Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46450 del 07/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 46450 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Buda Natale, nato a Fiumara il 01/01/1963

avverso l’ordinanza del 21/01/2013 del Tribunale di Reggio Calabria

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.

Data Udienza: 07/06/2013

Oscar Cedrangolo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 21/01/2013, rigettava
l’appello presentato ex art. 310 cod. proc. pen. nell’interesse di Natale Buda
avverso un provvedimento dello stesso Tribunale, adottato nel corso di un
giudizio in corso di svolgimento nei confronti dello stesso Buda, con cui era stata
%

respinta una richiesta di scarcerazione avanzata sul presupposto del decorso del
termine massimo di custodia cautelare con riguardo alla fase del dibattimento.
Il collegio dava atto che l’istanza difensiva si fondava sul presupposto che,
essendo intervenuta sentenza all’esito di rito abbreviato nei confronti di alcuni
coimputati (intranei alla stessa associazione ex art. 416-bis cod. pen. di cui si
assumeva facesse parte il Buda), era stata in quella sede esclusa la sussistenza
della circostanza aggravante di cui al comma 4 del citato art. 416-bis: secondo la
difesa, quella statuizione avrebbe dovuto produrre effetti sul processo in corso di

natura dell’associazione ed essendo pertanto impossibile immaginare che per
alcuni imputati l’associazione fosse armata e per altri no. Dall’esclusione di
detta circostanza sarebbe stato pertanto necessario far derivare la declaratoria di
cessazione dell’efficacia della misura cautelare per intervenuto decorso del
termine massimo di fase (un anno, non più un anno e sei mesi) relativo al
giudizio di primo grado.
Il collegio confermava invece la decisione negativa adottata dal giudice
procedente, considerando che in base al dettato normativo [art. 303 lett. b), n.
3-bis, del codice di rito] per i delitti indicati dall’art. 407, comma 2, lett. a), dello

stesso codice è comunque previsto un aumento di sei mesi per i termini di
custodia cautelare quanto alla fase del giudizio di primo grado: aumento che, in
base alla giurisprudenza di legittimità, deve intendersi di automatica
applicazione. Né, secondo il Tribunale, la decisione adottata in esito al giudizio
abbreviato avrebbe potuto intendersi fatto nuovo idoneo ad una rivalutazione in
senso favorevole al prevenuto.

2. Propone ricorso il difensore dell’imputato, evidenziando che i principi
giurisprudenziali evocati nella decisione impugnata risultano superati da altro
orientamento, di cui si riportano le massime, in particolare con riferimento al
carattere di novità da riconoscere alla sentenza emessa nei confronti dei
coimputati del Buda. Sentenza che, in quanto definitiva sul punto della
negazione della ricordata aggravante, sarebbe suscettibile di produzione anche
nel giudizio in atto ex art. 238-bis cod. proc. pen.
Inoltre, la difesa deduce violazione della legge processuale in ordine al
computo dei termini massimi di restrizione, dal momento che l’aumento da
considerare di automatica applicazione non potrebbe che operare – stando alla
lettera del codice di rito – solo nelle ipotesi in cui non sia stato integralmente
consumato il termine previsto per la precedente fase delle indagini preliminari:
circostanza, questa, non verificatasi nel caso di specie, visto che il rinvio a
giudizio risulta intervenuto allo spirare di detto termine.

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svolgimento nelle forme ordinarie, riguardando la menzionata aggravante la

Con riguardo alla possibilità di considerare quell’aumento anche ai fini del
termine di cui all’art. 303 lett. d) cod. proc. pen., il ricorrente lamenta la
inapplicabilità ed incostituzionalità della previsione in esame, determinando una
ingiustificata disparità di trattamento per gli imputati che abbiano subito una
condanna in appello a seguito di una prima assoluzione (per cui sarebbe
possibile il ricordato aumento) rispetto a chi risulti invece condannato per doppia

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Sotto il profilo della doverosa valutazione, da parte del giudice
procedente, degli elementi desumibili dalla sentenza pronunciata all’esito del rito
abbreviato svoltosi nei confronti dei coimputati, il ricorrente invoca un
precedente di legittimità secondo cui «in caso di ordinanza applicativa di misura
cautelare nei confronti di più soggetti, costituisce fatto nuovo sopravvenuto – di
cui il giudice deve tener conto ai fini della decisione della richiesta di revoca
anticipata da taluni di costoro ai sensi dell’art. 299 comma primo cod. proc. pen.
– quello consistente nella pronuncia adottata dal giudice del riesame con la quale
la misura sia stata effettivamente revocata nei confronti degli altri coindagati»
(Cass., Sez. IV, n. 2033 del 22/08/1996, Simone, Rv 206439); ricorda altresì la
difesa che in base ad altra pronuncia sostanzialmente coeva «può costituire fatto
nuovo, suscettibile di comportare la revoca della misura custodiale, anche la
diversa valutazione del compendio probatorio fatta dal giudice in sede di riesame
in relazione ad alcuni coindagati, specie ove si tratti di procedimenti di
criminalità organizzata, nei quali spesso le posizioni dei soggetti coinvolti sono
strettamente collegate, sì da risultare interdipendenti. Peraltro, l’identità di
posizione processuale, che induce la “estensione” della valutazione favorevole al
coindagato, va analiticamente, sia pure sinteticamente, argomentata e
giustificata dal giudice» (Cass., Sez. V, n. 2204 del 09/10/1995, Favale, Rv
202992).
Nell’interesse del Buda viene poi ricordato ancora un intervento delle Sezioni
Unite, sempre del 1995, tuttavia afferente il correlato problema della
applicabilità ai procedimenti de libertate dei principi in tema di effetto estensivo
dell’impugnazione.
Il ricorrente non considera, peraltro, che l’orientamento

de quo risulta

contrastato non solo da pronunce anteriori (come quella del 1993 evocata dal
Tribunale di Reggio Calabria), ma anche successive: nel 1999 è stato infatti

3

4•0f,

#
,

conforme in primo e secondo grado.

rilevato che «in tema di revoca delle misure cautelari, il fatto nuovo ovvero
l’elemento nuovo idoneo a superare il c.d. giudicato cautelare già formatosi non
può consistere nelle semplice circostanza di una diversa e più favorevole
valutazione delle stesse emergenze di causa effettuata in un altro procedimento
cautelare nei confronti di diverso indagato o imputato. Ogni procedimento
cautelare, infatti, è del tutto autonomo rispetto agli altri procedimenti incidentali
de libertate, ancorché innestati nel medesimo processo, e la frammentazione che
ne deriva implica, per il margine di discrezionalità del giudice nella verifica delle

strumentali che non riflettono una valutazione complessiva della vicenda e sono
inidonee ad influenzarsi reciprocamente» (Cass., Sez. II, n. 5165 del
04/11/1999, Candela, Rv 214667).
Non può pertanto sostenersi che dei riferimenti giurisprudenziali il giudice
adito non abbia tenuto conto, essendosi al contrario il Tribunale determinato a
privilegiare una delle interpretazioni del quadro normativo offerte in sede di
legittimità (pur non avendo citato, a sostegno dell’esegesi accolta, la pronuncia
più recente).
1.2 La peculiarità della fattispecie deriverebbe dalla circostanza che nel caso
in esame l’elemento di novità non sarebbe costituito da una decisione assunta in
sede di provvedimenti de libertate, bensì di merito (financo irrevocabile): il
problema, tuttavia, non muta pure ipotizzando che di quella sentenza definitiva
possa farsi produzione nel dibattimento in corso, non essendo l’art. 238-bis del
codice di rito chiamato a disciplinare gli eventuali limiti alla tenuta del c.d.
giudicato cautelare.
Del resto, ai fini della valutazione dell’appello su cui il Tribunale di Reggio
Calabria era chiamato a pronunciarsi, l’ipotizzato accoglimento delle ragioni
difensive circa la non configurabilità dell’aggravante ex art. 416-bis, comma 4,
cod. pen. anche nei confronti del Buda non avrebbe comportato effetti sulla
durata dei termini di restrizione, come invece invocato nell’interesse
dell’imputato. Per la fase dibattimentale, l’art. 303, comma 1, lett. b), cod.
proc. pen. prevede infatti, al n. 2), che la custodia cautelare perda efficacia
decorso un anno (dall’emissione del decreto che dispone il giudizio, ovvero dalla
sopravvenuta esecuzione della misura) senza che sia stata pronunciata sentenza
di condanna di primo grado: ciò quando si procede per un delitto per cui sia
prevista una pena superiore nel massimo a 6 anni e non superiore a 20 anni di
reclusione, come nel caso in esame qualora si intenda esclusa l’aggravante
ricordata. Ricorrendo invece l’ipotesi dell’associazione armata, per coloro che
promuovono, dirigono od organizzano il sodalizio la pena edittale raggiunge un

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singole posizioni, una diversità di valutazioni e di decisioni provvisorie e

massimo di 24 anni, con conseguente applicabilità del n. 3) del citato articolo,
statuente un termine di fase pari ad 1 anno e 6 mesi.
In ogni caso, il successivo n. 3-bis) sancisce che “qualora si proceda per i
delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), i termini di cui ai numeri 1), 2) e
3) sono aumentati fino a 6 mesi. Tale termine è imputato a quello della fase
precedente ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lettera
d) per la parte eventualmente residua. In quest’ultimo caso i termini di cui alla
lettera d) sono proporzionalmente ridotti”.

2, lett. a, del codice di rito rientra senz’altro – al n. 3) – il delitto di cui all’art.
416-bis cod. pen.: ergo, nel caso che riguarda il Buda «l’aumento fino a sei mesi
della fase dibattimentale di primo grado, previsto dall’art. 303 comma primo lett.
b), n. 3-bis cod. proc. pen. con riferimento ai delitti di cui all’art. 407 comma
secondo lett. a) cod. proc. pen., è automatico, in quanto esplicitamente voluto
dal legislatore in ragione della rilevante gravità di una particolare categoria di
delitti; ne consegue che, ai fini dell’operatività di tale aumento, non è necessario
alcun provvedimento del giudice» (Cass., Sez. I, n. 3043 del 13/01/2005, Sapia,
Rv 230871). Nel 2008 è stata anche ritenuta «manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 303 comma primo lettera b) n. 3bis cod. proc. pen. […] per contrasto con gli artt. 13 e 24 della Costituzione,

nella parte in cui ricollega detto aumento al semplice nomen iuris del reato
contestato e non richiede uno specifico provvedimento del giudice, atteso che
l’art. 3 della Costituzione garantisce trattamento uguale in situazioni uguali
mentre la disciplina citata è in particolare prevista dal legislatore in relazione alla
speciale gravità dei reati» (Cass., Sez. II, n. 40401 del 24/09/2008, Batacchi,
Rv 241863: nella motivazione di tale pronuncia si chiarisce altresì, con
riferimento all’art. 5 par. 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo – che
garantisce che ogni persona arrestata o detenuta ha diritto ad essere giudicata
entro un termine ragionevole oppure posta in libertà – che dai principi
convenzionali non può dedursi in via astratta la durata ragionevole del tempo di
detenzione preventiva, ma che occorre valutare le circostanze caso per caso).
La difesa del Buda rileva che, in concreto, non vi sarebbe alcunché da
recuperare in punto di termini di custodia nella fase precedente a quella in corso,
in quanto il rinvio a giudizio dell’imputato intervenne sostanzialmente nell’ultimo
giorno utile o quasi; contesta poi la possibilità di avvalersi dei termini di fase
previsti dalla lett. d) dello stesso art. 303, comma 1, cod. proc. pen. (per il
giudizio di legittimità), trattandosi di norma da considerare incostituzionale.
L’assunto non può condividersi, peraltro dovendosi prendere atto che il
ricorrente non prospetta una formale questione di legittimità costituzionale del

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Nel novero delle fattispecie incriminatrici contemplate dall’art. 407, comma

suddetto art. 303, comma 1, lett. d) (questione di cui, nel caso in esame,
sarebbe in effetti assai arduo individuare la concreta rilevanza), suggerendo
invece la soluzione – certamente inammissibile – di non applicare la norma, da
«considerarsi

tamquam non esset

secondo una interpretazione

costituzionalmente orientata».
La norma in questione prevede che, per il giudizio dinanzi a questa Corte, la
sentenza irrevocabile di condanna debba intervenire entro nove, dodici o diciotto
mesi dalla pronuncia emessa in grado di appello, a seconda della gravità della

lettera b): in quei casi, infatti, potrebbe darsi che parte di quel termine sia già
stato utilizzato per la fase di primo grado, con la conseguenza che gli anzidetti
nove, dodici o diciotto mesi debbano ridursi in misura corrispondente. E’ altresì
stabilito, però, che in caso di condanna in primo grado, o comunque di
impugnazione proposta solo dal Pubblico Ministero, si deve avere riguardo
soltanto ai termini massimi indicati al comma 4.
Quest’ultima previsione, contrariamente a quanto sembra ritenere il
ricorrente, riguarda l’intera disciplina dei termini di fase per il giudizio di
legittimità, non già le sole ipotesi in cui sia stato necessario computare, nelle fasi
precedenti, parte dei termini anzidetti: laddove un soggetto sia stato condannato
in primo grado (e, deve ritenersi, anche in secondo, altrimenti non si porrebbe
un problema di status libertatis) non bisognerà valutare l’entità della pena inflitta
e dare corso al giudizio entro nove, dodici o diciotto mesi dalla condanna
intervenuta in appello, bensì la pena massima prevista per il reato in forza del
quale il soggetto medesimo risulti in vinculis, e non superare i due, quattro o sei
anni dall’inizio della restrizione.
Potrebbe certamente darsi, a questo punto, che per uno stesso reato Tizio
sia stato condannato con doppia conforme e Caio, assolto in primo grado, sia
stato invece condannato soltanto in appello: in quel caso, per Tizio bisognerà
rispettare i termini di cui al quarto comma dell’art. 303 cod. proc. pen., mentre
per Caio varranno quelli stabiliti dal primo comma, alla lett. d). In ipotesi,
potrebbe anche darsi che per entrambi gli imputati, in stato di custodia cautelare
nel corso del giudizio di primo grado, sia stato utilizzato in tutto o in parte
l’ulteriore semestre previsto dalla lett. b), al n. 3-bis), e che ciò abbia riguardato
proprio la fase di legittimità, non essendo a quel tempo possibile un recupero da
quella delle indagini preliminari. Ne deriverebbe che per Caio, e solo per lui, la
sentenza irrevocabile dovrà intervenire al più entro tre, sei o dodici mesi dalla
pronuncia di secondo grado, pena la perdita di efficacia della misura.
Si tratta comunque, a ben guardare, di una disciplina differenziata che non
viola in alcun modo l’art. 3 Cost., riferendosi a situazioni diverse: ciò anche

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pena inflitta, salvo il disposto dell’appena ricordato n. 3-bis) della precedente

laddove, in ipotesi, la pena inflitta ai due soggetti in questione sia stata identica.
La presenza di una c.d. “doppia conforme”, infatti, comporta regole peculiari
anche sotto altri profili, come ad esempio in punto di deducibilità del vizio di
travisamento della prova (v. Cass., Sez. IV, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi)
o di quello di omessa valutazione di prova decisiva (v. Cass., Sez. II, n. 38788
del 09/11/2006, Levante); per converso, l’affermazione della penale
responsabilità di un imputato assolto in primo grado richiede, da parte del
giudice di appello che riformi quella pronuncia, l’osservanza di regole di giudizio

Né, in concreto, esistono criteri obiettivi per poter intendere deteriore per Tizio,
piuttosto che per Caio, i diversi regimi dettati dall’art. 303, comma 1, lett. d) del
codice di rito nelle due situazioni descritte: Tizio, che avrà comunque sofferto un
periodo di restrizione certamente superiore a quello patito da Caio, avendo
quest’ultimo affrontato il processo di appello in stato di libertà, potrebbe vedere
imminente la scadenza dei termini massimi di custodia cautelare fissati al
comma 4.

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del Buda al pagamento delle
spese del presente giudizio di Cassazione.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di
cui al dispositivo.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp.
att. cod. proc. pen.

Così deciso il 07/06/2013.

a loro volta peculiari (v., da ultimo, Cass., Sez. V, n. 28061 del 07/05/2013).

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