Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46652 del 11/11/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 46652 Anno 2015
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DAVIGO PIERCAMILLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Panzironi Franco, nato a Roma il giorno 11/11/1948;
avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma, Sezione per il riesame dei
provvedimenti restrittivi della libertà personale, del 03/09/2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Piercamillo Davigo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio
Baldi, che ha concluso chiedendo che l’ordinanza impugnata sia annullata con
rinvio;
udito per il ricorrente l’Avv. Pasquale Bartolo, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 28.11.2014 il G.i.p. del Tribunale di Roma dispose la
custodia in carcere di Panzironi Franco A Panzironi Franco, nella sua qualità di
componente del CDA e AD di AMA S.p.a. dal 5.8.2008 fino al 4.11.2011 e,
successivamente, quale funzionario apicale di fatto di AMA S.p.a. a libro-paga
dell’associazione, sono contestati i reati di partecipazione all’associazione di
stampo mafioso operante a Roma e nel Lazio con a capo Carminati Massimo
(capo 1 dell’imputazione) e di concorso in fatti di corruzione di cui all’art. 318
cod. pen. (nella formulazione successiva al dicembre 2012), art. 319 cod. pen.

Data Udienza: 11/11/2015

(nella formulazione antecedente e successiva al dicembre 2012), art. 353 cod.
pen. di cui ai capi 11, 12 e 13 dell’imputazione, tutti aggravati dal fine di
agevolare l’associazione mafiosa diretta dal Carminati.

2. L’indagato propose istanza di riesame ed il Tribunale di Roma con
ordinanza del 23.12.2014 confermò il provvedimento impugnato.

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L’indagato propose ricorso per cassazione contro tale ordinanza,

aggiunti – violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento
all’insufficienza di indizi sull’addebitata partecipazione all’associazione di stampo
mafioso diretta dal Carminati e all’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203 del 1991,
contestata per i reati-fine di cui ai capi 11, 12 e 13 dell’imputazione. Sarebbe
stato mancante qualunque elemento indiziario che consenta di ipotizzare che il
ricorrente abbia fornito un contributo stabile all’associazione, atteso che la stessa
ordinanza impugnata ammette che, contrariamente a quanto evidenziato
nell’ordinanza genetica della misura, Panzironi aveva avuto rapporti solo col
Buzzi, la cui storia personale, legata alle cooperative “rosse”, da sempre in
contatto con l’amministrazione comunale e le società partecipate, era lontana da
quella del Carminati, col quale il Panzironi mai aveva avuto alcun rapporto o
anche il minimo contatto. L’ordinanza impugnata avrebbe omesso ogni
motivazione sul punto, nonostante la specifica censura formulata in sede di
riesame, evidenziando una intrinseca illogicità e un’irragionevole disparità di
trattamento tra la posizione del ricorrente e quella degli altri indagati – quali
l’Odevaine, il Turella, lo Schina ed il Fiscon – per i quali la partecipazione
all’associazione mafiosa e la stessa aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203 del
1991, erano state escluse proprio in ragione dell’assenza di contatti col Carminati
e della conseguente mancanza della consapevolezza di agire al fine di agevolare
l’associazione mafiosa. Irragionevole sarebbe stata per altro verso
l’equiparazione del Panzironi agli indagati ritenuti partecipi all’associazione sul
presupposto che essi avevano avuto contatti col Carminati (e anche, come il
Gaudenzi, col Brugia e il De Carlo), avevano frequentato i luoghi di ritrovo dei
sodali (quali la pompa di benzina di Corso Francia, gli uffici delle cooperative del
Buzzi, ecc.) e avevano usato per comunicare i telefoni cellulari “dedicati”,
laddove il ricorrente non ha mai posto in essere condotte analoghe. La
motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbe stata inoltre illogica allorché
deriva la conoscenza da parte del ricorrente della necessità per il Buzzi di
chiedere a Carminati l’autorizzazione per effettuare i pagamenti corruttivi dal
fatto che Buzzi, nei rapporti con altri indagati, era solito esplicitare la propria
dipendenza dal Carminati nelle decisioni di maggior rilievo. In realtà, nessun

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deducendo, col primo motivo di ricorso – oggetto anche della memoria con motivi

riferimento al Carminati si rinviene nelle conversazioni captate tra il ricorrente ed
il Buzzi. Rappresenterebbe infine un errore di diritto l’assunto in base al quale il
Tribunale ha ritenuto che il ricorrente non potesse non sapere che Buzzi ha tale
forza da ottenere l’aggiudicazione delle gare in posizione di assoluta
predominanza perché rappresenta ed ha alle sue spalle l’organizzazione
criminale diretta da Carminati.
Col secondo motivo di ricorso il ricorrente lamentava violazione di legge e
vizio di motivazione conseguenti a travisamento delle prove relativamente alla

non rivestiva la qualifica di pubblico ufficiale, perché il suo mandato quale
amministratore di AMA S.p.a. era scaduto nell’agosto 2011 e non si può
considerare rilevante il fatto che egli abbia interloquito sulle nomine degli
incarichi apicali di AMA S.p.a. poi attribuiti a Anelli e Fiscon. Nè rilevanti
potevano ritenersi sul piano indiziario i bonifici che le cooperative avrebbero fatto
alle fondazioni Nuova Italia e De Gasperi, poiché nulla agli atti collegava quei
contributi alle gare cui si riferiscono le contestazioni.
Col terzo motivo di ricorso Panzironi lamentava infine violazione di legge e
mancanza di motivazione dell’ordinanza impugnata in relazione alla ritenuta
esistenza di esigenze cautelari, tratta da fatti estranei al procedimento e attinenti
a notizie di stampa relative alla cd. “parentopoli romana”.

4. la Corte suprema di cassazione, Sezione 6^ penale, con sentenza n.
24536 del 16.4.2015, dep. il 9.6.2015, fra l’altro, rigettò il ricorso di Panzironi
Franco.

5. Con ordinanza 1.6.2015 il G.I.P. del Tribunale di Roma rigettò l’istanza di
revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere emessa nei
confronti di Panzironi Franco, persona sottoposta ad indagini per associazione di
tipo mafioso, corruzione e turbativa d’asta.

6. L’indagato propose appello ma il Tribunale di Roma, Sezione per il
riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, con ordinanza del
03/09/2015, confermò il provvedimento impugnato.

7. Ricorre per cassazione la persona sottoposta ad indagini, tramite il
difensore, deducendo:
1. mancanza, illogicità e contraddittorietà interna ed esterna della
motivazione e violazione dell’art. 275 comma 3 cod. proc. pen. in quanto,
avendo l’indagato reso dichiarazione a carico di altri indagati (Alemanno,
Buzzi e Visconti) ed avendo sporto denunzie per calunnia a carico di

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circostanza che all’epoca delle condotte a lui contestate ai capi 11, 12 e 13 egli

Buzzi, ha rescisso il vincolo associativo, ammesso che esistesse; lo stesso
provvedimento del G.I.P. dava atto che Panzironi aveva collaborato più di
altri indagati; il Tribunale ha ritenuto che la confessione di Panzironi fosse
un tentativo di confondere la acque e di far mostra di una inesistente
volontà di collaborare, mentre permarrebbe una logica omertosa e
complice, ma i fatti esposti nell’appello e nella memoria evidenziano che
un associato non può accusare e denunciare altri; dei fatti confessati non
vi era traccia in atti; non è vero che in atti vi siano elementi contrari alle

2. mancanza ed illogicità della motivazione in quanto Panzironi ha ricevuto
denaro da Buzzi che ha consegnato a Visconti, come risulta da molteplici
elementi, ma anche se così non fosse ciò non incide sul venir meno del
vincolo associativo;
3. violazione della legge processuale e vizio di motivazione in quanto il G.I.P.
aveva riconosciuto la collaborazione di Panzironi e tale punto non era
devoluto al Tribunale con l’appello sicché il Tribunale non poteva
affermare che la collaborazione di Panzironi era finalizzata a confondere le
acque; peraltro sul punto la motivazione è mancante.

8. In data 5.11.2015 il difensore ha prodotto l’avviso di conclusione delle
indagini nei confronti di Panzironi ed altri per corruzione e finanziamento illecito
dei partiti politici.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo e secondo motivo di ricorso sono infondati e svolgono censure di
merito non consentite in questa sede.

2. Poiché nei motivi di ricorso si pone tuttora in dubbio la partecipazione di
Panzironi al sodalizio è opportuno ricordare che, nella sentenza della Corte
Suprema di cassazione n. 24536/15, sopra richiamata, erano stati esaminati
alcuni generali motivi di doglianza (comuni ad altri ricorrenti), ed in particolare
quelli concernenti i requisiti di gravità indiziaria delineati dai Giudici di merito in
ordine all’art. 416-bis cod. pen. – ipotizzata, tra gli altri, a carico di Cerrito Nadia,
Panzironi Franco e Chiaravalle Pierina – ed i connessi problemi di qualificazione
giuridica delle relative condotte.
La prima censura concerneva la sussistenza della ipotizzata struttura
organizzativa e, in specie, la fusione dei gruppi facenti capo al Carminati ed al
Buzzi, in forza della quale sarebbe ravvisabile un “salto di qualità” del sodalizio.

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„\.

dichiarazioni di Panzironi;

La Corte di legittimità rilevava che l’ordinanza impugnata aveva richiamato
l’ampia motivazione del provvedimento cautelare genetico, ponendo in luce il
progressivo consolidamento degli elementi strutturali di una complessa
organizzazione, definita “a raggiera” ovvero “a reticolo”, al cui vertice è stato
individuato Carminati Massimo.
Questo gruppo operava, in una prima fase della sua formazione, attraverso
articolazioni diramate nel settore delle attività criminali di tipo “tradizionale”
(dunque, in materia di usura, estorsione, recupero crediti con metodi violenti,

Articolazioni settoriali, quelle indicate, che i Giudici di merito avevano
ritenuto non rigidamente suddivise, ma connotate da numerose interconnessioni
fra le diverse aree di intervento e i vari sodali che ne hanno preso parte, e
unificate dalla figura del Carminati, persona dal rilevante passato criminale in
ragione dell’appartenenza ai N.A.R., della contiguità con la c.d. “banda della
Magliana” e dei numerosi precedenti penali in clamorose vicende giudiziarie.
Costui, avvalendosi dei suoi più stretti collaboratori, esercitava un controllo
totale sulle multiformi attività di tale prima associazione, rapportandosi di volta
in volta, quale riconosciuto punto di riferimento degli altri suoi membri, anche
con esponenti dell’amministrazione capitolina, con funzionari delle forze
dell’Ordine, con i capi di altre organizzazioni criminali insediatesi nella Capitale,
oltre che con criminali comuni.
Sulla base delle risultanze dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, i
Giudici di merito avevano posto in rilievo le caratteristiche di questo primo
nucleo del sodalizio, ove Carminati si è avvalso della stabile collaborazione
offertagli da Lacopo Roberto, gestore di un distributore ENI in Corso Francia di
Roma, utilizzato quale base logistica delle attività del gruppo, da Brugia
Riccardo, coordinatore delle attività criminali nei settori delle estorsioni e del
“recupero crediti”, e da Calvio Matteo, utilizzato per compiere atti di
intimidazione volti a realizzare gli scopi dell’organizzazione.
A costoro si affiancavano imprenditori consapevoli del passato criminale del
Carminati e della forza d’intimidazione e penetrazione esercitata dal gruppo
anche in ambienti politico – amministrativi. In tal senso, il Tribunale del riesame
aveva menzionato i casi di taluni imprenditori operanti nel settore dell’edilizia (ad
esempio Guarnera Cristiano, nei cui confronti Calvio aveva svolto per alcuni mesi
una funzione di “protezione”), in quello della ristorazione (Tetto Giuseppe),
nonché in quelli del “movimento terra” e della gestione di appalti di vario tipo,
come quelli relativi alla manutenzione ed ampliamento dei prefabbricati nel
campo nomadi di Caste! Romano (Gaglianone Agostino).
Con riferimento al settore della pubblica amministrazione, inoltre,
l’ordinanza di riesame aveva rilevato come l’organizzazione criminale faceva

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ecc), e in parte in quello tipicamente imprenditoriale.

leva, soprattutto al fine di ottenere nomine di pubblici amministratori
compiacenti o corruttibili, sul contributo di conoscenze ed entrature politico istituzionali acquisite in anni di militanza politica da Testa Fabrizio Franco, che
aveva assunto un “ruolo di cerniera” tra il settore imprenditoriale operante
nell’area pubblica e quello politico, ereditando il ruolo che già Mancini Riccardo
(amministratore delegato di “Eur s.p.a.” e di numerose aziende operanti nel
settore pubblico e privato) aveva esercitato, prima del suo arresto, all’interno
dell’amministrazione comunale. L’ordinanza di riesame aveva individuato il “salto

grazie ai rapporti di amicizia e comune militanza politica intrattenuti dal
Carminati con persone (ad esempio Pucci Carlo, Gramazio Luca e Panzironi
Franco) che avevano assunto importanti responsabilità amministrative e di
direzione (nell’Ente Eur s.p.a., nel Consiglio comunale e nell’A.M.A. s.p.a.) a
seguito del mutamento di vertice nell’amministrazione capitolina, e, per altro
verso, e soprattutto, grazie all’accordo intervenuto con Buzzi Salvatore e la
struttura imprenditoriale da lui organizzata e gestita. Quest’ultimo controllava
una vasta rete di cooperative dal rilevante peso economico – nate circa ventotto
anni prima con lo scopo di far lavorare, anche attraverso la stipula di convenzioni
con il Comune di Roma, persone già detenute che non potevano godere di tutti i
diritti civili e, successivamente, ampliatesi in altre direzioni, come le pulizie
industriali, la raccolta e smaltimento dei rifiuti, la manutenzione delle aree verdi,
l’accoglienza di profughi e immigrati in Italia.
La Corte di cassazione rilevava che, secondo la ricostruzione operata dai
Giudici di merito, era stato l’accordo con Buzzi ad aver consentito all’associazione
il raggiungimento di un sostanziale controllo sull’intera attività del Comune di
Roma e delle sue partecipate (AMA s.p.a. ed Ente EUR s.p.a.) nella gestione di
quei servizi ove le predette cooperative avevano esercitato la loro attività (ossia,
il verde pubblico, la gestione dei rifiuti differenziati, le emergenze per i nomadi,
gli immigrati e le nevicate abbattutesi sulla Capitale nei primi giorni del febbraio
2012, l’individuazione degli alloggi, ecc.), così accrescendo enormemente, entro
un limitato arco temporale, le loro capacità d’intervento ed il relativo fatturato,
che si stimava esser salito dall’importo di 26 milioni di Euro nel 2010 a quello di
oltre 50 milioni di Euro nell’anno 2013.
La Corte di legittimità rilevava che le censure dedotte circa la gravità
indiziaria del verificarsi di tale fusione non potevano essere accolte in quanto gli
elementi sintomatici in tal senso erano stati compiutamente indicati:
a) nel contributo determinante prestato dal Carminati alla gestione, anche in
termini economici, delle cooperative del Buzzi, attraverso la sua stabile
partecipazione, con ruolo decisionale, alle riunioni che si tenevano presso la sede
della società “Eriches”, in via Pomona 63, ove erano pianificati i programmi
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di qualità” nelle attività dell’associazione in esame, avvenuto, per un verso,

dell’associazione nel settore della pubblica amministrazione, con l’intervento dei
più stretti collaboratori del Buzzi, ossia di Garrone Alessandra, Cerrito Nadia, Di
Ninno Paolo, Guarany Carlo Maria e Caldarelli Caudio;
b) nell’utilizzo di meccanismi (utenze dedicate, con le quali il Carminati ed il
Buzzi intrattenevano i loro rapporti) e dispositivi elettronici (cd. “jammer”),
forniti dallo stesso Carminati ed appositamente installati nei relativi uffici
amministrativi, al fine di eludere eventuali attività investigative;
c)

nella rilevante partecipazione alla ripartizione dei profitti derivanti

intercettata il 28 marzo 2014, a spiegare ad alcuni dei suoi diretti collaboratori ossia Garrone, Caldarelli e Bugitti – che al Carminati spettava il 50% degli utili,
che ammontava ad un milione di Euro);
d)

nella comune gestione della contabilità, ufficiale e parallela, delle

cooperative, sulla base delle annotazioni riportate in un “libro nero” custodito in
casa della Cerrito, ove si dava conto di pagamenti “in nero” e/o “tangenti”, con il
riepilogo dei compensi elargiti a varie persone, tra le quali figurava lo stesso
Carminati, ivi contrassegnato con la sigla “MC” (tanto che in una conversazione
intercettata il 2.1.2014 presso gli uffici di via Pomona, quest’ultimo discuteva
con Buzzi e Di Ninno dell’ammontare dei dividendi illeciti di cui era creditore,
rappresentandosi le possibilità e le modalità di restituzione, in modo tale da non
generare una crisi finanziaria dei soggetti economici che ne avrebbero dovuto
sostenere l’onere);
e) nel continuo scambio di informative riguardo alla delineazione delle scelte
strategiche del gruppo e alle modalità di risoluzione delle diverse problematiche
insorte durante la esecuzione dei lavori affidati all’esito delle gare d’appalto;
f) nel rapporto di estrema fiducia tra i due, al punto che il Carminati – come
emerso dalle conversazioni intrattenute dal Buzzi con Campennì Giovanni,
imprenditore di riferimento, per le attività in Roma, della famiglia
“ndranghetista” dei Mancuso di Limbadi – temendo un possibile arresto, affidava
al Buzzi la custodia di una somma di denaro in contanti di almeno 500.000,00
Euro, poi investita nell’attività relativa al campo nomadi di Castel Romano.
La Corte rilevava come la partecipazione del Carminati alla suddivisione
degli utili sia stata ritenuta di tale consistenza e continuità da indurre i Giudici di
merito a ravvisare l’assunzione di una vera e propria funzione di amministratore
di fatto delle società cooperative, da lui concretamente svolta con lo stesso
Buzzi, così escludendo, contrariamente alle deduzioni difensive, il formale ruolo
di socio-lavoratore che egli avrebbe ricoperto all’interno della cooperativa “29
Giugno”.
Dinanzi a questo quadro indiziario appariva inane, se non paradossale,
relegare il ruolo del Carminati a quello di un qualsiasi dipendente della

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dall’aggiudicazione delle gare (è lo stesso Buzzi, in una conversazione

cooperativa del Buzzi. Né la Corte di cassazione riteneva possibile obiettare una
pretesa incompatibilità ideologica incentrata sulle implicazioni sottese al
contestato accostamento tra le diverse aree di estrazione politica (“mondo di
sinistra” del Buzzi e “mondo di destra” del Carminati), risultando la natura dei
rapporti fra costoro (già conosciutisi in ragione del comune passato criminale)
indipendente da interiori motivazioni dettate da scelte politiche di fondo, ed
esclusivamente governata, piuttosto, da convergenti finalità di ricerca ed
accumulazione di profitti illecitamente ottenuti con la sistematica

organi amministrativi della Capitale nei settori di specifico interesse del sodalizio.
A seguito della menzionata fusione era rilevante, nella ricostruzione operata
dai Giudici di merito, la disamina delle specifiche connotazioni assunte dal
versante imprenditoriale delle attività svolte dal sodalizio, che aveva potuto
disporre dei servizi offerti da varie imprese funzionali al raggiungimento dei suoi
scopi di lucro, operanti:
a) nell’edilizia e nel cd. “movimento terra” (con il Gaglianone, coinvolto, su
incarico del Carminati, nei lavori di manutenzione e adeguamento dei
prefabbricati mobili per il campo nomadi di Caste! Romano, commissionatigli
dall’appagante “Eriches 29”, oltre che nella fornitura di servizi accessori
funzionali alla realizzazione di un’operazione immobiliare consistente nella
costruzione di novanta appartamenti per conto di Guarnera Cristiano e nella
movimentazione di terra per la realizzazione di un parco giochi per bambini);
b) nell’ambito immobiliare (con il Guarnera, coinvolto, fra l’altro, nel cd.
Piano di emergenza abitativa gestito, per il Comune di Roma, dalle cooperative
sociali del Buzzi, attraverso la locazione di unità immobiliari di cui il primo era
proprietario);
c)

in

quello

della

ristorazione

(con

Giuseppe

letto,

coinvolto

nell’espletamento della fornitura del servizio dei pasti presso le strutture di
accoglienza gestite dalla cooperativa “29 giugno” e dal “Consorzio Eriches 29”,
oltre che nel progetto di creazione di una mensa presso il Carcere di Rebibbia).
Secondo i giudici di merito era stato Carminati, in una conversazione del
13.12.2012 con Brugia, a disegnare le linee del percorso evolutivo del sodalizio,
il cui “manifesto programmatico” non era più incentrato, come nel passato, sulla
mera gestione delle attività di “recupero crediti”, ma era orientato a stabilizzare
il suo ingresso nel circuito imprenditoriale, dapprima garantendo un alveo
“protettivo” agli imprenditori avvicinati, quindi inserendosi progressivamente
nelle pieghe delle loro attività, nel contesto di un rapporto paritario,
caratterizzato dalla gestione di affari in comune, così da creare la certezza di
vantaggi reciproci attraverso l’imposizione sul mercato delle imprese gravitanti
nell’orbita dell’associazione: in forza del contributo prestato da imprenditori
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programmazione delle più diverse forme di condizionamento sulle attività degli

intranei al sodalizio, sarebbe stato possibile offrire, specie in un momento di
grave crisi economica del Paese, una serie di servizi a prezzi convenienti anche
per l’eventuale committente, che in tal modo avrebbe ottenuto un sicuro
vantaggio ad affidarsi all’organizzazione.
L’ordinanza del riesame aveva posto in evidenza le diverse forme e modalità
di infiltrazione dell’organizzazione nei gangli vitali dell’amministrazione
municipale, specie attraverso le attività volte ad individuare e a collocare in
posizioni apicali persone in grado di soddisfare, nell’esercizio delle pubbliche

senso rilevata la determinante incidenza esercitata, fra l’altro:
a)

nell’acquisizione di notizie riservate ai fini della preparazione, dello

svolgimento e dell’aggiudicazione di gare d’appalto (ad esempio, con riferimento
alla gara per la raccolta differenziata del cd. “multi-materiale”, ovvero a quella
concernente l’aggiudicazione della raccolta differenziata per il Comune di Roma,
dove il Buzzi, ancor prima della conclusione della relativa procedura, era a
conoscenza del fatto che l’appalto sarebbe stato assegnato in suo favore);
b) nella fissazione di pre-riunioni organizzative e di incontri con i funzionari
responsabili del procedimento di gara, avvicinati al fine di alterarne lo
svolgimento;
c) nella nomina di componenti del consiglio di amministrazione della A.M.A.
s. p.a. ;
d) nelle trattative che hanno portato alla nomina di Fiscon Giovanni quale
suo direttore generale;
e) nella nomina del presidente della Commissione trasparenza del Consiglio
comunale di Roma;
f) nella nomina del nuovo responsabile del 5^ dipartimento relativo alla
promozione dei servizi sociali;
g) nella modifica del bilancio pluriennale 2012-2014 della Capitale (con
l’inserimento di rilevanti fondi in settori di interesse quali quelli relativi al verde e
alle piste ciclabili, al campo nomadi di Castel Romano, all’emergenza minori del
Nord Africa, all’emergenza della neve);
h)

nella promozione di persone gradite a ruoli dirigenziali all’interno

dell’AMA;
i) nell’intervento volto ad ottenere il parere favorevole dei revisori dei conti
per lo sblocco di somme spettanti alle cooperative del Buzzi;
I) nella capacità di condizionare finanche la regolarità dell’affidamento di
appalti di servizi presso le amministrazioni municipali di altri enti territoriali (ad
esempio, la serie di contatti intervenuta tra il Sindaco di S. Oreste ed il Buzzi, al
fine di stabilire, anche con l’intervento di collaboratori di quest’ultimo, tra i quali
Chiaravalle Pierina, il contenuto di un bando di gara, ovvero la comunicazione,
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funzioni da essi rivestite, gli interessi riconducibili al sodalizio. Era stata in tal

fornita al Buzzi da altri funzionari del medesimo Comune, delle offerte presentate
dagli altri concorrenti, in modo da modificare, a gara chiusa, il contenuto della
propria offerta).
L’efficienza e rapidità dell’organizzazione nel promuovere ogni sforzo volto a
tutelare il comune “portafoglio” di risorse derivanti dagli illeciti profitti acquisiti
grazie alla sistematica attività corruttiva di pubblici funzionari e di alterazione
della regolarità di svolgimento delle gare d’appalto era stata altresì individuata
nella capacità di far pubblicare, sulle pagine di un quotidiano a diffusione

giudiziaria amministrativa e a promuovere una campagna mediatica favorevole
al “Consorzio Eriches 29” del Buzzi, che si era aggiudicato una gara d’appalto
Europea bandita dalla Prefettura di Roma nonostante l’esiguità del prezzo, con la
conseguente sospensione dell’assegnazione dopo il ricorso al T.A.R. proposto
dalla concorrente società francese.
Una specifica censura concerneva la gravità indiziaria dell’avvenuto
accumulo di forza di intimidazione da parte del sodalizio Carminati – Buzzi.
L’ordinanza del riesame aveva ricostruito le ragioni storiche della
eccezionale notorietà criminale raggiunta dal Carminati e dal gruppo da lui
comandato, le cui radici affondavano nel sostrato criminale romano degli anni
’80, per avere mutuato dalla cd. “banda della Magliana’ alcune delle sue
principali caratteristiche organizzative, come i rapporti intessuti con altre
organizzazioni presenti sul territorio di Roma e la capacità di far interagire
trasversalmente diverse realtà criminali, ivi comprese quelle tipiche della cd.
“criminalità di strada”, garantendo la possibilità di un costante e reciproco
scambio di favori, anche attraverso il ricorso a legami e a rapporti di reciproca
collaborazione mantenuti con persone appartenenti a settori della destra
eversiva, nel corso del tempo divenute titolari di rilevanti cariche politiche e
manageriali.
Numerosi gli episodi, descritti nell’ordinanza genetica, erano stati ritenuti
dimostrativi della forza di intimidazione diffusamente esercitata sul territorio già
dal primo gruppo criminale a lui facente capo e della sua capacità di agire in
maniera coesa ed organizzata nei settori dell’estorsione, dell’usura e del cd.
“recupero crediti”, attuato con minacce esplicite o in forme violente nei confronti
di una vasta platea di persone, assoggettate ai voleri del sodalizio per il timore di
subire ulteriori gravi danni a sé stesse o alle loro famiglie: dalla condotta
estorsiva in danno dell’imprenditore Seccaroni Luigi, al quale si cerca di sottrarre
un terreno di proprietà della famiglia, minacciandolo, il Carminati ed il Brugia, di
mandare “….a fuoco tutto”, alle minacce pesantemente rivolte da Lacopo
Roberto e Calvio Matteo all’imprenditore Refrigeri Fausto, debitore del gruppo,
che tentava di difendersi evocando, vanamente, il prossimo intervento in sua

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nazionale, un articolo volto ad ingenerare dubbi sull’imparzialità dell’Autorità

difesa di un Ispettore della Polizia di Stato; dai ripetuti atti di violenza e minaccia
commessi nei confronti dell’imprenditore Manattini Riccardo per ottenere la
restituzione di un’ingente somma di denaro prestatagli dal padre di Lacopo
Roberto, alle minacce ripetutamente rivolte a Raimondo Pirro per un debito da lui
contratto nella operazione di vendita di orologi di proprietà del Brugia, i cui
proventi non gli erano stati corrisposti, sino ad arrivare al pestaggio effettuato
nei confronti di un altro imprenditore, Perazza Massimo, per costringerlo a
rientrare dai debiti contratti verso Lacopo Roberto. Alla formale attività di

offerta dai Giudici di merito, quelle, ben più redditizie, del prestito di somme di
denaro e del “cambio assegni”, svolte in maniera sistematica dietro lo schermo
offerto dal distributore di carburante in Corso Francia: nei vari episodi di
estorsione analizzati nell’ordinanza genetica erano state riscontrate identiche
modalità di realizzazione costituite dal fatto che i “crediti” venivano richiesti da
chi “formalmente” non ne era il debitore, ovvero dal Calvio o dal Brugia, per
conto degli altri sodali e senza che le vittime chiedessero spiegazioni al riguardo,
o se ne mostrassero sorprese, essendo scontata la loro conoscenza circa la
provenienza delle somme di denaro fornite a credito e l’identità di coloro che ne
pretendevano l’esazione.
L’utilizzo di siffatta forza intimidatrice, ed il suo riconoscimento nel tessuto
sociale, avevano trovato significative conferme in numerosi altri episodi, come,
ad esempio, quello che ha visto quale protagonista il cd. “Curto di
Montespaccato”, personaggio ritenuto di rilevante spessore criminale, che il
Manattini aveva contattato per ricevere “protezione” e che, informato
dell’identità degli estorsori, aveva rifiutato di intervenire di fronte al pericolo
derivante dalla “fama criminale” degli associati, consigliando al suo interlocutore
di lasciar perdere e corrispondere quanto dovuto.
Del resto, sia in relazione alle vicende menzionate a titolo esemplificativo,
sia con riferimento a tutte le altre che avevano costituito oggetto di disamina
nell’ordinanza genetica, i Giudici di merito avevano osservato come non vi erano
atti di denuncia alle competenti Autorità. Specifici passaggi argomentativi erano
stati dedicati all’apprezzamento di un ulteriore, significativo, elemento di fatto,
rappresentato dalla disponibilità di armi, che aveva oggettivamente connotato la
pericolosità sociale dell’organizzazione in esame, accrescendone la sua forza di
intimidazione sul territorio.
Numerosi elementi indiziari erano stati valorizzati nella ordinanza di
riesame, che aveva richiamato le fonti di prova rappresentate dalle dichiarazioni
di collaboratori di giustizia (Grilli Roberto e Cassia Sebastiano, che avevano
indicato il gruppo del Carminati quale punto di riferimento per soggetti dediti a
rapine in danno di istituti di credito, o per l’acquisizione di armi da parte di altre

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fornitura di carbo-lubrificanti venivano affiancate, secondo la ricostruzione

organizzazioni criminali), nonché il contenuto di conversazioni oggetto di
intercettazione, intercorse fra gli stessi Brugia e Carminati, ovvero fra costoro e
Lacopo, ove l’oggetto dei colloqui è chiaramente costituito dai tipi di armi e
silenziatori in loro possesso, dalle somme di denaro speso per acquistarle e dalle
relative modalità di occultamento.
In tal modo, l’associazione aveva potuto ampliare lo spettro delle sue
attività e sfruttare il conferimento del “bene” derivatole dall’acquisto della
capacità di intimidazione già sperimentata nei tradizionali settori delle estorsioni

origine e poi trasfusa, con metodi più raffinati, nei nuovi campi di elezione del
“mondo di sopra”, ove si è avvalsa del richiamo alla consolidata “fama criminale”
acquisita nel tempo, senza tuttavia abbandonare le possibilità di un concreto
ricorso ad atti di violenza e intimidazione, quali forme di manifestazione da
utilizzare all’occorrenza. Al riguardo, infatti, era stato lo stesso Carminati, in una
conversazione avvenuta con il Brugia ed il Guarnera, ad enunciare quello che era
stato ritenuto il “manifesto programmatico” dell’associazione, facendo ricorso alla
metafora del “mondo di mezzo”, nel cui spazio “tutti si incontrano”, e dove si
trova anche l’associazione, il cui ruolo è quello di garantire la possibilità di illecite
forme di osmosi nell’incontro fra il “mondo di sopra” (quello, cioè, degli
imprenditori, della politica e delle istituzioni) e il “mondo di sotto” (la
delinquenza di strada), per ottenere quel “risultato” che interessa al
“sovramondo”, ossia quelle “cose che non le può fare nessuno”, e che solo il
“sottomondo” può consentire di realizzare. La forza di intimidazione
dell’associazione era stata così direttamente veicolata, proprio in attuazione di
quelle linee programmatiche, all’interno dei meccanismi di funzionamento propri
del mondo imprenditoriale e della pubblica amministrazione, alterando, da un
lato, i principi di legalità, imparzialità e trasparenza nell’azione amministrativa, e,
dall’altro lato, quelli della libertà di iniziativa economica e di concorrenza.
L’ordinanza di riesame aveva posto in rilievo come l’incidenza delle attività
svolte a più livelli dal Carminati e dai suoi sodali – che, come osservato dai
Giudici merito, non avevano alcun titolo formale per intervenire – si fosse rivelata
decisiva non solo nel condizionamento delle modalità di svolgimento delle
procedure di assegnazione degli appalti alla rete di cooperative riconducibili al
Buzzi – e dallo stesso Carminati di fatto gestite, come in precedenza si è avuto
modo di rilevare – ma anche nell’orientamento e nella successiva finalizzazione
delle trattative che hanno portato alla nomina di soggetti – graditi al sodalizio – in
posizioni apicali, o comunque di particolare rilevanza per il loro ruolo strategico,
all’interno del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate (sono stati già
richiamati, in tal senso, i casi delle nomine intervenute negli organi
amministrativi dell’A.M.A., nella Commissione trasparenza del Consiglio
12

e dell’usura: capacità progressivamente accumulata nel serbatoio criminale di

comunale, nel Dipartimento competente per la promozione dei servizi sociali,
ecc).
Nell’ordinanza di riesame erano state ricostruite le numerose vicende
ritenute sintomatiche del condizionamento derivante dall’esercizio, talora solo
accennato, ed in altre occasioni concretamente sprigionatosi, della forza
intimidatrice del sodalizio, ponendo in rilievo le seguenti circostanze:
a)

il fatto che Buzzi, conversando con il Campennì, referente della

‘ndrangheta calabrese, abbia potuto vantare la forza di penetrazione acquisita

rilascio di certificazioni), grazie all’apporto del Carminati;
b) l’intervento risolutore che quest’ultimo è stato chiamato ad esercitare dal
Buzzi in situazioni di contrasto o difficoltà, come dinanzi all’eccessività delle
pretese avanzate da Turella Claudio, funzionario del Comune di Roma
responsabile dei servizi di programmazione e gestione del verde pubblico, che
aveva richiesto al Buzzi, quale prezzo della propria corruzione, il versamento di
una somma di denaro (pari a 100.000,00 Euro) considerata troppo elevata, e in
seguito effettivamente rinegoziata sulla base di un minore importo;
c) l’intervento richiesto dal Buzzi al Carminati – e da quest’ultimo operato
con esito positivo presso il capo della segreteria del Sindaco, Lucarelli Antonio,
costretto a scendere dal Campidoglio per incontrare il Buzzi all’orario
programmato – al fine di ottenere lo sblocco di una rilevante somma di denaro
(pari all’importo di 300.000,00 Euro), il cui pagamento era dal Comune dovuto
per un appalto aggiudicato ad una cooperativa del Buzzì (intervento da
quest’ultimo riferito, peraltro, all’interno della medesima conversazione
intercorsa con il Campennì in data 20 aprile 2013);
d) il sollecito – emerso da una conversazione intercettata il 31.5.2013 espressamente rivolto dal Buzzi al Carminati per disporre un intervento di forza
(“….fai intervenire con la forza chi deve intervenire”), da compiere in relazione
alle difficoltà incontrate per l’approvazione di una delibera concernente il campo
nomadi di Castel Romano;
e)

il sollecito direttamente rivolto dal Carminati al Pucci in una

conversazione intercettata il 12.2.2013, affinché intervenisse su Mancini, al
quale avrebbe dovuto ricordare il ruolo di “sottoposto”, minacciando interventi
violenti per le difficoltà incontrate nel pagamento, da parte dell’Ente EUR s.p.a.,
delle somme pretese da una cooperativa del Buzzi, e dallo stesso Carminati
ritenute di entità eccessivamente bassa;
f) la possibilità, prospettata dal Buzzi in una conversazione del 12.2.2013, di
fare ricorso a metodi intimidatori di fronte alle difficoltà frapposte dal ragioniere
generale del Comune, Salvi Maurizio, riguardo al finanziamento di un’opera
(“….o ce li da con le buone o ce li pigliamo con le cattive”….).
13

dalla propria organizzazione nel settore amministrativo (ad es., per ottenere il

Non era solo il Carminati, ma erano anche altri sodali ad avvalersi della
forza di intimidazione dell’organizzazione, come l’imprenditore Guarnera affidato alla “protezione” del Calvio – che in una conversazione avvenuta il 22
marzo 2013 con Amir El Faran, e con altre persone rientranti nella sua cerchia di
relazioni, affermava di essere divenuto ormai “intoccabile” e di aver ottenuto in
tempi rapidi, ed assai inusuali, il rilascio di permessi per costruire da parte del
Comune di Roma grazie al Carminati. Lo stesso imprenditore prospettava, in
altro passaggio della medesima interlocuzione, la minaccia di far intervenire il

se il rappresentante del gruppo imprenditoriale contrapposto avesse insistito nel
suo atteggiamento, avrebbe fatto intervenire “brutta gente” che avrebbe
esternato le relative proposte (in tal modo suscitando, peraltro, un’allarmata
reazione da parte dell’interlocutore, El Faran, che si affrettava a prendere le
distanze e a declinare ogni sua responsabilità al riguardo). Dei vantaggi
oggettivamente riconnessi all’esercizio di tale capacità di intimidazione del
sodalizio era ben consapevole, del resto, anche un altro imprenditore, il
Gaglianone, che in una conversazione svoltasi con l’architetto Barbieri il 22
gennaio 2014 faceva riferimento alle caratteristiche criminali del gruppo del
Carminati e alle sue ingenti disponibilità finanziarie, oltre che al “peso politico” di
quest’ultimo, discorrendo delle sue conoscenze con uomini politici di Roma e con
amministratori locali (il Sindaco di Sacrofano), le cui funzioni erano rilevanti nella
specifica realtà territoriale ove stavano operando.
I Giudici di merito avevano sottolineato l’effetto di sconvolgimento degli
equilibri interni all’ambiente delle società interessate a partecipare alle gare
d’appalto, in ragione delle prevaricazioni subite allorquando fra i concorrenti
figuravano le società cooperative del Buzzi.
Così, ad esempio, in relazione alla grave alterazione del funzionamento della
procedura competitiva per gli interventi necessari alla manutenzione ordinaria
delle aree verdi delle ville storiche, dove la cooperativa “Il Sol. Co.”, pur avendo
“fatto un lavoro bellissimo” (come affermato da Calistri Rossana, funzionaria
addetta alla commissione di aggiudicazione della gara), con la presentazione di
un “poderoso progetto” (come riconosciuto dallo stesso Buzzi in una
conversazione oggetto d’intercettazione), non aveva in realtà alcuna speranza di
risultarne vincitrice, poiché uno dei membri della commissione (Turella Claudio)
chiamava il Buzzi, invitandolo a passare da lui per leggere il bando che era stato
predisposto, e la stessa funzionaria su indicata, violando le regole di riservatezza
circa l’andamento della procedura amministrativa in corso, avvertiva
telefonicamente il Buzzi (che le chiedeva di assegnare alla concorrente qualche
punto in meno) dell’imminente apertura delle buste e della necessità di
modificare l’offerta, inviando ulteriore documentazione al fine di ottenere un
14

sodalizio in difesa dei propri interessi imprenditoriali, laddove soggiungeva che

punteggio più alto rispetto alla predetta cooperativa. Nell’occasione, come
rilevato nell’ordinanza impugnata, il presidente della cooperativa “Il Sol. Co.”,
Monge Mario, contattava telefonicamente il Buzzi, e, di fronte al disappunto da
questi espresso per il solo fatto di aver preso parte ad una gara contro di lui, si
giustificava con tono preoccupato e cercava di allontanare da sè ogni
responsabilità, balbettando dinanzi alla “contestazione” proveniente dal Buzzi e
attribuendo ad altri la decisione di aver concorso, sino a manifestare – di fronte
ai propositi di punizione espressi dal Buzzi nei confronti di coloro che il Monge

da parte sua a trovare assieme “una soluzione se c’è un problema” e, addirittura,
ad augurarsi di non vincere la gara. Analoga rinuncia alla tutela dei propri
interessi per effetto della imposizione di condizioni provenienti dalle scelte
dettate dall’associazione era stata individuata dai Giudici di merito con
riferimento ad un’altra gara d’appalto, divisa in quattro lotti e avente ad oggetto
la raccolta differenziata del cd. “multimateriale”. In tale occasione, il
responsabile della cooperativa concorrente “Edera”, ossia Cancelli Franco,
esprimeva l’intenzione di parteciparvi con riferimento a tutti e quattro i lotti
interessati dall’appalto, rifiutando la proposta del Buzzi di pervenire ad offerte
concordate. Siffatto rifiuto provocava, tuttavia, la reazione del Buzzi, che
costringeva il primo ad accettare un incontro per imporre la propria decisione,
estremamente vantaggiosa per le cooperative riconducibili al sodalizio. Lo stesso
Buzzi, inoltre, comunicava al proprio collaboratore Guarany Carlo Maria che il
Cancelli si era “messo paura”, manifestando la sua soddisfazione per aver
ottenuto il lotto più importante, cui aspirava invece la società concorrente.
I Giudici di merito avevano rilevato come le modalità di espletamento delle
procedure di gara non erano state connotate dal rispetto delle condizioni di
parità degli aspiranti, ma avevano registrato il condizionamento derivante da una
posizione sostanzialmente monopolistica nell’acquisizione degli appalti dei servizi
del Comune di Roma da parte delle cooperative del Buzzi, attraverso la
imposizione di un controllo dell’associazione su buona parte dell’amministrazione
capitolina, ottenuto grazie ad un sistema di intese corruttive con una schiera di
pubblici funzionari infedeli e, all’occorrenza, per effetto della incombente capacità
di intimidazione esercitata sui potenziali concorrenti; una situazione di
assoggettamento talmente radicata e pervasiva, di fronte alla quale nessuno, in
sede politica ovvero giudiziaria, sia essa penale o amministrativa, aveva mai
osato innalzare una voce di dissenso.
Erano state perciò disattese le censure difensive prospettate riguardo alla
asserita delimitazione soggettiva del concreto esercizio della forza intimidatrice,
che, in tesi, si assumeva circoscritta alla sola figura di un suo membro, il
Carminati, poiché anche altri sodali, come si è visto in occasione delle numerose
15

aveva indicato come responsabili della sua partecipazione – la piena disponibilità

vicende su ricordate, avevano mostrato di esserne a conoscenza e di volersene
avvalere all’occorrenza.
La Corte di legittimità riteneva non fondate le ulteriori censure volte a
prospettare una incompatibilità logica tra la forza intimidatrice esercitata dal
sodalizio e il quadro sistematico di collusioni ed intese corruttive che le attività
d’indagine avevano svelato. Infatti, sulla base degli argomenti illustrati dai
Giudici di merito, le censure mosse al riguardo muovevano dal presupposto che
la capacità di intimidazione derivante dal vincolo associativo del sodalizio in

amministrazione. Ma in realtà tali soggetti, secondo quanto prospettava
l’ordinanza, non costituivano la controparte dell’organizzazione, bensì, una volta
assicurata la loro collaborazione, anche e soprattutto con metodo corruttivo, una
provvista di opportunità per il gruppo, idonea a costituire un ulteriore motivo di
timore da parte dei possibili concorrenti nei settori economici dallo stesso
controllati. Infatti, un’organizzazione di tipo mafioso, specie all’interno di una
realtà politica, economica e sociale come quella della Capitale, evidentemente
connotata da una peculiare fluidità di relazioni e cointeressenze la cui vischiosità
non pare riscontrabile in altre aree territoriali, tende a preferire il ricorso al
metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della
posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed
economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete
forme di manifestazione.
Sotto il primo aspetto, il Tribunale aveva rilevato che il sodalizio aveva agito
sotto le formali vesti di un comune corruttore, nella piena consapevolezza che il
pubblico funzionario corrotto era ancor più incentivato ad osservare e mantenere
l’accordo sinallagmatico perché sapeva di poter rischiare eventuali rappresaglie
qualora avesse deciso di rompere il muro dell’omertà; in relazione al secondo
aspetto, inoltre, aveva posto in rilievo come fosse la dinamica relazionale interna
al fenomeno corruttivo, con il possibile coinvolgimento penale del soggetto
pubblico, a ridurre al minimo i rischi legati alla possibilità di presentare denunce
che, oltre a far emergere i meccanismi del sistema sottostante, conveniente ad
una pluralità di attori parimenti interessati alla sua perpetuazione, avrebbero
comportato, per il pubblico funzionario, una caduta di prestigio e di stima sul
piano professionale.
Dunque gli effetti della forza intimidatrice immanente al vincolo associativo
erano stati orientati non tanto a determinare il condizionamento delle attività
svolte dai pubblici funzionari corrotti – che per lo più tenevano ad agire quali
soggetti aggregati ad un sodalizio criminale la cui piena funzionalità ne preserva
ed incrementa gli illeciti interessi – quanto, invece, a creare e mantenere,
all’esterno, le condizioni di una conventio ad excludendum volta ad impedire ogni
16

esame avesse come “platea di vittime” anche soggetti appartenenti alla pubblica

possibilità di libera partecipazione alle gare pubbliche da parte di imprese che
non intendano conformarsi al sistema di “regole” imposte dall’organizzazione
criminale.
Un ulteriore profilo di gravità della base indiziaria sull’intimidazione, oggetto
di apprezzamento da parte del Tribunale del riesame, investiva la natura e la
rilevante estensione dei rapporti che il sodalizio in esame aveva intrattenuto con
esponenti di altre organizzazioni criminali di stampo mafioso operanti in Roma e
nel resto d’Italia.

aver avuto contatti significativi, fra l’altro, con il “clan” dei fratelli Senese, con il
“clan Casamonica, con Diotallevi Ernesto – esponente della c.d. “banda della
Magliana” e tramite del sodalizio con la mafia siciliana di Calò Pippo – nonché con
l’organizzazione facente capo ai fratelli Esposito e con De Carlo Giovanni, a sua
volta in rapporti con gli esponenti della criminalità organizzata romana.
Dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Cassia Sebastiano era
emerso, inoltre, che il “clan” mafioso Santapaola si rivolgeva al gruppo del
Carminati in caso di delitti da commettere sul territorio di Roma.
Ulteriori rapporti di collaborazione erano stati individuati con Rotolo Rocco e
Ruggiero Salvatore, esponenti di famiglie della ‘”ndrangheta” operanti in Roma nei cui confronti è stata parimenti applicata la misura della custodia cautelare in
carcere – ed entrambi ritenuti inseriti a pieno titolo nell’organizzazione romana
allo scopo di mantenere le relazioni fra le due compagini criminali. Si evinceva
altresì dall’ordinanza di riesame che il Carminati era da anni in rapporti d’affari
con il “clan” Mancuso di Limbadi – radicato nel territorio vibonese e con saldi
collegamenti con le cosche dei Piromalli, dei Mammoliti, dei Pesce, dei
Mazzaferro e dei Rugolo – attraverso la figura di Campennì Giovanni, ritenuto
imprenditore di riferimento di quel sodalizio di stampo “ndranghetista”. Al
riguardo, i Giudici di merito avevano posto in rilievo la circostanza che sia il
Rotolo che il Ruggiero, quali referenti della cosca Piromalli, erano stati
accreditati, proprio a seguito di un incarico del Buzzi, presso la famiglia dei
Mancuso, che ha indicato quale suo referente per le attività in Roma il Campennì,
affinché venisse inserito nel sistema delle cooperative gestite dal Buzzi; avevano
evidenziato le linee di un accordo tra il sodalizio romano e lo stesso “clan” dei
Mancuso, attraverso la costituzione di una cooperativa, la “Santo Stefano onlus”, destinata a gestire l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino in Roma.
L’inserimento del Campennì e degli interessi da lui rappresentati nella realtà
romana era stato inquadrato in un contesto di rapporti di lavoro
precedentemente intrattenuti dal Buzzi in Calabria, rapporti che egli stesso
rievocava in una conversazione, intercettata il 2.7.2014, con Rotolo e Ruggiero, i
quali in tale occasione non mancavano di ricordare come egli fosse stato
17

Secondo la ricostruzione dei Giudici di merito il gruppo del Carminati risulta

”rispettato dai Mancuso”, allorquando gestiva un centro di accoglienza per
immigrati nella provincia di Catanzaro, rappresentandogli che, analogamente,
non avrebbero dovuto esserci interferenze sulle attività svolte da famiglie
“ndranghetiste” in Roma. Dal contenuto di un’intercettazione ambientale del 5
febbraio 2014 era emerso che il Buzzi, alla presenza del Campennì, aveva
illustrato al Carnninati l’opportunità di avviare l’attività di pulizia in quella zona
territoriale attraverso la costituzione di una piccola cooperativa, ricevendone
piena approvazione. La predetta cooperativa – che lo stesso Buzzi, in altra

divenuto presidente, aveva espressamente definito come “cooperativa di
‘ndranghetisti’ – risulta avere effettivamente avviato la sua attività nella zona di
Piazza Vittorio in Roma, dal 1 luglio successivo.
Sulla base di tali emergenze indiziarie e di ulteriori elementi di riscontro
desunti dal tenore dei dialoghi oggetto delle conversazioni intercorse fra il Buzzi,
il Rotolo ed il Ruggiero, il Tribunale del riesame aveva tratto la conclusione che le
due organizzazioni criminali avevano interagito dimostrando reciproco rispetto,
nella consapevolezza di possedere una pari “dignità criminale”, nel decidere la
spartizione delle relative sfere di competenza territoriali ed economiche.
Carminati, conversando con il Brugia in seguito alla pubblicazione, il 7
dicembre 2012, di un articolo su un settimanale a diffusione nazionale che lo
qualificava come uno dei “Re di Roma” – da un lato, descrivendo il “terrore” che il
solo fatto di sussurrare il suo nome incuteva in tutta l’area interna al grande
raccordo anulare, e, dall’altro lato, delineando l’avvenuta suddivisione della
Capitale in più zone d’influenza ad opera di distinti gruppi criminali con a capo,
rispettivamente, lo stesso Carminati, Senese Michele, Fasciani Giuseppe e
Casamonica Giuseppe – ne abbia commentato con favore i contenuti e,
soprattutto, l’effetto mediatico legato al rafforzamento della capacità
d’intimidazione del sodalizio negli ambienti imprenditoriali di riferimento.
Nel provvedimento di riesame vi era l’illustrazione dei gravi indizi circa la
consapevolezza, in capo ai sodali, di far parte di un’associazione criminale e della
relativa affectio societatis, e, ancora, la disamina degli elementi sintomatici della
consapevolezza della riconoscibilità

ab extemo dell’esistenza e del rilievo del

sodalizio in esame. Nell’ordinanza, infatti, si osserva come gli associati avessero
adottato ogni possibile mezzo per tutelare la segretezza delle comunicazioni, in
un contesto basato sulla regola dell’omertà verso i soggetti esterni
all’organizzazione.
Nel richiamare, sul punto, i passaggi argomentativi già delineati
nell’ordinanza genetica, il Tribunale del riesame aveva evidenziato la particolare
segretezza che aveva connotato le forme e le tecniche di comunicazione
impiegate dai sodali, i quali hanno fatto generalmente ricorso all’utilizzo di
18

conversazione intercorsa con Colantuono Guido per informarlo che ne sarebbe

utenze telefoniche “dedicate” (con il contestuale e periodico cambio degli
apparati cellulari e delle schede “sim” intestate a persone del tutto estranee al
loro circuito di relazioni), nonché ad appuntamenti in luoghi concordati
attraverso riferimenti allusivi, ovvero al frequente impiego di posti telefonici
pubblici e di esercizi pubblici ritenuti sicuri. Si era altresì evidenziato che ai sodali
era stata imposta una limitazione nel contattare direttamente il Carnninati, e di
non farne mai il nome per telefono.
Al riguardo si era dato conto sia delle “istruzioni” date dal Brugia al

dell’esigenza di assoluta riservatezza cui il Buzzi, richiamando i consigli del
Carminati, ha fatto riferimento in una conversazione oggetto di intercettazione
con il Campennì, in modo da tutelare l’integrità e gli interessi del sodalizio in
esame. Lo stesso Buzzi, inoltre, disponeva di uno strumento elettronico (cd.
“jammer”) fornitogli dal Carminati per disturbare le frequenze e rendere così
inutilizzabili i dispositivi impiegati per le intercettazioni delle conversazioni
ambientali, la cui captazione, infatti, era stata resa possibile solo grazie
all’impiego, da parte delle Forze dell’Ordine, di congegni elettronici
particolarmente sofisticati.
Un elemento rafforzativo della natura omertosa delle relazioni esterne, oltre
che delle modalità di organizzazione interna del sodalizio, era stato individuato
dai Giudici di merito nella disamina della sua configurazione gerarchica,
ravvisabile non solo nell’indiscusso ruolo sovraordinato assunto dal Carminati
rispetto ai sodali operanti sia nel settore criminale che in quello imprenditoriale,
ma anche nella posizione gerarchicamente sovraordinata del Buzzi rispetto alle
attività svolte dai suoi diretti collaboratori.
Nel valorizzare gli elementi indiziari desunti dall’analisi di una serie di
vicende storico-fattuali dettagliatamente descritte nell’ordinanza genetica,
Giudici di merito avevano rilevato come fosse stata una prassi comune
dell’organizzazione quella di avvisare tutti i sodali della presenza di “infami” tra
le loro conoscenze – ossia di persone che non rispettavano l’omertà intesa come
mancanza di collaborazione con gli organi istituzionali – e di isolarli
completamente dal contatto con gli altri membri. Nella stessa prospettiva si è
rilevato che una situazione analoga di assoggettamento e di omertà è stata
riscontrata nel settore economico e in quello della pubblica amministrazione,
dove la percezione esterna della forza intinnidatrice espressa dal sodalizio era
stata talmente radicata e pervasiva, che nessuno, in sede politica ovvero
giudiziaria, aveva mai osato innalzare una voce di dissenso, o sporgere formali
atti di denuncia. L’associazione aveva mostrato la capacità di tutelarsi dalle
possibili conseguenze negative di esternazioni provenienti da pubblici funzionari
che ne avevano favorito l’attività con l’assegnazione di lavori a soggetti
19

Guarnera sul rispetto della regola del silenzio imposta dal Carminati, sia

economici ad essa riconducibili: l’ordinanza di riesame aveva evidenziato, infatti,
come a seguito dell’arresto di Mancini Riccardo Carminati ed il suo gruppo
avevano cercato di garantire la solidità del muro omertoso eretto per tutelare gli
interessi dell’organizzazione, preoccupandosi della sua difesa e di fargli trovare
una certa solidarietà in carcere, al fine di arrestare sul nascere “la possibile
deriva di un personaggio ritenuto “debole” e poco affidabile, ma a conoscenza di
buona parte dei meccanismi operativi dell’associazione, almeno nel settore della
P.A.”. Analogo modus operandi, alla luce della ricostruzione dei fatti offerta

Mancini fu minacciato dall’organizzazione circa l’obbligo di tenere la consegna del
silenzio, secondo quanto affiorato dal contenuto di una conversazione intercorsa
fra il Buzzi ed il Cannpennì il 20.4.2013, dove il primo descriveva al secondo gli
accadimenti successivi all’arresto del Mancini e la condotta tenuta in
quell’occasione dal Carminati (il quale, a sua volta, spiegava in un’altra
conversazione che se il Mancini avesse mantenuto il silenzio, avrebbe usufruito
dei vantaggi offerti dal sodalizio, ed in particolare avrebbe avuto “una partita di
ritorno”).
All’interno del quadro ricostruttivo delineato dai Giudici di merito, lo stesso
contenuto informativo della pubblicazione di un’inchiesta giornalistica dal titolo “I
quattro Re di Roma”, era stato coerentemente valorizzato per avere assunto un
rilievo sintomatico della natura omertosa delle relazioni su cui l’organizzazione
aveva fondato il suo

modus operandi,

poiché Carminatì, nella citata

conversazione con il Brugia, pur ritenendo in parte infondate alcune delle accuse
rivoltegli dalla stampa, ne sottolineava il riflesso positivo sotto un duplice
versante, quello della rafforzata garanzia di un alveo protettivo in favore degli
imprenditori avvicinati e chiamati a rispettare la “regola” del silenzio, che in tal
modo si sentivano “tranquilli”, e, al contempo, quello del timore suscitato
all’esterno in tutti coloro che non operavano nell’orbita d’influenza del sodalizio.
La stessa reiterazione “sistemica” dei comportamenti corruttivì, da un lato, ha
contribuito ad incrementare la “fama” criminale di cui godeva l’organizzazione,
che ha potuto far leva, specie con riferimento agli imprenditori che non hanno
inteso adeguarsi alle “regole” del mercato illegale, sull’aura di invincibilità che
proveniva dalla rete di sostegno offertale da una cerchia di pubblici funzionari
stabilmente asserviti, dall’altro lato si era rivelata funzionale all’incremento di
relazioni omertose, consolidandone lo spessore attraverso il ricatto di un
possibile reciproco coinvolgimento in una denuncia penale, ove si consideri che il
disvalore dell’azione corruttiva è sempre riposto nella garanzia di reciproca
segretezza dello scambio di consensi che lega i protagonisti del patto illecito.
La Corte di legittimità riteneva corretta la qualificazione giuridica ex art.
416-bis cod. pen. delle condotte ascritte, tra gli altri, a Panzironi rilevando che la
20

nell’ordinanza genetica, era emerso alcuni giorni prima dell’arresto, quando

connotazione mafiosa di un’associazione inerisce al modo di esplicarsi dell’attività
criminosa, e non già al luogo di origine del fenomeno criminale (Sez. 1, n. 2466
del 08/11/1984, dep. 22/11/1984, Rv. 166817), sicché non assume un rilievo
decisivo, ad es., la circostanza di fatto che, sia pure a fini strategici, la stessa
possa avere dei collegamenti con quelle che potrebbero definirsi “case madri”,
quali la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Ciascuna entità associativa di stampo
mafioso, infatti, al di là del “nomen” più o meno tradizionale, vive di regole
proprie ed assume altresì connotati strutturali, dimensioni operative ed

modelli debbano essere necessariamente riconducibili ad una sorta di unità
ideale, con la conseguenza che, a ciascun fenomeno associativo, potranno
annettersi caratteristiche peculiari e ritenersi applicabili “massime di esperienza”,
non necessariamente trasferibili rispetto a sodalizi mafiosi di diversa matrice
(Sez. 2, n. 19483 del 16/04/2013, dep. 07/05/2013, Rv. 256042). La
connotazione tipica dell’associazione ex art. 416-bis cod. pen. va dunque
ricercata nella metodologia di tipo mafioso e cioè nell’intenzionalità di usare la
forza intimidatrice e ciò che da essa, direttamente o indirettamente, ne
consegue. Perché la stessa si delinei “è sufficiente il mostrare di volersi avvalere,
il tentare di avvalersi di tale metodologia. Assoggettamento ed omertà sono le
conseguenze prevedibili e possibili dell’uso di tale forza intimidatrice, indicano
l’obiettivo che l’associazione tende a realizzare, costituiscono un possibile
posterius non un prius logico o cronologico”. Non per nulla il legislatore ha
parlato di assoggettamento o di omertà che dall’uso della forza intimidatrice
“deriva” e non che “ne è derivata” (Sez. 6, n. 11204 del 10/06/1989, dep.
22/08/1989, cit.).
La forza di intimidazione del sodalizio è una componente strutturale del suo
“patrimonio” e può sussistere anche a prescindere dalla sua concreta
utilizzazione, giacché ciò che conta è che il timore suscitato dall’associazione
risulti di per sé idoneo a creare un clima di assoggettamento e di omertà, come
conseguenza di una “fama criminale” consolidatasi nel tempo in forza di
precedenti atti dì violenza e sopraffazione.
Ai fini della configurabilità del reato, dunque, non è necessaria la presenza di
un’omertà immanente e permanente, ma è sufficiente che la forza intimidatrice
autonoma del sodalizio sia in grado di ingenerare specifiche condizioni di omertà.
In relazione ai diversi profili evidenziati, si potevano richiamare, quali sicuri
“indici” del metodo mafioso praticato dall’organizzazione in esame, i numerosi
elementi di fatto su richiamati e specificamente posti in luce dai Giudici di
merito, tanto sul versante delle caratteristiche “interne” del sodalizio, che del
modo di agire e di “rappresentarsi” all’esterno, in perfetta sintonia, del resto, con

21

articolazioni territoriali che vanno analizzati caso per caso, senza che i relativi

gli obiettivi ed i metodi operativi enunciati dal Carminati nel “manifesto
programmatico” dell’associazione.
Quest’ultima si era avvalsa di una capacità di intimidazione già collaudata
nei settori criminali più “tradizionali”, per esportarne poi gli stessi metodi, in
forme più raffinate, nei nuovi campi di elezione amministrativi ed economicoimprenditoriali, dove, più che ricorrere all’uso diretto della violenza o della
minaccia, ha sfruttato tutte le possibilità offertegli dal richiamo ad una
consolidata “fama criminale”, senza tuttavia rinunciare al disvelamento, se

l’associazione aveva potuto imporre il suo controllo su gran parte delle attività
dell’amministrazione capitolina, utilizzando uno strumento imprenditoriale già
collaudato, che grazie all’asservimento di pubblici funzionari infedeli, ovvero per
il diretto ricorso a forme di intimidazione, aveva assunto un ruolo
sostanzialmente monopolistico, aggiudicandosi le gare pubbliche nei settori di
interesse e beneficiando altri imprenditori ad esso collegati, senza lasciare spazio
ai concorrenti, costretti a soggiacere alle prevaricazioni del sodalizio senza
nemmeno osare di denunziare il sistema illecito venutosi in tal modo a creare.
Non si è trattato, dunque, secondo il quadro indiziario delineato dai Giudici di
merito, di uno sfruttamento organizzato del potere amministrativo a fini
personali o clientelari attraverso l’abuso sistematico degli organi istituzionali, né,
tanto meno, di forme di manifestazione di una “arroganza del potere” che tende
ad imporre erga omnes le sue condizioni o “regole del gioco”, bensì di una
occupazione dello spazio amministrativo ed istituzionale attraverso un uso
criminale delle forme di esercizio della publica potestas, basato sul possibile
ricorso ad una forza intimidatrice autonoma del vincolo associativo, da questo
direttamente originata e in quanto tale percepita, anche all’esterno, come un
elemento strutturale permanente del sodalizio. In esso si erano manifestate,
secondo la ricostruzione operata dai Giudici di merito, sia la capacità potenziale
di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una pressione idonea a
suscitare soggezione verso i soggetti non affiliati all’organizzazione, sia
l’esteriorizzazione di tale forza intimidatrice in concreti comportamenti violenti e
minacciosi.
L’ordinanza di riesame aveva incentrato la motivazione sulla progressiva
evoluzione di un gruppo di potere criminale che si era insediato nei gangli
dell’amministrazione della Capitale d’Italia, cementando le sue diverse
componenti di origine (criminali “di strada”, pubblici funzionari con ruoli direttivi
e di vertice, imprenditori e soggetti esterni all’amministrazione), sostituendosi
agli organi istituzionali nella preparazione e nell’assunzione delle scelte proprie
dell’azione amministrativa e, soprattutto, mostrando di potersi avvalere di una
carica intimidatoria decisamente orientata al condizionamento della libertà di

22

necessario, delle tipiche forme di manifestazione della sua natura. In tal modo,

iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare, al fine di
controllare gli esiti delle relative procedure e, ancor prima, di gestire gli stessi
meccanismi di funzionamento di interi settori dell’attività pubblica. Tutto ciò era
avvenuto con l’imposizione di “regole”, la cui apparente imperatività è stata resa
possibile solo grazie all’accumulo di una forza criminale ben conosciuta e temuta
nella realtà sociale, fatta valere da un sodalizio in grado di interagire con altre
organizzazioni criminali, anche di natura mafiosa, trattando, da una posizione di
“pari dignità”, la spartizione di settori di attività di rilievo pubblicistico e di aree

alle intese corruttive ha rappresentato, non a caso, una forma privilegiata di
manifestazione delle capacità operative del sodalizio, poiché il disvalore del fatto
corruttivo è intimamente legato ad un atto di scambio tra il pubblico agente e
l’extraneus, la cui natura è destinata a generare la progressiva stabilizzazione di
un rapporto continuativo tendenzialmente volto alla sistematica pretermissione
delle legittime aspettative del terzo escluso. Infatti, è sulla precondizione della
piena conformità dell’azione amministrativa alle norme che oggettivamente ne
disciplinano la trasparenza delle forme di esercizio che riposa la fiducia del terzo,
la cui garanzia di eguale trattamento viene così annullata dal comportamento
illecito dell’intraneus.
La violazione dell’obbligo di fedeltà del pubblico funzionario, specie se
sistematica ed attuata attraverso l’organica adesione di quest’ultimo al gruppo,
da un lato determina la generale sfiducia della collettività nella imparzialità delle
scelte compiute dagli organi amministrativi, dall’altro lato sospinge nell’ombra il
carattere tendenzialmente continuativo del patto illecito, poiché lo rende
invisibile, anche se obiettivamente percepibile, nullificando la “cosa” pubblica
attraverso la elusione della legittima aspettativa del terzo di essere garantito, sia
sul piano informativo che direttamente operativo, circa un uso del potere
pubblico conforme alle regole ed esclusivamente orientato alla tutela di interessi
generali.
Al riguardo si è efficacemente osservato, in dottrina, che la reiterazione
dell’attività corruttiva determina la sostanziale emarginazione del soggetto non
corrotto dalla stessa possibilità di accesso e partecipazione alle attività di rilievo
pubblico, poiché “quanto più la corruzione è diffusa e praticata, tanto minori
sono i rischi di essere denunciati o scoperti, e di conseguenza più elevato il costo
della scelta di rimanere onesti”. In tal senso, dunque, si è affermato che “il
prezzo vero della tangente è la paura”: della concorrenza, del confronto,
dell’innovazione, della perdita del potere o dell’esserne esclusi; paura che si
traduce, in definitiva, nella “illusione dell’immunità dalle regole”. La dimensione
corruttivo-collusiva ha giocato, dunque, un ruolo determinante nelle strategie di
infiltrazione delle organizzazioni mafiose, ed è anzi in tale momento, come si è

23

di influenza nel territorio di Roma. Entro tale prospettiva, il sistematico ricorso

icasticamente rilevato in dottrina, “che la lesione dell’ordine economico e la
lesione dell’ordine amministrativo raggiungono il loro massimo livello e vengono
a congiungersi in una più ampia aggressione allo stesso ordine politicoistituzionale del Paese”.
La strategia di progressiva attrazione di energie imprenditoriali nell’orbita
del sodalizio (“…devono essere nostri esecutori
noi

devono lavorare per

“) era avvenuta di pari passo con la tendenziale estromissione dalle gare

di coloro che non ne facevano parte, o che non intendevano sottostare, nei

struttura imprenditoriale la cui posizione monopolistica è stata sistematicamente
utilizzata dall’organizzazione per conseguire il pieno controllo delle attività della
pubblica amministrazione, condizionandone le procedure e i correlativi
meccanismi decisionali. All’interno di tale quadro ricostruttivo, pertanto, i Giudici
di merito avevano coerentemente valorizzato il peso indiziario del dato oggettivo
rappresentato dallo smisurato aumento del fatturato prodotto dalla rete
imprenditoriale utilizzata dal sodalizio nel breve volgere di un triennio. Essi
avevano altresì osservato come la garanzia di un alveo “protettivo” in favore
degli imprenditori avvicinati sia avvenuta nel contesto di un rapporto paritario,
caratterizzato dalla gestione di affari in comune, così da creare la certezza di
vantaggi reciproci attraverso l’imposizione sul mercato delle imprese che
rientravano nella sfera operativa dell’associazione: in forza del contributo
prestato da imprenditori intranei al sodalizio, sarebbe stato possibile inquinare lo
stesso libero funzionamento del mercato, attraverso l’offerta, in un momento di
grave crisi economica del Paese, di una serie di servizi a prezzi vantaggiosi
anche per l’eventuale committente, che in tal modo avrebbe ottenuto un sicuro
vantaggio ad affidarsi all’organizzazione.
Al fine di realizzare tali obiettivi, la forza intimidatrice del vincolo
associativo, non aveva agito direttamente sui pubblici amministratori per
condizionarne le scelte, ma se ne è servita aggregandoli al proprio apparato
organizzativo per la diretta realizzazione dei suoi illeciti interessi, ovvero
inducendoli a favorire il gruppo attraverso accordi di tipo corruttivo-collusivo che
hanno deformato l’intero funzionamento dell’amministrazione capitolina: in tal
modo si era esaltata la capacità di pressione intimidatoria del sodalizio, la cui
direzione era stata orientata nei confronti di tutti coloro che avrebbero potuto
avvantaggiarsi dei provvedimenti amministrativi e dei contratti della pubblica
amministrazione, scoraggiandone la concorrenza e inducendoli a lasciare il
campo quando erano in giuoco gli interessi delle imprese utilizzate
dall’associazione.
La Corte di legittimità riteneva che la realtà criminale prefigurata dall’art.
416-bis comma 3 cod. pen. non sia certo costituita da un modello oleografico di
24

settori di precipuo interesse, alle “regole” imposte attraverso il predominio di una

associazione mafiosa, ma presupponga una entità organizzativa formata
soprattutto “….per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque
il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e
servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri….”:
siffatta enumerazione, per la sua ampiezza, finisce con il ricomprendere ogni
forma di penetrazione dell’associazione nel mondo economico (pubblico e
privato) caratterizzata dall’uso di metodi mafiosi, sia che essa abbia ad oggetto
coloro che già esercitano l’attività della quale viene acquisita la gestione o il

di poteri decisionali in merito alle concessioni, autorizzazioni ecc..
L’esigenza del controllo di determinate aree territoriali, a sua volta, non è un
elemento costitutivo della fattispecie, ma ne rappresenta un dato implicito,
storicamente registrato.
L’ordinanza di riesame aveva posto in risalto una serie di dati indiziari
ritenuti di specifico rilievo sintomatico ai fini della configurabilità dell’ipotizzata
fattispecie incriminatrice:
a)

le origini e il progressivo consolidamento della “fama criminale”

dell’associazione;
b) il successivo ampliamento della sua base operativa, con lo sfruttamento,
anche attraverso atti concreti posti in essere da più membri del sodalizio, della
forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo al fine di condizionare
l’avvio, lo svolgimento e la definizione di pubbliche gare;
c)

l’incidenza determinante esercitata nella individuazione e nella

conseguente nomina di funzionari compiacenti in posizioni apicali o di vertice
dell’amministrazione, le cui competenze tecniche di ordine generale sono state
distorte per soddisfare gli obiettivi del sodalizio nei settori di suo specifico
interesse;
d)

un quadro di sistematica strumentalizzazione, a vantaggio

dell’associazione, di atti amministrativi i cui evidenti vizi, di merito o di
legittimità, non risultano esser stati in alcun modo sanzionati proprio grazie alla
diffusa condizione di assoggettamento e di omertà che la stessa ha prodotto
nella realtà esterna;
e) le strette relazioni intessute con altri gruppi criminali e, soprattutto, con
esponenti di altre associazioni mafiose, nell’elaborazione di una comune strategia
di intervento in settori di reciproco interesse;
f)

le tecniche di “avvicinamento” verso le energie imprenditoriali della

società civile, da volgere a proprio favore attraverso l’instaurazione di rapporti di
reciproco scambio consistenti, per gli imprenditori affiliati all’organizzazione – e
dai Giudici di merito, dunque, ritenuti “collusi” – nel ricevere vantaggi al fine di
imporsi sul territorio in posizione tendenzialmente dominante, e per il sodalizio

25

controllo, sia che riguardi i possibili concorrenti ovvero i soggetti pubblici investiti

criminoso nell’ottenere una serie di risorse, servizi o utilità per allargare
ulteriormente il suo ambito operativo (Sez. 1, n. 30534 del 30/06/2010, dep.
30/07/2010, Rv. 248321; Sez. 5, n. 39042 del 01/10/2008, dep. 16/10/2008,
Rv. 242318; Sez. 1, n. 46552 del 11/10/2005, dep. 20/12/2005, Rv. 232963):
quegli imprenditori, infatti, non hanno ceduto ad alcuna forma di imposizione
esterna, subendo il relativo danno ingiusto, ovvero limitandosi a perseguire
un’intesa volta a restringerne l’ambito, ma hanno, a differenza dell’imprenditore
“vittima”, consapevolmente rivolto a loro profitto il fatto di essere venuti in

Era emerso in tal modo un fenomeno criminale basato sulla pretesa
teorizzazione di forme di illecita interrelazione fra strati diversi della società, e
connotato dal ricorso a modalità di intervento solo apparentemente più moderne,
perché concepite quale cerniera di mediazione con aree “rispettabili” e
tendenzialmente non “inquinate” del corpo sociale, ma per sua natura identico a
quello su cui hanno tradizionalmente fatto leva le cd. mafie “storiche”.
Il reato in esame, infatti, può essere commesso da partecipi ad associazioni
criminali, anche a matrice non locale, diverse da quella storicamente inveratasi
in una regione d’Italia (che ne costituisce solo il prototipo).
Assume dunque valenza secondaria, in questa prospettiva, il numero
effettivo dei soggetti coinvolti come vittime, a fronte della diffusività del
fenomeno a danno di un numero indeterminato di persone, che potrebbero in
tempi brevi trovarsi alla mercé del sodalizio. Del resto, la forza prevaricante di
un’organizzazione mafiosa ha capacità di penetrazione e di diffusione
inversamente proporzionali ai livelli di collegamento che la collettività sulla quale
si esercita è in grado di mantenere, per cultura o per qualsiasi altra ragione, con
le istituzioni statuali di possibile contrasto, potendo evidentemente la
intimidazione passare da mezzi molto forti (minaccia alla vita o al patrimonio
quando ci si trovi in presenza di soggetti ben radicati in un territorio, come per
esempio gli operatori economici non occulti) a mezzi semplici come minacce di
percosse rispetto a soggetti che non siano in grado di contrapporre valide difese
(v., in motivazione, Sez. 6, n. 35914 del 30/05/2001, dep. 04/10/2001, cit).
Entro tale prospettiva, è agevole rilevare, sulla base delle su esposte
considerazioni, come la diffusività del fenomeno corruttivo annulli ogni capacità
di resistenza degli organi di prevenzione e controllo, creando i presupposti di una
sub-cultura fondata sull’accettazione di devianti prassi criminali, apparentemente
imposte come “regole” alla cui efficacia imperativa non ci si può sottrarre se non
al prezzo di subire lo scatenamento della forza intimidatrice derivante dal vincolo
associativo di un’organizzazione che, proprio per garantire il rispetto di quelle
“regole”, mira a sostituirsi a quegli organi amministrativi ed istituzionali di cui
pretende di assumere il volto.

26

relazione col sodalizio mafioso.

La Corte di legittimità rilevava, sotto il profilo soggettivo, la configurabilità
del dolo di appartenenza, ove si consideri che nessun radicale mutamento si era
verificato nella evoluzione della interpretazione della fattispecie incriminatrice
ipotizzata, avendo i Giudici di merito proceduto al corretto inquadramento nel
paradigma normativo dell’art. 416-bis cod. pen. di una serie di fatti
coerentemente ritenuti sintomatici della presenza del requisito della gravità
indiziaria di cui agli artt. 273 ss. cod. proc. pen.
Nel caso in esame, dunque, non poteva parlarsi di overruling, come pur

concreta ai canoni del modello normativo generale ed astratto delineato dal
legislatore con la introduzione della figura criminosa prevista dalla L. 13
settembre 1982, n. 646. Secondo una costante linea interpretativa di questa
Suprema Corte, che la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi
in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del
sodalizio, tale da implicare, più che uno “status” di appartenenza, un ruolo attivo
in base al quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo (Sez. 1, n.
39543 del 24/06/2013, dep. 24/09/2013, Rv. 257447). È altresì necessario che il
partecipe si rappresenti l’attualità dello sfruttamento della forza intímidatrice del
sodalizio, condividendo (o almeno conoscendo) gli scopi in vista dei quali esso è
costituito. L’elemento soggettivo del delitto di associazione di tipo mafioso
consiste, infatti, nel dolo specifico, avente ad oggetto la prestazione di un
contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel
caso della partecipazione all’ente associativo che nel caso del cosiddetto
“concorso esterno”: il dolo del partecipe, tuttavia, si distingue da quello del
concorrente sotto il diverso profilo che il primo vuoi fornire il descritto contributo
dall’interno dell’associazione, mentre il secondo, in corrispondenza del carattere
atipico di una condotta rilevante per effetto del citato art. 110, intende prestarlo
senza far parte della compagine sociale (Sez. 1, n. 4043 del 25/11/2003, dep.
03/02/2004, Rv. 229992).
Muovendosi entro tale prospettiva ermeneutica, l’inserimento stabile di
taluni dei ricorrenti, fra cui Panzironi Franco, all’interno dell’associazione era
stato desunto non solo dalla disamina del contributo che essi hanno offerto
attraverso la commissione dei diversi reati-fine evidenziati nell’ordinanza
impugnata, ma anche dagli specifici elementi sottoposti ad esame.
La Corte di legittimità affermava conclusivamente il principio di diritto
secondo cui: “Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere
di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla
quale derivano assoggettamento ed omertà può essere diretta tanto a
minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le
essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie

27

prospettato in alcuni rilievi difensivi, ma della riconduzione di una fattispecie

di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo,
tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura
organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di
prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti
diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di
settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da
determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative
da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio”.

La corte di legittimità rilevava che i motivi di ricorso che investivano il tema
della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, pur
presentati come mancanza e manifesta illogicità della motivazione e della
violazione di legge, contenevano censure che, sollecitando una revisione della
valenza degli elementi indiziari e delle caratteristiche soggettive dell’indagato,
non sono proponibili con il ricorso per cassazione, dato che il controllo di
legittimità non ammette incursione nel merito delle risultanze processuali, ma è
circoscritto alla verifica della tenuta logico-argomentativa della decisione.
La Corte di legittimità osservava che l’ordinanza impugnata, la cui
motivazione si integra con quella che sorregge il provvedimento impositivo della
misura cautelare, contiene un’adeguata valutazione critica delle emergenze
probatorie a carico del ricorrente, nonché una logica confutazione delle deduzioni
esposte dalla difesa a sostegno della richiesta di riesame.
In particolare, la Corte di legittimità rilevava che il Tribunale di riesame
aveva ampiamente e logicamente giustificato la ritenuta partecipazione del
ricorrente all’associazione di stampo mafioso diretta dal Carminati sulla base di
una copiosa messe di elementi di prova dotati di autonoma, concludente capacità
dimostrativa anche una volta esclusa da parte del giudice del riesame la
circostanza, invece affermata nell’ordinanza genetica, dell’esistenza di contatti
diretti tra Panzironi e Carminati. Vengono in rilievo a tale proposito le estese,
esaurienti e coerenti considerazioni sviluppate nell’ordinanza impugnata circa:
1) il continuativo apporto fornito dal Panzironi all’associazione (p. 18; pp. 45
e ss.) in occasione dei molteplici, documentati episodi nei quali il ricorrente pone
al servizio del sodalizio il suo diretto accesso col Sindaco Alemanno e il suo vero
e proprio dominio sull’AMA e le sue controllate allorché insorgono problemi di
rilievo in materia di gare pubbliche, pagamenti e stanziamenti di bilancio;
2) le plurime circostanze che convergono nel definire il rapporto Buzzi Panzironi in termini eccedenti la corruzione sistematica di un pubblico ufficiale da
parte di un disinvolto imprenditore, poiché in realtà chi tratta con Buzzi sa bene
chi e cosa Buzzi incarni e rappresenti (p. 48/51), tanto più nel caso di un
amministratore che, come il ricorrente, per molti anni aveva operato ai massimi
28

Il ricorso proposto da Panzironi Franco veniva pertanto ritenuto infondato.

livelli dell’amministrazione comunale ed era per questo perfettamente al dentro
dei più reconditi meccanismi politico – burocratici, avendo inoltre condiviso la
militanza politica nella destra sociale ed eversiva (della quale Carminati era
storico esponente) con molti soggetti che, insieme a lui, avevano assunto
importanti responsabilità dì governo locale a seguito dell’elezione di Alemanno
Gianni a sindaco di Roma (p. 18).
Tutto era coerente con quanto i giudici di merito avevano affermato in
ordine all’esercizio della forza intinnidatrice del vincolo associativo, la quale,

condizionarne le scelte, ma è stata usata dall’associazione come indiretta leva
per aggregare questi ultimi al proprio apparato organizzativo, parallelamente
inducendoli a favorire il gruppo attraverso accordi di tipo corruttivo-collusivo che
avevano deformato l’intero funzionamento dell’amministrazione capitolina. Con
l’effetto ulteriore di esaltare in tal modo la capacità di pressione intimidatoria del
sodalizio, la cui direzione era stata orientata nei confronti di tutti coloro che
avrebbero potuto avvantaggiarsi dei provvedimenti amministrativi e dei contratti
della pubblica amministrazione, scoraggiandone la concorrenza e inducendoli a
lasciare il campo quando erano in giuoco gli interessi delle imprese “associate”.
Con la conseguenza che l’ordinanza del riesame era adeguatamente
motivata e immune da vizi logici e giuridici anche laddove afferma a fini cautelari
la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione dell’associazione mafiosa.
Quanto alla dedotta irragionevole disparità di trattamento del ricorrente
rispetto ad altri indagati attribuito all’ordinanza impugnata circa il riconoscimento
della partecipazione all’associazione mafiosa e dell’aggravante di cui all’art. L. n.
203/1991, la Corte di legittimità osservava che l’identità delle condizioni tra i
diversi soggetti era postulata o negata nel ricorso sulla scorta di elementi
descrittivi parziali, per ciò stesso generici e intrinsecamente inidonei a
dimostrare che tutti i soggetti considerati si trovino effettivamente nelle stesse
condizioni; del tutto peculiare dovendosi peraltro ritenere, a vario titolo (il ruolo
preminente esercitato all’interno dell’amministrazione capitolina e delle sue
principali controllate; la continuità e l’importanza del contributo offerto al
sodalizio; la perfetta conoscenza delle relazioni personali e politiche all’interno
della multiforme esperienza della destra romana, ecc), la posizione di Panzironi.
Inoltre, il motivo era inammissibile poiché sollecitava e presupponeva la
valutazione della logicità delle decisioni cautelari, non impugnate, riguardanti
(quanto alla sussistenza del reato associativo e all’aggravante) altri soggetti.
Infondata è stata ritenuta anche la censura relativa al preteso travisamento
delle prove relative alle condotte (corruzione e turbativa d’asta) contestate al
ricorrente ai capi 11), 12) e 13) dell’imputazione provvisoria. L’ordinanza di
riesame aveva spiegato in modo dettagliato ed esaustivo il perdurante dominio

29

come si è detto, non ha agito direttamente sui pubblici amministratori per


operativo esercitato dal ricorrente nell’AMA S.p.a. (e in altre municipalizzate da
questa partecipate) ben oltre la formale cessazione del suo incarico apicale e
dimostra in maniera del tutto idonea ai fini cautelari la corrispondenza delle
illecite dazioni in favore del ricorrente con gli interventi di quest’ultimo, diretti o
tramite Fiscon, per favorire l’aggiudicazione di specifici appalti da parte delle
imprese facenti capo al sodalizio criminale.
La Corte di legittimità osservava a tal proposito che in tema di reati contro
la pubblica amministrazione la tutela penale apprestata dall’ordinamento in

esercente un servizio di pubblica necessità è disposta nel pubblico interesse, il
quale può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il
pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto
investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo
stesso commesso si riferisca all’ufficio già prestato (Sez. 6, n. 39010 del
10.4.2013, Baglivo e altri – fattispecie relativa a concussione commessa da un ex
dirigente di una ASL che, per le sue relazioni, era in condizione di continuare ad
incidere indebitamente sui procedimenti amministrativi di pertinenza dell’ente
presso il quale aveva prestato servizio; Sez. 6, n. 20558 dell’11.10.2010,
Pepoli).
Infine, erano state ritenute infondate anche le censure proposte in tema di
esigenze cautelari, riguardo alle quali si osservava che il giudice del riesame
aveva, nel quadro della presunzione di adeguatezza prevista dall’art. 275 comma
3 cod. proc. pen. correttamente proceduto all’accertamento della pericolosità
sociale, valutando congiuntamente sia la gravità dei fatti contestati che la
personalità dell’imputato anche, ma non solo, alla luce della coincidenza
temporale delle condotte con altra indagine a carico dello stesso Panzironi,
circostanza questa risultante da plurimi elementi acquisiti in questo
procedimento (ad esempio, la conversazione intercettata tra Buzzi e Coltellacci
riportata a p. 48 dell’ordinanza di riesame).

3. A fronte della ampiezza delle risultanze richiamate e del ruolo del
ricorrente, la chiamata in correità di alcuni soggetti effettuata da Panzironi e le
denunzie per calunnia sporte non sono state ritenute significative dal Tribunale in
sede di appello e tale valutazione è conforme agli orientamenti della
giurisprudenza di legittimità.

4. Questa Corte ha infatti chiarito che, ai fini della revoca di misura
cautelare personale, la condotta collaborativa dell’indagato non può comportare,
di per sé sola, una riduzione della pericolosità sociale e condurre a un
automatismo valutativo delle esigenze cautelari che sostituisca il puntuale

30

relazione alla qualità di pubblico ufficiale, d’incaricato di pubblico servizio o di

accertamento della concreta realtà di fatto, riservato al giudice di merito (Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 3488 del 02/12/2009 dep. 27/01/2010 Rv. 245984. Nella
specie, la Corte ha ritenuto corretta la reiezione dell’istanza di revoca proposta
dall’imputato sul rilievo del carattere parziale delle sue dichiarazioni confessorie
e della sua non sicura presa di distanza dal gruppo criminale di appartenenza).
Nel caso in esame i giudici di merito hanno ritenuto che la collaborazione
prestata non era tale da far ritenere cessate le esigenze cautelari ed in tale
motivazione non vi è alcuna violazione di legge o vizio di motivazione, dal

L’avviso di conclusione indagini prodotto dal difensore, che peraltro riguarda
reati fine, non incide su tali valutazioni, anzi, laddove sia da intendersi
dimostrativo della rilevanza della invocata collaborazione, indica che essa si
muovo sul solco di elementi, quali l’indicazione dell’ex Sindaco di Roma, già
individuati dai giudici di merito e valutati dalla Corte di legittimità sia pure sotto
il diverso profilo dell’accesso diretto di Panzironi al Sindaco.
Del resto il Giudice di appello ha ritenuto che “Dall’analisi delle spontanee
dichiarazioni rese dall’imputato nel febbraio e delle risposte fornite nel corso
dell’interrogatorio del maggio di quest’anno, in realtà, non si ricava la
convinzione che Panzironi abbia maturato una reale e genuina volontà di
collaborare. Le dichiarazioni dell’imputato, al contrario, sembrano essere frutto di
una precisa strategia difensiva che, lungi dall’apportare concreti elementi di
novità alle indagini, sembra finalizzata ad alleggerirne la posizione. L’imputato,
in modo strumentale, verosimilmente ritenendo di interpretare le finalità degli
inquirenti, ha fornito una propria interpretazione del fatti che gli vengono
contestati facendo i nomi del sindaco, del suo segretario Lucarelli e
dell’assessore all’ambiente dell’epoca. Tutte le vicende corruttive che gli sono
contestate vengono quindi ricondotte dal Panzironi a consegne di denaro per le
fondazioni: il denaro che Buzzi consegnava a Panzironi, in definitive, non era il
frutto del mercimonio della funzione dell’amministratore e neanche della
semplice corruzione; si trattava di denaro solo preso in consegna e che sarebbe
stato successivamente dato “agli originari destinatari”. Neanche costoro,
peraltro, sono dei corrotti, secondo lo scaltro Panzironi, atteso che egli ha
specificato che si è trattato pur sempre di “atti ufficiali” (dichiarazioni spontanee
del 4 febbraio trascr. Pag. 6: p.m. lel° “… la grana andava ad Alemanno e
Lucarelli..”, Panzironi ” no, no parliamo sempre di atti ufficiali certificati nella
contabilità della fondazione”) . Di fronte alle evidenti emergenze istruttorie che
provano che Buzzi ha consegnato in contanti le somme, Panzironi ha precisato
che, secondo accordi ai quali egli era estraneo, si decise che l’imprenditore
avrebbe consegnato in contanti “la parte di Visconti”. Alla domanda del p.m. se
conoscesse il contenuto di ciascuna consegna, Panzironi risponde “guardi la

31

momento che la relativa valutazione rientra in una plausibile opinabilità.

prima volta mi disse (Buzzi ndr) qua ce ne stanno 15 ..”. La volontà di
giustificare le inequivocabili frasi intercettate (“15000 euro al Panza”) appare sin
troppo palese.
Il tentativo di confondere le acque e di far mostra di un’inesistente volontà
di collaborazione, peraltro, risulta goffo ed inadeguato a fronte
dell’inequivocabile tenore letterale delle frasi intercettate: non solo dalle
esternazioni di Buzzi non emerge mai neanche un labile indizio per poter
sostenere che le somme consegnate a Panzironi abbiano una diversa

Un’occasione in cui si parla dei 15.000 euro settimanali da consegnate a
Panzironi è quella del colloquio con Turella. Ebbene, in tale occasione
l’imprenditore, di fronte alle pressanti richieste di denaro contante da pane del
corrotto funzionario, afferma che deve finire di soddisfare l’amico Panzironi e che
solo successivamente potrà pensare a lui. Appare evidente che l’assimilazione da
parte di Buzzi tra Turella e Panzironi evidenzia la reale natura delle dazioni di
denaro.
Inoltre, deve essere evidenziata l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni
di Panzironi laddove sostiene che Buzzi si sarebbe determinato alle dazioni di
denaro in favore delle fondazioni per puro spirito di liberalità ovvero a causa di
una risalente comune esperienza carceraria con Alemanno. L’intera vicenda
processuale dimostra in maniera inequivocabile che il presidente della
cooperativa 29 giugno non ha mai corrisposto denaro se non in adempimento di
patti corruttivi ovvero per acquisire vantaggi per le proprie aziende.” (p. 6 e 7
ordinanza impugnata).
Il Giudice di appello ha pertanto escluso la rilevanza della collaborazione
rispetto alle esigenze cautelari.
Si tratta di motivazione non manifestamente illogica e quindi non sindacabile
in questa sede.

5. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato e svolge censure di
merito.
Il Tribunale si è limitato a ritenere che le dichiarazioni di Panzironi non
evidenziavano una reale e genuina volontà di collaborare, a fronte del tenore
delle frasi intercettate (p. 6 ordinanza impugnata).
Si tratta di pronunzia sulla tematica sottoposta al giudice di appello che non
è perciò fuoriuscita dal devoluto.
Inoltre, nuovamente, si tratta del tentativo di sottoporre a questa Corte un
giudizio di merito non consentito in questa sede.

6. Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
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destinazione finale, ma vi sono, anzi elementi di senso contrario.

Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta
il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannato al
pagamento delle spese del procedimento.

7. Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà
del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter, delle
disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia della
stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato

citato articolo 94.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Si provveda a norma dell’art. 94 comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso il 25/11/2015.

trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis del

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