Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46394 del 12/09/2013


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Penale Sent. Sez. F Num. 46394 Anno 2013
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Melia Vincenzo, nato a Platì il 20/04/1929

avverso l’ordinanza emessa il 28/12/2012 dal Tribunale di Reggio Calabria

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Aldo Policastro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. In data 28/12/2012, il Tribunale di Reggio Calabria rigettava la richiesta
di riesame presentata nell’interesse di Vincenzo Melia avverso l’ordinanza
emessa il 31/10/2012 dal G.i.p. dello stesso Tribunale, in forza della quale il
Melia era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari.

Data Udienza: 12/09/2013

Gli addebiti riguardavano la presunta partecipazione del prevenuto
all’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, nella veste di capo di una
articolazione della suddetta associazione nota come “Corona”, operante nei
comuni di Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo (ma con
ramificazioni anche all’estero). Secondo la rubrica, il Melia «era posto al vertice
della struttura, con compiti di decisione, pianificazione e individuazione delle
azioni e delle strategie, altresì impartendo le direttive agli associati; in
particolare dirigendo e organizzando il sodalizio, assumendo le decisioni più

lui subordinati, decidendo e partecipando ai riti di affiliazione, conferendo agli
altri associati cariche e doti, curando i rapporti con le altre articolazioni
dell’associazione, in particolare con la ‘ndrangheta australiana e con la famiglia
Gambino del Connecticut (USA), dirimendo contrasti interni ed esterni al
sodalizio, gestendo in prima persona l’attività di esercizio abusivo del credito e
l’attività usuraria». Due specifiche contestazioni di reato si riferivano a condotte
usurarie che il Melia si assumeva avesse realizzato fra il marzo ed il maggio
2007.
Esaminando le doglianze avanzate dalla difesa, il collegio dava atto che era
stato rilevato un «difetto motivazionale in merito all’assoluta indispensabilità
delle operazioni di intercettazione delle comunicazioni, posto che il contenuto
della richiesta formulata dal P.M. in data 29/04/2006 e quello del decreto
emesso dal G.i.p. in data 02/05/2006 divergono in merito al titolo di reato, per il
P.M. delitto di estorsione, per il G.i.p. rapina – danneggiamento»; la difesa aveva
inoltre eccepito la «mancanza di motivazione in merito alla necessaria
utilizzazione di impianti esterni per il compimento delle operazioni di
intercettazione», e dedotto il difetto di «ogni tipo di prova in merito
all’identificazione del parlatore per come indicato in sede di trascrizione delle
intercettazioni».
Sulla prima questione il Tribunale di Reggio Calabria osservava che «è nel
potere del G.i.p qualificare giuridicamente un fatto di indagine, che peraltro
viene anche descritto e riportato nel decreto di autorizzazione alle operazioni di
intercettazione del 02/05/2006, per come richiamato dalla difesa. Non si tratta,
infatti, di un fatto diverso per cui si ritengono indispensabili le operazioni di
intercettazione, ma dello stesso fatto, qualificato giuridicamente in modo diverso
[…]. Il collegio rileva che, per costante orientamento giurisprudenziale della
Corte di Cassazione in tema di intercettazioni telefoniche, l’obbligo di
motivazione è da ritenersi soddisfatto addirittura allorquando il decreto che le
disponga, pur senza una esplicita e analitica indicazione di seri e comprovati
indizi in base ai quali viene emanato il provvedimento, tuttavia richiami, anche

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rilevanti, impartendo le disposizioni o comminando sanzioni agli altri associati a

per implicito, gli atti di polizia o le eventuali emergenze processuali da cui
risultino gli elementi giustificativi […], “senza la necessità di una specifica
indicazione delle norme di legge e della precisa qualificazione giuridica del reato
ravvisabile nella specie” […]. Il collegio, pertanto […], ritiene che non possa
esservi alcun vizio motivazionale, allorquando il G.i.p., ripresa la ricostruzione
del fatto operata dal P.M. nella richiesta, lo qualifichi giuridicamente in modo
diverso dal P.M., facendo discendere in realtà l’indispensabilità dello strumento
intercettivo proprio dalle attività di indagine già svolte e richiamate, ricostruite

Della seconda eccezione il Tribunale rilevava la estrema genericità, giacché
non risultavano «indicati dettagliatamente il momento in cui gli inquirenti
avrebbero iniziato ad utilizzare (per eseguire le operazioni di intercettazione)
impianti appartenenti a privati diversi da quelli installati presso gli uffici della
Procura della Repubblica di Locri»; ne derivava, secondo i giudici del riesame,
l’infondatezza di una doglianza che non argomentava «in modo specifico e
dettagliato» le ragioni in base alle quali l’operato degli inquirenti avrebbe dovuto
intendersi illegittimo.
La terza censura veniva ritenuta parimenti infondata, sul presupposto della
piena attendibilità della identificazione dei protagonisti delle conversazioni
intercettate, come offerta dai pubblici ufficiali che li avevano ascoltati per lungo
tempo ed erano pertanto in grado di «riconoscere, in uno ai rilievi fotografici e
alle indicazioni derivanti dall’identificazione dei proprietari delle autovetture o
dall’intestazione delle utenze telefoniche monitorate, con certezza l’identità dei
conversanti. Del resto, nessun elemento contrario all’identificazione operata dalla
polizia giudiziaria è stata prodotta dalla difesa che ha solamente indicato
l’assenza in ordinanza cautelare di ogni riferimento in merito all’identificazione
dei conversanti».

2. Avverso l’ordinanza richiamata in epigrafe propone ricorso il difensore del
Melia. Richiamato il contenuto di una memoria prodotta dinanzi al Tribunale di
Reggio Calabria, recante l’articolazione delle doglianze non condivise dal collegio,
la difesa ribadisce le medesime censure.
2.1 Quanto alla dedotta nullità del decreto autorizzativo delle operazioni di
intercettazione, rileva il ricorrente che «il giudice del riesame tenta di elidere la
clamorosa antinomia contenutistica (rispettivamente connotante la richiesta
presentata dal Pubblico Ministero e intesa a ottenere l’autorizzazione a disporre
la esecuzione delle operazioni di intercettazione delle comunicazioni e il relativo
decreto autorizzativo) rivendicando il potere assegnato al giudice di procedere
alla qualificazione giuridica del fatto». Tentativo che però sarebbe fallace, dal

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anche dal G.i.p. nel proprio atto».

momento che nella fattispecie concreta non ci si troverebbe dinanzi ad un
medesimo fatto diversamente qualificato, bensì a fatti storici distinti.
Osserva il difensore del Melia che nel caso in esame «il magistrato
giudicante ha condiviso i contenuti della richiesta formulata dal P.M. (che,
peraltro, espressamente richiama) sì che i medesimi, automaticamente,
sostanziano la motivazione del provvedimento giudiziale a mezzo del quale le
operazioni di intercettazione sono state concretamente disposte. Però, l’organo
giudicante (nell’indicare il reato cui deve essere correlato il mezzo di ricerca della

reato (rapina – danneggiamento). Ciò posto, devesi evidenziare che la diversità
della fattispecie (indicata nel provvedimento di autorizzazione) non era la
conseguenza di una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto. Il
diverso (titolo di) reato – indicato nel provvedimento giudiziale (decreto) – era un
altro fatto storico (ovvero un fatto verificatosi in altro contesto spaziale e
temporale) che non presentava (e non presenta) correlazione alcuna con quello
indicato nella richiesta (estorsione)».
Secondo il ricorrente sarebbe perciò riscontrabile una «netta cesura
argomentativa e logica tra la richiesta del Pubblico Ministero (acriticamente
recepita in motivazione) e il relativo provvedimento giudiziale», insistendo nella
tesi secondo cui «nella fattispecie concreta non si pone un problema di
qualificazione giuridica del fatto (giustificante il ricorso al mezzo di ricerca della
prova) stante la rilevata esistenza di fatti storici ontologicamente distinti aventi
un diverso nomen iuris»: dinanzi a tale constatazione obiettiva il Tribunale
avrebbe in definitiva cercato di «effettuare un intervento salvifico rivendicando il
potere giurisdizionale di procedere a una diversa qualificazione giuridica del
(medesimo) fatto omettendo di considerare che si era in presenza di fatti storici
ontologicamente distinti».
2.2 Circa la presunta nullità del decreto autorizzativo delle intercettazioni (in
particolare, quanto alle comunicazioni fra presenti all’interno di una vettura) per
l’impiego di impianti esterni fuori dalle previsioni di legge e degli stessi limiti del
provvedimento giudiziale, la difesa rileva che «il giudice competente (con
decreto emesso in data 02/05/2006) disponeva di eseguire le operazioni di
intercettazione delle comunicazioni sull’autoveicolo “Seat Alhambra”, in uso a
Romano Nicola, con gli impianti installati nella Procura della Repubblica di Locri.
Di seguito, gli inquirenti (per eseguire le riferite operazioni di intercettazione
delle comunicazioni) noleggiavano e utilizzavano impianti appartenenti a privati
[…]. Ciò posto, devesi rilevare che il compimento delle operazioni per mezzo di
impianti diversi da quelli installati nella Procura della Repubblica è avvenuto in

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prova) procedeva all’indicazione di altra fattispecie penale ovvero di altro titolo di

assenza di decreto motivato ovvero del provvedimento indicante la sussistenza
dei relativi presupposti legittimanti l’impiego dei c.d. impianti esterni».
Quanto alla genericità dell’eccezione, come ritenuta dal Tribunale di Reggio
Calabria, la difesa obietta che non vi era alcuno spazio per indicare il momento a
decorrere dal quale le operazioni di intercettazione sarebbero state svolte nei
termini oggetto di censura, visto che l’assunto della difesa era che tutte le
operazioni medesime fossero state svolte con impianti appartenenti a privati,
dunque ab initio e senza che vi fosse l’onere di segnalare un dies a quo (come

corso del tempo). Né potrebbe qualificarsi generica la doglianza in punto di
mancata precisazione delle ragioni della presunta illegittimità dell’operato degli
inquirenti, dovendosi questa desumere dalla prospettazione stessa dell’eccezione
perché «la censura difensiva riguardava la giuridica inesistenza del
provvedimento previsto della legge (art. 268 comma 3 cod. proc. pen.). Né,
invero, la difesa poteva indicare (nella memoria) un provvedimento inesistente o
riferire (e censurare) argomentazioni parimenti inesistenti (in quanto contenute
in un provvedimento che non esiste!). Di converso, il giudice del riesame
avrebbe dovuto dimostrare l’infondatezza della eccezione difensiva indicando il
provvedimento (asseritamente mancante) e la esistenza di un’argomentazione
afferente la sussistenza dei presupposti legali legittimanti l’impiego degli impianti
appartenenti a privati».
2.3 A proposito infine del vizio motivazionale afferente l’identificazione dei
soggetti fra cui erano intervenute le conversazioni intercettate, la difesa lamenta
che la presunta attendibilità delle indicazioni degli inquirenti nell’individuare il
ricorrente come protagonista di alcuni di quei colloqui costituisce una apodittica
affermazione del Tribunale, dal momento che non risultano atti di indagine di
sorta in cui simili indicazioni siano state trasfuse: semmai dunque vi fosse stata
una identificazione vocale, sulla base delle cognizioni dirette di un ufficiale od
agente di polizia giudiziaria, questa non sarebbe stata documentata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 II primo motivo è manifestamente infondato, atteso che dalla stessa
prospettazione difensiva (come si evince dal contenuto della memoria riprodotta
nel corpo del ricorso) emerge la correttezza delle argomentazioni adottate dal
Tribunale di Reggio Calabria.

L’assunto del ricorrente, infatti, è che tra

l’estorsione ritenuta dal P.M. e la rapina

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– con l’ulteriore addebito di

sarebbe stato ragionevole pretendere nel caso di ricorso a impianti differenti nel

danneggiamento –

per cui il G.i.p. risulta aver ravvisato una adeguata

piattaforma indiziaria vi sarebbe assoluta eterogeneità sul piano fattuale: oltre a
doversi rilevare che l’assunto de quo non è comunque illustrato in termini
specifici, in modo da comprendere sotto quale profilo il giudice dimostrerebbe di
aver preso in considerazione un fatto materialmente diverso, è necessario tenere
conto che nella predetta memoria la difesa sottolinea come il decreto
autorizzativo delle intercettazioni riproduca in sostanza la motivazione della
richiesta del Procuratore della Repubblica, a sua volta redatta sulla falsariga del

Se ne deve allora arguire l’impossibilità, sul piano logico, di ammettere che il
G.i.p. si sia riferito ad un episodio storicamente differente da quello che gli
inquirenti avevano qualificato come vicenda estorsiva, altrimenti il
provvedimento emesso non avrebbe ricalcato – tanto meno “integralmente”,
come sostiene il ricorrente – la richiesta del P.M.; a dispetto della ribadita tesi
difensiva, pertanto, ci si trova dinanzi ad una semplice attribuzione da parte del
giudice, allo stesso fatto, di un nomen iuris ritenuto più acconcio alla fattispecie.
Attribuzione che, per le ragioni correttamente espresse nell’ordinanza
impugnata, rientrava appieno nelle prerogative del giudicante.
1.2 Le doglianze espresse con il secondo motivo di ricorso debbono essere
parimenti disattese, malgrado il Tribunale abbia in effetti rigettato il profilo di
gravame con argomentazioni incongrue. In vero, non ha pregio il rilievo dei
giudici del riesame secondo cui non sarebbe stato chiarito a partire da quando
avrebbero avuto inizio le operazioni di intercettazione mediante impianti diversi
da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, essendo pacifico che la
difesa intendeva censurare l’intero svolgimento delle operazioni de quibus:
tuttavia, è altrettanto evidente che il ricorrente formula censure assolutamente
generiche, facendo riferimento ad impianti presi a noleggio presso ditte private
senza tenere doverosamente distinti gli apparati strumentali all’attività di
registrazione in senso proprio rispetto a quelli, ad esempio, volti alla captazione
dei colloqui da monitorare. La giurisprudenza di questa Corte in tema di
possibilità di utilizzo di impianti diversi da quelli in dotazione all’ufficio del P.M., a
partire dai chiarimenti intervenuti con la sentenza delle Sezioni Unite n. 36359
del 26/06/2008 (ric. Carli), è infatti consolidata nel senso che «il requisito
dell’inidoneità o insufficienza degli impianti installati presso la Procura della
Repubblica, che legittima il ricorso alle apparecchiature esterne, deve essere
valutato con riferimento esclusivamente alla fase della registrazione, e non
anche alla fase dell’ascolto» (Cass., Sez. I, n. 38160 del 06/10/2010, Palermiti,
Rv 248695): nella motivazione di quest’ultima pronuncia si chiarisce ancor più
diffusamente che «delle cinque fasi attraverso le quali si snoda l’attività di

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contenuto di una presupposta informativa dei Carabinieri di Ciminà.

intercettazione – la captazione, la registrazione, l’ascolto, la verbalizzazione delle
operazioni, la trasposizione dei dati raccolti su appositi supporti informatici – solo
la seconda è stata considerata dal legislatore, ai fini della formulazione della
regola di esclusione, proprio perché la memorizzazione di quanto captato
dall’operatore nel server della Procura serve ad evitare il rischio di manipolazione
della prova, che il legislatore ha ritenuto poter verificarsi in apparecchiature nella
disponibilità di altri che non, per l’appunto, l’ufficio di Procura».
Tenendo conto della regolarità formale dei provvedimenti in tema di

G.i.p. e dal P.M. di Reggio Calabria, sarebbe stato inoltre preciso onere del
ricorrente, in ossequio al principio della autosufficienza del ricorso, allegare gli
specifici riscontri documentali idonei a far emergere che gli “impianti esterni”
oggetto di noleggio consistessero in apparecchiature di registrazione in senso
proprio, piuttosto che – come normalmente accade nella prassi – in peculiari
microspie.
1.3 II terzo motivo di ricorso si rivela infondato sulla base della stessa lettura
dell’ordinanza impugnata. I giudici reggini scrivono infatti, alle pagg. 9 e 10, che
«nessun dubbio sussiste in ordine all’identificazione degli interlocutori, in ragione
del fatto che le intercettazioni si sono protratte per un considerevole lasso
temporale, circostanza questa che ha consentito ai militari operanti di ascoltare
ripetutamente e, quindi, di riconoscere con assoluta certezza la voce degli
abituali interlocutori. A ciò va aggiunta la considerazione che per molti degli
indagati la corretta identificazione è stata possibile grazie alla titolarità ed alla
disponibilità del mezzo intercettato da parte degli stessi (apparecchi telefonici
identificati per scheda telefonica ovvero per numero IMEI, cfr. intestazione
schede telefoniche in atti), ma anche in base al contenuto delle conversazioni,
nel corso delle quali gli interlocutori, il più delle volte, si chiamano per nome o
menzionano persone, chiamandole per nome e cognome, o ancora si appellano
con soprannomi e nomignoli, o fanno riferimento a parentele od a circostanze e
fatti specifici, che rendono del tutto agevole l’identificazione degli interlocutori e
dei terzi menzionati, ed infine anche per la predisposizione da parte dei militari
operanti di accurati servizi di pedinamento, osservazione e controllo, che
conducono in maniera incontrovertibile a ritenere corrette le identificazioni
operate già solo attraverso il riconoscimento delle voci».
Le attività appena descritte riguardano all’evidenza anche la persona del
Melia, ove solo si consideri che alcune intercettazioni ambientali risultano
effettuate presso l’abitazione dello stesso ricorrente (in Ardore, Via Leopardi)
all’esito di incontri che erano stati oggetto di attività di osservazione da parte dei
Carabinieri, come ad esempio risulta a pag. 35 dove si richiamano apposite

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autorizzazione ed esecuzione delle operazioni di intercettazione, qui adottati dal

relazioni di servizio. Senza contare che in alcuni dei colloqui captati la persona
indicata dagli inquirenti come Vincenzo Melia parla di episodi vissuti ascrivibili
con certezza all’indagato (aver passato molti anni fra Stati Uniti e Canada, aver
riportato condanne dopo essere stato arrestato unitamente a tale Commisso: v.
in proposito, ancora a titolo meramente esemplificativo, la trascrizione
dell’intercettazione riportata a pag. 47).

2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del Melia al pagamento delle

P. Q. M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 12/09/2013.

spese del presente giudizio di legittimità.

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