6, n. 5405/2009).
In tal senso, il reato di partecipazione a un’associazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti può ravvisarsi anche
relativamente alla posizione dello stabile acquirente della sostanza
stupefacente dall’associazione. In tal caso, infatti, la contrapposizione
tra i soggetti tipica dello schema contrattuale sinallagmatico resta superata e assorbita nel rapporto associativo, per l’interesse preminente
dei protagonisti dello scambio alla stabilità del rapporto, che assicura
la certezza del contraente sia all’associazione, che trova la garanzia
della disponibilità dell’acquirente della sostanza stupefacente commerciata, sia all’acquirente, che deriva dal rapporto associativo la certezza della fornitura (Cass., Sez. 6, n. 5405/2009, cit.).
Al riguardo, peraltro, la corte territoriale ha altresì individuato, a conferma dell’appartenenza del Di Felice al sodalizio criminale

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in esame, gli ulteriori elementi probatori costituiti dagli accertati
rapporti dallo stesso intrattenuti con altri sodali e dal manifestato interessamento per le vicende del gruppo, oltre e al di là del semplice
rapporto personale dal Di Felice mantenuto con Vincenzo Nocera per
l’immediato approvvigionamento dello stupefacente (cfr. fl. 97 sent.
appello).
Deve ritenersi, da ultimo, logicamente e congruamente argomentata la decisione della corte territoriale in relazione all’esclusione
dell’ipotesi lieve di cui al sesto comma dell’art. 74 d.p.r. n. 309/90,
avendo i giudici del merito evidenziato come l’attività di spaccio posta in essere dall’imputato rivelasse un intrinseco ed elevato grado di
offensività, avuto riguardo al carattere fiorente dell’attività sviluppata
attraverso collaudate modalità di acquisto e vendita, tali da destare
particolare allarme sociale, si dà escludere, per la gravità dei fatti accertati e per la rilevanza dell’apporto fornito dall’imputato
all’associazione criminale de qua, la concedibilità, in favore dello
stesso, delle circostanze attenuanti generiche.
3.4. — Dev’essere del pari disatteso il ricorso proposto da Maria Addolorata Ianniello.
Al riguardo, è appena il caso di evidenziare come la corte territoriale abbia ricostruito gli elementi probatori indicati a fondamento
della ritenuta responsabilità dell’imputata sulla base di una motivazione completa ed esauriente, immune da vizi d’indole logica o giuridica in relazione a ciascuno dei singoli episodi criminosi alla stessa
ascritti, sì da sottrarsi integralmente alle contestazioni ancora in questa sede avanzate dalla ricorrente.
3.5. — Il ricorso di Antonio Zarrillo è infondato.
Con l’impugnazione proposta in questa sede, Antonio Zarrillo
si duole della ritenuta attendibilità, da parte dei giudici del merito,
delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, ad onta delle
specifiche circostanze di fatto partitamente individuate dal ricorrente
come pretesamente ostative al riconoscimento della ridetta attendibilità dei collaboratori Giacomo Nocera, Michele Froncillo, Antonio Gerardi e Pietro Nocera.
A tale riguardo, osserva questa corte come secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della

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correttezza e della logicità della motivazione della sentenza, non occorre che il giudice di merito dia conto, in essa, della valutazione di
ogni deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali soluzioni
diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma
è indispensabile che egli indichi le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai fini del suo convincimento, e quindi della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile con ragionamento logico e
argomentato (cfr. Cass., Sez. i, n. 1685/1998, Rv. 210560; Cass., Sez.
6, n. 11984/1997, Rv. 209490), sempre che non emergano elementi
obiettivi idonei a giustificare il ricorso di un ragionevole dubbio sulla
responsabilità dell’imputato.
Tale principio, in particolare, appare coerente con il circoscritto orizzonte riservato all’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, dovendo il sindacato demandato alla Corte di
cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari
punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso
per sostanziare il suo convincimento.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una
`rilettura’ degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione,
la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito,
senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione
di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (v. Cass., Sez. Un., n. 6402/1997, Rv. 207944, ed
altre di conferma).
In altri termini, una volta accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito, non è consentito alla Corte di cassazione prendere in considerazione, sub specie di vizio motivazionale, la diversa valutazione delle risultanze processuali prospettata dal ricorrente secondo il proprio soggettivo punto di vista (Cass.,
Sez. 1, n. 6383/1997, Rv. 209787; Cass., Sez. i, n. 1083/1998, Rv.
210019).
Nel caso di specie (come già in precedenza evidenziato: v, supra par. 3.1.), la corte territoriale ha esplicitamente evidenziato i criteri di valutazione utilizzati ai fini dell’accertamento dell’attendibilità
dei collaboratori di giustizia richiamati a fondamento dell’accertata

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responsabilità dell’imputato; e tanto, sulla base di una motivazione
pienamente congrua sul piano logico e lineare in termini argomentativi, avendo dettagliatamente dato conto dell’assenza di contraddizioni nelle relative dichiarazioni, della relativa complessiva coerenza,
della mancata emersione di alcun motivo di astio o di vendetta nei
confronti dell’imputato o dei suoi antichi sodali, senza alcun ‘appiattimento’ sulle prospettazioni accusatorie del pubblico ministero,
avendo i collaboratori sovente reso dichiarazioni differenziate rispetto alla loro conoscenza o meno degli episodi delittuosi specifici o
all’inserimento nel sodalizio criminale di alcuni degli odierni imputati; indice, quest’ultimo, della verosimile assenza di una previa artificiosa predisposizione delle versioni dei fatti così come riportate (cfr.
fl. 68 ss. della sentenza d’appello).
In questo quadro, a mero titolo esemplificativo, la corte territoriale ha rimarcato come i collaboratori di giustizia Michele Froncillo, Vincenzo Maiello, Antonio Gerardi, Pietro Nocera e Giacomo Nocera si siano limitati a riferire dei soli episodi dei quali erano a diretta
conoscenza (come appartenenti al clan Belforte, oltre che in ragione
dei personali legami con taluni degli accusati), accusandosi in prima
persona di diversi reati, anche di rilevante gravità, modulando le
proprie rivelazioni in modo differenziato in dipendenza dell’effettiva
conoscenza diretta (o meno) dei diversi correi accusati, profondendosi in accurate e particolareggiate descrizioni di specifici episodi, tutti
coerenti con il personale vissuto di ciascuno di essi nel mondo del
traffico degli stupefacenti.
Con particolare riguardo alla posizione di Antonio Zanillo, la
corte territoriale ha richiamato le diverse dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia evidenziando come ciascuno di essi avesse riferito attorno allo specifico ‘ruolo apicale’ rivestito dall’imputato nella
‘gestione del fumo’ (cfr. fl. un sent. appello) in seno al sodalizio criminale, sottolineando come tutte le dichiarazioni fossero convergenti
tra loro e riscontrate da una serie di elementi individualizzati, primo
fra tutti il dato, di non poco conto, secondo cui Antonio Zaffillo sostituisse “il cugino quando questi veniva arrestato”, oltre al “ruolo riconosciutogli all’interno del clan, occupandosi l’imputato della vendita
della droga, prima di quella leggera e poi di quella pesante” (cfr. ivi fl.
102).

25

La stessa corte, inoltre, ha respinto i rilievi difensivi in ordine
alla pretesa inattendibilità di Giacomo Nocera (in quanto soggetto
asseritamente non interno al clan e quindi non a conoscenza dei fatti), evidenziando come la smentita di tale asserzione si rivelasse
dall’ammissione, resa dello stesso collaboratore, di aver del fatto parte del clan Belforte dal 1996 al 2000, legato a Francesco Zarrillo, e dal
2000 al 2006 con Michele Froncillo, a nulla rilevando l’affermazione
di esser stato obbligato ad acquistare lo stupefacente da Francesco
Zarrillo, atteso che proprio tali modalità operative appaiono tali da
evidenziare in ogni caso una situazione di stabilità di rapporti e di
comunanza di interessi, sì da giustificare in modo pieno e concreto
l’effettiva conoscenza, da parte del Nocera, dell’ambiente criminale di
Francesco Zarrillo e dei relativi collaboratori, tra i quali l’odierno imputato.
Un’identica misura di coerenza logica e di linearità argomentativa sostiene la motivazione dettata dalla corte d’appello in relazione
alla riconosciuta attendibilità dei collaboratori Pietro Nocera e Antonio Gerardi, dei quali la corte ha precisato l’effettivo contenuto delle
dichiarazioni (nel primo caso riportate in modo inesatto dalla difesa
dell’imputato) ricostruendone i termini nel senso della reciproca convergenza a sostegno della prova della responsabilità dell’imputato per
il reato associativo allo stesso ascritto (cfr. fl. 103 ss. sent. appello).
Quanto alla censurata riconducibilità della prova del reato associativo al rilievo dell’avvenuta commissione dei singoli reati-fine, è
appena il caso di richiamare (di là dalle indicate fonti di prova diretta
dell’ascrivibilità, a carico di Antonio Zarrillo, del ruolo di partecipe
dell’associazione criminale oggetto del processo) i principi sul punto
statuiti dalla giurisprudenza di legittimità e già in precedenza ricordati, secondo cui, ai fini della configurabilità dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e della prova del consapevole inserimento dell’imputato nel sodalizio, non è richiesto un
patto espresso fra gli associati, ben potendo desumersi la prova del
vincolo dalle modalità esecutive dei reati-fine e dalla loro ripetizione,
dai rapporti tra gli autori, dalla ripartizione dei ruoli fra i vari soggetti
etc. (v. supra par. 3.1.).
Tali premesse valgono altresì a confermare – in una all’accertata natura del sodalizio facente riferimento al clan Belforte, secondo il
paradigma di cui all’art. 416-bis c.p. – la corretta ascrizione ad Anto-

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nio Zarrillo del dolo specifico relativo alla circostanza aggravante di
cui all’art. 7 1. n. 203/91, attesa l’evidente pregnanza significativa della condotta criminosa accertata a carico dell’imputato, i cui connotati
specifici valgono a predicarne una valenza intenzionale inequivocabilmente diretta a realizzare, con il compimento dell’interesse criminoso coltivato in proprio, la sicura agevolazione delle finalità della
più ampia associazione criminale concretamente supportata.
3.6. — Il ricorso di Antonio Nocera è infondato.
La corte territoriale ha proceduto in modo puntuale e analitico
all’indicazione delle ragioni della certa identificazione dell’imputato
quale interlocutore delle conversazioni telefoniche intercettate poste
a base del riconoscimento della relativa responsabilità penale.
E invero, richiamando le compiute ricostruzioni del giudice di
prime cure, la corte d’appello ha identificato le utenze direttamente
riferibili ad Antonio Nocera, discriminando i casi in cui il medesimo
ha utilizzato i telefoni cellulari del padre, Vincenzo Nocera, attraverso
il riconoscimento vocale compiuto dagli operanti, i quali, ascoltati
come testi, hanno giustificato la propria competenza ricognitiva
avendo per mesi proceduto all’ascolto di numerose conversazioni, acquisendo una sicura capacità di intendimento e di identificazione delle voci, degli intercalari e dei toni propri di ognuno degli intercettati,
in tal senso fornendo, in termini di logica ragionevolezza, le premesse
per l’attribuzione, in loro favore, di una piena attendibilità sul piano
della capacità di riconoscimento e di individuazione dei conversanti
intercettati (e, fra questi, dell’odierno ricorrente).
Sul punto è appena il caso di richiamare il principio statuito da
questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema d’intercettazioni
telefoniche, qualora sia contestata l’identificazione delle persone colloquianti, il giudice non deve necessariamente disporre una perizia
fonica, ma può utilizzare ai fini della decisione le dichiarazioni dagli
ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito
sul riconoscimento delle voci di taluni imputati (Cass., Sez. 6, n.
18453/2012, Rv. 252712).
Anche sul piano dei contenuti delle conversazioni, la corte
d’appello ha puntualmente specificato, sulla base di una motivazione
logicamente congrua e del tutto conseguente sul piano argomentativo, come il linguaggio utilizzato dagli interlocutori intercettati, nelle

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conversazioni nelle quali Antonio Nocera compare quale protagonista, dovesse ritenersi inequivocabilmente riferito, per ciascuno degli
episodi partitamente e analiticamente esaminati dai giudici del merito, allo scambio o comunque al traffico di sostanze stupefacenti.
Al riguardo, la natura criptica del linguaggio utilizzato dai
conversanti deve ritenersi tale da non ostacolare il ragionevole riconoscimento, nelle quantità di sostanza stupefacente trattata, del contenuto delle conversazioni intercorse, avuto riguardo al generale contesto in cui tali conversazioni sono andate sviluppandosi (ossia nel
quadro di rapporti con soggetti palesemente identificati e accertati
come trafficanti di stupefacenti) e tenuto conto della circostanza che
il carattere allusivo, talora criptico o simbolico, del linguaggio adoperato dai conversanti (del cui contenuto, apparentemente privo di alcun significato, l’imputato non ha mai fornito una versione alternativa, o comunque esplicativa) rafforza la ragionevole conclusione che la
velocità d’intesa tra i conversanti, nonostante le poche e criptiche sillabe pronunciate nei dialoghi captati, fosse indicativa di convenzioni
sviluppatesi e consolidatesi attraverso continue e analoghe relazioni
di illecito contenuto, a sua volta confermate dai riferimenti alla qualità e alle quantità, oltre che al valore economico delle ‘merci’ trattate.
A ulteriore conferma delle obiettive indicazioni rivenienti dal
contenuto delle conversazioni intercettate (sul piano dell’attestazione
della responsabilità penale di Antonio Nocera), la corte territoriale ha
altresì indicato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Giacomo Nocera, che ha espressamente indicato l’odierno ricorrente quale
diretto protagonista dell’attività di spaccio svolta a Marcianise dalle
persone dallo stesso individuate.
L’apporto sicuramente rilevante fornito dal ricorrente per la
realizzazione delle finalità proprie dell’associazione criminale dallo
stesso partecipata e la condivisione con il padre degli interessi legati
alla realizzazione delle numerose condotte di traffico di stupefacenti
cui l’imputato si è reso protagonista, sono stati giudicati dai giudici
del merito — con motivazione dotata di coerente linearità – idonei a
escludere il ricorso delle circostanze attenuanti di cui al quinto
comma dell’art. 73 d.p.r. n. 309/90 e di cui al sesto comma dell’art.
74 d.p.r. n. 309/90, avuto particolare riguardo ai rilevanti quantitativi di sostanza stupefacente movimentata dal gruppo criminale e al
carattere fiorente dell’attività posta in essere dall’imputato, sviluppa-

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3.7. — Il ricorso di Anna Olivo è infondato.
Preliminarmente, dev’essere disattesa l’eccezione di ordine rituale rinnovata in questa sede dalla ricorrente con riferimento alla
pretesa inidoneità della comunicazione del nuovo avviso di fissazione
dell’udienza preliminare al difensore di fiducia dell’imputata (siccome direttamente comunicato al solo sostituto processuale presente in
udienza per sollevare l’eccezione relativa al primo avviso), avendo i
giudici del merito a tal fine correttamente richiamato il consolidato
insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del quale il sostituto del difensore in udienza, oltre ad esercitare tutti i diritti, assume
altresì tutti i doveri del difensore, ivi compreso quello riguardante la
dovuta acquisizione (e trasmissione al dominus) delle informazioni e
degli avvisi relativi alla scansione dei tempi processuali ritualmente
ricevuti in udienza, tenuto conto che la legge processuale neppure accorda rilevanza ad alcun tipo di limitazione eventualmente apposta,
alle prerogative del sostituto, dal difensore di fiducia (Cass., Sez. 3, n.
7458/2008, Rv. 239010; Cass., Sez. 2, n. 40230/2005, Rv. 232663;
Cass., Sez. 4, n. 4690/2001, Rv. 220867; Cass., Sez. 5, n. 14115/1999,
Rv. 216105).
Nel merito, quanto alla contestata dimostrazione dell’effettiva
partecipazione dell’imputata all’associazione criminale alla stessa
ascritta sulla base della sola prova (qui indiscussa) della commissione
dei reati-fine, o alla mancata dimostrazione dell’elemento soggettivo
di partecipazione al sodalizio criminoso, vale richiamare quanto già
in precedenza sottolineato sul punto (v. supra parr. 3.1. e 3.5.).
Con particolare riguardo alla posizione della Olivo, la corte
territoriale ha suffragato la prova della partecipazione della stessa
all’associazione criminale de qua sulla base del contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate richiamate in sentenza, dalle quali
emerge con chiarezza l’evidente considerazione della Olivo (da parte
di elementi di spicco dell’associazione) quale elemento integrante del
sodalizio medesimo (cfr. fl. 117 sent. appello).
Sotto altro profilo (concernente la pretesa mancata consapevolezza della donna di partecipare al sodalizio criminoso in esame), la
lampante dimostrazione del continuativo e stabile ruolo della Olivo

ta attraverso collaudate modalità di acquisto e di vendita e, come tale,
idonea a destare il ricorso di un particolare allarme sociale.

quale acquirente (a fini di spaccio) di sostanza stupefacente dagli
esponenti dell’associazione vale a concretizzare il principio (già in
precedenza richiamato) ai sensi del quale la partecipazione all’associazione criminosa non richiede la precisa conoscenza (e, tanto meno,
la deliberazione) di tutte le attività che rientrano nel suo programma,
di per sé indeterminato, essendo sufficiente la consapevolezza del
partecipe della natura illecita di tali attività (cfr. supra par. 3.3.).
Deve ritenersi, da ultimo, logicamente e congruamente argomentata la decisione della corte territoriale relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in favore
dell’imputata, avendone i giudici del merito coerentemente legato la
giustificazione al lungo periodo di partecipazione dell’imputata al sodalizio criminale, oltre al decisivo rilievo dei precedenti penali, anche
specifici, della stessa, così radicando, il conclusivo giudizio espresso,
al ricorso di specifici presupposti di fatto coerenti alle previsioni di
cui all’art. 133 c.p., sulla base di una motivazione in sé dotata di intrinseca coerenza e logica linearità.
3.8. — Il ricorso di Mara Modena è infondato.
L’accertamento della responsabilità penale della ricorrente in
relazione all’episodio alla stessa ascritto in sentenza è stato raggiunto
dai giudici del merito sulla base di un’attendibile e logicamente coerente ricostruzione dei contenuti delle conversazioni telefoniche intercettate (e riportate nelle motivazioni della sentenza impugnata) tra
la stessa imputata e il marito, Pasquale Cocchiaro, oltre che delle
conversazioni intercorse tra altri soggetti aventi quale contenuto la
trattazione della specifica vicenda in esame relativa alla detenzione e
al trasporto di un’ingente quantità di sostanza stupefacente.
In particolare, la corte territoriale ha evidenziato come l’atteggiamento della Modena rispetto alle indicazioni del marito fosse chiaramente espressivo di una piena condivisione, oltre che delle finalità
del viaggio legato al trasporto dello stupefacente, della conoscenza di
tutti i soggetti coinvolti nell’operazione, dei quali i conversanti hanno
prudentemente omesso l’espressa menzione, per via telefonica, essendo evidentemente sottintesa la piena comprensione, tra gli interlocutori, della relativa identità: circostanze vieppiù confermate dalla
rilevata successiva attivazione dell’odierna ricorrente nel porre in
contatto il marito (protagonista del trasporto dello stupefacente) con

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i propri sodali, allo scopo di definire le modalità operative più opportune per la migliore conduzione in porto dell’operazione in corso.
La corte territoriale ha altresì escluso che la condotta della
Modena potesse integrare il diverso reato di favoreggiamento (anziché il concorso nel reato di detenzione e trasporto illeciti dell’ingente
quantità di sostanza stupefacente), correttamente sottolineando come il delitto di favoreggiamento personale necessariamente presuppone che il soggetto attivo non sia stato coinvolto, né obiettivamente
né soggettivamente, nella realizzazione del reato presupposto (Cass.,
Sez. 6, n. 21439/2008, Rv. 240062), e che lo stesso non abbia fornito
un contributo causale decisivo per la commissione del reato (Cass.,
Sez. 6, n. 37170/2008, Rv. 241209): circostanze, queste ultime, pienamente non riscontrabili nel caso di specie, avuto riguardo al fattivo
(e causalmente rilevante) contributo fornito dalla Modena per la realizzazione dell’operazione illecita de qua.
In termini di corrispondente congruità, sul piano logicogiuridico, la corte territoriale ha escluso il ricorso, nel caso di specie,
dell’ipotesi lieve di cui al quinto comma dell’art. 73 d.p.r. n. 309/90
(viceversa riconoscendo, a carico della Modena, la circostanza aggravante di cui all’art. 8o d.p.r. n. 309/90), avuto riguardo al rilevante
quantitativo di sostanza stupefacente movimentata, che i giudici del
merito hanno coerentemente ritenuto ricompreso nel quadro delle
consapevolezze dell’imputata, tanto logicamente desumendo anche
dalla circostanza del lungo viaggio intrapreso dall’estero per il trasporto dello stupefacente: impresa da ritenersi certamente priva di
alcuna ragionevolezza ove si fosse trattato del trasporto dall’estero di
una minima quantità di sostanza (cfr. fl. 123 sent. appello).
3.9. – Il ricorso di Eremigio Musone è infondato.
Con riguardo alle doglianze avanzate dall’imputato con
l’originario ricorso per cassazione (e riproposte con la memoria successivamente depositata) in ordine all’asserita incompatibilità (sia
pure soggettivamente parziale) del collegio d’appello, per avere
quest’ultimo espresso valutazioni e assunto decisioni sulle posizioni
di altri concorrenti nel medesimo reato associativo contestato
all’imputato, ritiene la corte di poter qui richiamare le medesime argomentazioni illustrate, sullo stesso punto, con riguardo alla posizione di Ferdinando Cappabianca (v. supra par. 3.1.).

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Del pari privo di fondamento deve ritenersi il motivo di ricorso
illustrato dal Musone con riguardo alla pretesa inidoneità della motivazione relativa all’accertamento del reato associativo allo stesso
ascritto, siccome insufficientemente fondato sulle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia e sugli esiti dell’attività di captazione telefonica e ambientale, nonché in relazione agli altri episodi criminosi indicati in ricorso, ritenuti comprovati, dai giudici del merito, sulla base dei risultati di conversazioni prive di alcuna univocità e chiarezza.
E invero, la corte territoriale ha accuratamente riproposto,
nell’ordinata disposizione delle conversazioni telefoniche e ambientali intercettate contenuta nella motivazione del provvedimento impugnato, il contesto entro il quale la figura del Musone è apparsa inserita con caratteri di certezza e univocità (la stessa corte ha dato conto
della spontanea rivelazione del Musone d’essere effettivamente il
protagonista delle intercettazioni allo stesso addebitate, in cui il medesimo veniva chiamato come ‘Cirù’, ‘Ginù’ e, talvolta, ‘Gino’: cfr. fl.
124 sent. appello): un contesto legato alla conduzione di evidenti trattative coltivate ai fini del traffico di quantità di sostanza stupefacente
(segnatamente in relazione agli specifici episodi criminosi di cui ai
capi A14 e Bi della rubrica, richiamati dal Musone nell’odierno ricorso), nel quale il ricorrente è ripetutamente apparso nel ruolo di diretto interessato, essendo stato più volte richiamato, attraverso
l’indiretto riferimento nell’ambito delle conversazioni tra terzi, nonché attraverso il personale coinvolgimento nelle conversazioni e, infine, attraverso la personale partecipazione a episodi o segmenti di attività coerentemente collegate al contenuto delle conversazioni captate e univocamente riferibili al compimento di attività di distribuzione
di sostanza stupefacente.
Sullo sfondo del quadro probatorio tracciato dalle conversazioni telefoniche e ambientali – già di per sé largamente compromettente in relazione alla figura del ricorrente (del quale è stata evidenziata la sicura padronanza del linguaggio criptico reiteratamente utilizzato con canoni e metodiche ripetitive e costanti dai partecipanti al
sodalizio criminoso) -, la successiva individuazione dei comportamenti concreti, delle condotte o dei segmenti di attività alle quali
l’odierno ricorrente ha personalmente partecipato (per il trasporto e
la cessione dello stupefacente trattato), costituisce un indiscutibile
supporto di riscontro dotato di obiettiva e univoca concretezza, tale

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da confortare in modo pienamente congruo il ragionamento probatorio condotto dai giudici del merito secondo linee argomentative coerenti e del tutto consequenziali tra loro.
Quanto alla censura sollevata dal ricorrente in relazione alla
ricostruzione della propria posizione quale associato ‘di primo livello’
(a dispetto dell’asserito ruolo solo marginale dello stesso, in quanto
consumatore di stupefacenti e amico del Cappabianca) – richiamate le
argomentazioni in precedenza illustrate circa la legittimità dell’acquisizione della prova della commissione del reato associativo mediante
la prova dell’avvenuta consumazione dei singoli reati-fine (secondo
modalità esecutive e circostanze specificamente caratterizzate in termini di significativa ripetitività: v. supra par. 3.1.) -, occorre rilevare
come la corte territoriale ne abbia coerentemente smentito il riscontro, attraverso il richiamo delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (sui termini della cui attendibilità v. supra par. 3.1.), i quali
hanno tutti, secondo narrazioni pienamente congruenti tra loro, riconosciuto al Musone il ruolo di distributore dello stupefacente nell’area del casertano (rifornito da Francesco Zartillo) collocato a un livello di primo piano negli stessi rapporti con gli esponenti del clan Belforte e della longa manus di questo impersonato da Francesco Zarrillo, in tal senso inducendo a escludere in termini radicali la riducibilità del relativo ruolo a un piano solo marginale.
Proprio la specifica posizione associativa del Musone (posto a
stretto contatto con Francesco Zarrillo, quale longa manus del clan
Belforte) vale altresì a confermare – in una all’accertata natura del sodalizio facente riferimento al clan Belforte, secondo il paradigma di
cui all’art. 416-bis c.p. – la corretta ascrizione a Eremigio Musone del
dolo specifico relativo alla circostanza aggravante di cui all’art. 71. n.
203/91, attesa l’evidente pregnanza significativa della condotta criminosa accertata a carico dell’imputato, i cui connotati specifici valgono a predicarne una valenza intenzionale inequivocabilmente diretta a realizzare, con il compimento dell’interesse criminoso coltivato in proprio, la sicura agevolazione delle finalità della più ampia associazione criminale concretamente supportata.
Deve ritenersi, da ultimo, logicamente e congruamente argomentata la decisione della corte territoriale relativa al trattamento
sanzionatorio complessivo e alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in favore dell’imputato, avendone i giudi-

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ci del merito coerentemente legato la giustificazione al lungo periodo
di partecipazione dell’imputato al sodalizio criminale, oltre al decisivo rilievo della gravità obiettiva dei fatti e alla personalità dell’imputato, caratterizzata da una rilevante capacita criminale (cfr. fl. 128
sent. appello), così radicando, il conclusivo giudizio espresso, al ricorso di specifici presupposti di fatto coerenti alle previsioni di cui
all’art. 133 c.p., sulla base di una motivazione in sé dotata di intrinseca coerenza e logica linearità.
3.10. — Il ricorso di Lorenzo Di Palma è infondato.
Diversamente da quanto sostenuto dall’odierno ricorrente, la
corte territoriale ha espressamente ascritto al Di Palma, accanto alla
commissione di alcuni episodi concernenti il traffico di sostanza stupefacente, l’ipotesi della diretta partecipazione al sodalizio criminoso
rivolto alla realizzazione di tale finalità, espressamente escludendo la
fondatezza della prospettazione dell’imputato incline a qualificare la
propria condotta quale (eventuale) forma di concorso esterno
nell’associazione criminale, con la conseguente esclusione di alcun
difetto di correlazione tra l’accusa originariamente sollevata nei suoi
confronti e le decisioni di conferma della relativa responsabilità per il
reato associativo ascrittogli.
Sul punto, rileva preliminarmente questa corte come, in tema
di associazione per delinquere, la condotta di partecipazione si distingue da quella del concorrente ex art. 110 c.p. perché,
a differenza di questa, la condotta di partecipazione implica l’esistenza del pactum sceleris, con riferimento alla consorteria criminale, e
dell’affectio societatis in relazione alla consapevolezza del soggetto di
inserirsi in un’associazione vietata; ne consegue che è punibile, a titolo di partecipazione (e non di concorso esterno), colui che presta la
sua adesione e il suo contributo all’attività associativa, anche per una
fase temporalmente limitata (Cass., Sez. 2, n. 47602/2012, Rv.
254105).
Nel caso di specie, la corte territoriale, dopo aver specificamente individuato gli elementi probatori rinvenuti a fondamento della riconosciuta responsabilità del Di Palma per i singoli episodi criminosi concernenti il traffico di sostanza stupefacente, ha evidenziato, con motivazione pienamente coerente sul piano logicoargomentativo, come non vi fosse alcun dubbio sul fatto che i traspor-

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ti di stupefacenti realizzati dall’imputato fossero nella specie destinati
a soddisfare gli interessi dell’associazione criminale allo stesso contestata, tanto desumendosi in termini inequivocabili dal contenuto delle conversazioni ambientali intercettate (e richiamate dalla corte
d’appello) in cui il Di Palma allude con chiarezza all’organizzazione e
all’esecuzione di detti trasporti attraverso il diretto coinvolgimento e
la compartecipazione di soggetti riconosciuti come partecipi del medesimo sodalizio criminale (cfr. fi . 130 ss. sent. appello).
Al riguardo, mette conto di evidenziare la correttezza, sul piano interpretativo, del principio sul punto sostenuto dalla corte territoriale, secondo cui il reato di partecipazione a un’associazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti può ravvisarsi anche in assenza di uno specifico accordo espresso, potendo basarsi sulla consapevolezza che le attività proprie e quelle altrui ricevono uno
stabile e vicendevole ausilio, contribuendo insieme all’attuazione dello scopo comune; e ciò, anche in presenza di posizioni non convergenti o financo contrastanti, siccome caratterizzati dall’appartenenza
ad altro sodalizio (v. fi. 139 sent. appello) (cfr., sul punto, Cass., Sez.
6, n. 20069/2008, Rv. 239643; Cass., Sez. 1, n. 30463/2011, Rv.
251013).
Quanto alla contestata assunzione, a carico del Di Palma, della
prova del reato associativo in correlazione all’acquisita dimostrazione
della commissione dei singoli reati-fine, è appena il caso di rievocare
il corrispondente insegnamento della giurisprudenza di legittimità
già più volte richiamato in precedenza (cfr. supra pan. 3.1. e 3.5.).
3.11. — Il ricorso di Mario Mastroianni è infondato.
Preliminarmente, deve ritenersi priva di fondamento l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal Mastroianni in relazione alla legge n. 49/2006, per difetto di rilevanza, non potendo ritenersi in ogni caso illegale l’irrogazione a carico dell’imputato, con
riferimento ai reati riguardanti l’illecito traffico di c.d. ‘droghe leggere’ allo stesso contestati, degli aumenti di pena per tali titoli di reato
applicati in forza della continuazione, essendosi i giudici del merito
tenuti, nell’applicazione di tali aumenti, entro i limiti di legge espressamente previsti dall’art. 81 c.p., muovendo dalla pena-base determinata sul più grave reato di cui all’art. 74 d.p.r. n 309/90 allo stesso
contestato.

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Quanto al ricorso degli asseriti vizi motivazionali riferiti
all’entità di detti aumenti per la continuazione (così anticipando
l’esame della corrispondente censura critica sollevata dal ricorrente),
appare sufficiente il richiamo all’insegnamento della giurisprudenza
di legittimità, ai sensi del quale deve ritenersi non necessaria una
specifica giustificazione per gli aumenti di pena a titolo di continuazione, valendo a questi fini il vigore delle ragioni indicate a sostegno
della quantificazione della pena-base, in relazione alla cui determinazione, nella specie, non risulta sollevata alcuna specifica censura
(Cass., Sez. 5, n. 27382/2011, Rv. 250465; Cass., Sez. 5, n.
11945/1999, Rv.214857).
Nel merito, con riguardo tutti gli specifici episodi criminosi richiamati dall’imputato nel ricorso proposto in questa sede (corrispondenti ai capi Ai, A2, A31 e B15 della rubrica), osserva questa corte come i giudici del merito abbiano correttamente individuato — sulla base di una congrua motivazione, dotata di logica coerenza e adeguata linearità argomentativa — le rispettive basi probatorie, evidenziando la specifica pregnanza del contenuto delle conversazioni ambientali e telefoniche intercettate (e puntualmente riprodotte in sentenza), dalle quali è chiaramente emersa (al di là degli irrituali tentativi del ricorrente di prospettare un’inammissibile rilettura in fatto
del contenuto delle conversazioni così come coerentemente ricostruite dai giudici del merito) la diretta e fattiva partecipazione del Mastroianni (unitamente ai sodali appartenenti alla medesima associazione criminale) al compimento delle attività dirette alla realizzazione
del trasporto, oltre che alla detenzione e conservazione, degli ingenti
quantitativi di sostanza stupefacente importati dall’estero (v. fl. 140
ss. sent. appello).
Con particolare riguardo al capo A31, la corte territoriale, in
contrasto con quanto sostenuto dall’odierno ricorrente, ha ritenuto
pienamente attendibili le dichiarazioni rese dal collaboratore Vincenzo Maiello, nella parte in cui ha raccontato di aver avuto a che fare in
una circostanza con il Mastroianni, conosciuto sin da ragazzo, avendolo condotto con sé a Mugnano di Napoli al fine di approvvigionarsi
di hashish di cui erano in quel momento sforniti.
Sul punto, richiamando il giudizio di attendibilità formulato
dal giudice di prime cure, la corte territoriale, con motivazione logica
e immune da censure, ha evidenziato come il collaboratore avesse re-

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so dichiarazioni molto precise, collocando i fatti nel tempo, individuando in modo specifico le modalità della condotta e ribadendo in
sede dibattimentale le circostanze di cui era a certa conoscenza,
omettendo viceversa di confermare quelle il cui ricordo era rimasto
velato: indice, quest’ultimo, di sicura attendibilità del dichiarante, a
sua volta riscontrato, sul piano obiettivo, dalla circostanza (emersa
agli atti del giudizio) dell’effettiva sussistenza di rapporti del Mastroianni con malavitosi di Mugnano, di là dalle ulteriori rivelazioni
fornite dagli altri collaboratori di giustizia (Pietro Nocera, Giacomo
Nocera e Michele Froncillo) i quali hanno indicato nel Mastroianni la
persona che cooperava in comunione di sinergie con Vincenzo Nocera, in tal modo confermando la veridicità del racconto reso da Vincenzo Maiello (v. fi. 142 s. sent. appello).
Quanto alla contestazione relativa al reato contrassegnato con
il capo B15 della rubrica, la corte territoriale ha provveduto a corredare l’accertamento della responsabilità dell’imputato con la riproposizione del contenuto delle conversazioni intercettate, ritenute (sulla
base di una giustificazione argomentativa del tutto coerente e lineare)
di per sé idonee a rendere evidente il coinvolgimento dell’imputato
nella realizzazione dell’attività di detenzione e di trasporto della sostanza stupefacente contestatagli.
Anche con riguardo alla posizione del Mastroianni la corte territoriale ha individuato gli elementi concreti di attestazione della relativa diretta partecipazione all’associazione criminale oggetto
d’esame, evidenziando come lo stesso avesse posto a disposizione del
gruppo i propri canali di rifornimento della droga attraverso le importazioni dall’estero, per il tramite dei corrieri, ovvero attraverso i
cartelli operanti nella provincia di Napoli.
Tale procurata disponibilità di canali di rifornimento (e la materiale realizzazione delle operazioni di approvvigionamento dello
stupefacente, da parte dell’imputato) hanno costituito – secondo la
coerente e fondata argomentazione della corte territoriale – il sostanziale contributo causale fornito dal Mastroianni alla realizzazione delle finalità dell’associazione criminale de qua: un contributo dotato di
particolare significato, avuto riguardo all’opportunità in tal modo offerta agli altri partecipi dell’associazione (come il Cappabianca o il
Musone) di ottenere un altro autonomo canale di approvvigionamen-

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to di stupefacente da smerciare sul territorio (cfr. fl. 145 sent. appello).
A tale riguardo, è appena il caso di richiamare le argomentazioni in precedenza diffusamente evidenziate in ordine all’idoneità di
un contributo di tale natura a sostanziare, in termini di obiettiva concretezza, l’ipotesi dell’effettiva partecipazione dell’imputato
all’associazione criminale in tal modo avvantaggiata (v. supra par.
3.10.), dalla corte territoriale riscontrata, a carico del Mastroianni,
sulla base di una motivazione del tutto coerente e immune da censure.
Deve ritenersi, da ultimo, logicamente e congruamente argomentata la decisione della corte territoriale relativa al trattamento
sanzionatorio complessivo (di là dalla già rilevata infondatezza del
motivo di doglianza avanzato dal Mastroianni con riguardo alla pretesa omessa motivazione sul mancato minimo aumento di pena per la
continuazione, ai sensi dell’art. 81 c.p.: cfr. supra in questo par.) e
alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in
favore dell’imputato, avendone i giudici del merito coerentemente
legato la giustificazione al lungo periodo di partecipazione
dell’imputato al sodalizio criminale, oltre al decisivo rilievo della gravità obiettiva dei fatti e alla personalità dell’imputato, caratterizzata
dalla coltivazione di rapporti con più ambienti criminali (cfr. fl. 145
sent. appello), così radicando, il conclusivo giudizio espresso, al ricorso di specifici presupposti di fatto coerenti alle previsioni di cui
all’art. 133 c.p., sulla base di una motivazione in sé dotata di intrinseca coerenza e logica linearità.
3.12. — Il ricorso di Antonio Filippelli è infondato.
Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, la corte territoriale ha espressamente evidenziato, sulla base di una motivazione
sostenuta da piena coerenza logica e linearità argomentativa, come
nella conversazione telefonica intercorsa tra il Parola e il Filippelli,
dedotta dall’imputato e richiamata in sentenza, i dialoganti avessero
espressamente interloquito sul tema della droga essendosi detta conversazione inserita nel contesto temporale delle conversazioni ambientali intercettate nell’abitazione del Cappabianca, nelle quali il Di
Palma racconta dell’organizzazione, unitamente al Mastroianni, di
una serie di trasporti internazionali per l’importazione di ingenti

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quantità di sostanza stupefacente e di aver preso accordi con lo stesso
Mastroianni affinché quest’ultimo mettesse a sua disposizione una
serie di autisti a tal fine.
Nella conversazione successivamente intercettata tra il Filippelli e il Parola, la corte territoriale evidenzia con chiarezza come gli
interlocutori avessero concordato con il Di Palma un trasporto di
droga dall’estero, contestualmente manifestando, in modo vicendevole, la piena conoscenza di tali trasporti (successivamente non realizzati dai due) (cfr. fl. 153 sent. appello).
Tale condotta degli interlocutori, pur non avendo assunto alcuna forma di rilevanza penale, neppure sotto la specie del tentativo
(a causa della mancata concretizzazione dell’intento criminoso divisato), è tuttavia apparsa, ai giudici del merito, caratterizzata da evidenti
tratti di pericolosità, tali da giustificare, ai sensi dell’art. 115 c.p., l’applicazione a carico dell’imputato della misura di sicurezza della libertà vigilata allo stesso inflitta; e tanto, sulla base di una motivazione
da ritenere coerentemente e congruamente argomentata, tanto sul
piano logico riferito alla rilevata pericolosità della condotta (giustificativa dell’adozione della misura), quanto sul terreno della documentazione probatoria individuata a supporto.
4. – Al riscontro dell’infondatezza di tutti i motivi di doglianza
avanzati da tutti gli imputati segue il rigetto dei ricorsi e la condanna
di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, rigetta i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15.10.2013.

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