Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46388 del 12/09/2013


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Penale Sent. Sez. F Num. 46388 Anno 2013
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Protto Roberto, nato a Varallo il 20/10/1956

avverso la sentenza emessa il 21/02/2013 dalla Corte di appello di Torino

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Aldo Policastro, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della
sentenza impugnata quanto ai reati sub 4 e 5, con rigetto del ricorso nel resto;
uditi per il ricorrente gli Avv.ti Ezio Audisio e Deborah Abate Zaro, che hanno
concluso chiedendo raccoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza
impugnata

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 12/09/2013

I difensori di Roberto Protto ricorrono avverso la sentenza emessa il
21/02/2013 dalla Corte di appello di Torino, recante la parziale riforma della
sentenza del Tribunale di Alba datata 21/12/2007, con la quale il Protto era stato
condannato alla pena di anni 6 di reclusione (nonché alle pene accessorie di
legge, oltre al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile costituita) per
addebiti di bancarotta fraudolenta relativi alla gestione della Faber S.p.a.,
dichiarata fallita il 26/10/2000 e della quale l’imputato si assumeva essere stato
amministratore di fatto. La pronuncia di secondo grado risulta avere escluso la

pena ad anni 4 di reclusione ed irrogazione della pena accessoria dell’interdizione
temporanea dai pubblici uffici in luogo dell’interdizione perpetua disposta dai
giudici di prime cure.
Le contestazioni di reato per cui è intervenuta condanna – capi 4, 5 e 9
dell’originaria rubrica – riguardano in particolare ipotesi di falso in bilancio
quanto agli esercizi 1998 e 1999, dove sarebbero stati esposti fatti e dati non
rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società anzidetta, così
cagionandone o comunque aggravandone il dissesto: secondo l’ipotesi
accusatoria, il bilancio del 1998, ove correttamente formato, avrebbe dovuto
evidenziare una perdita per circa 9.500.000.000 di lire in luogo del risultato
negativo attestato (pari a 187.264.417 lire), mentre in quello dell’anno
successivo la perdita avrebbe dovuto ammontare ad oltre 16 miliardi, piuttosto
che ai 3 effettivamente esposti. Inoltre, la declaratoria di penale responsabilità
si riferisce alla tenuta delle scritture contabili in modo tale da non rendere
possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, condotta
che viene ritenuta animata dallo scopo di arrecare pregiudizio ai creditori.
I difensori dell’imputato lamentano quanto segue.
1. Violazione degli artt. 238-bis e 192, comma 3, cod. proc. pen.
La difesa rappresenta che i reati contestati al Protto erano da intendersi
commessi (secondo l’ipotesi accusatoria) in concorso con altri soggetti,
separatamente giudicati per diverse scelte processuali: la posizione di costoro
– Paolo Chiappino per il reato sub 4 e Domenico Nigro per quello di cui al
capo successivo – era però stata definita con sentenza di assoluzione per
insussistenza dei fatti addebitati, sentenza che giungeva a conoscenza dei
legali del Protto in epoca posteriore alla condanna pronunciata in primo
grado. La conseguente istanza nell’interesse dell’odierno ricorrente affinché
venisse rinnovato il dibattimento con acquisizione della sentenza e della
perizia tecnico-contabile su cui era stata fondata l’assoluzione del Chiappino e
del Nigro, nonché per l’escussione dello stesso perito (Dott. Aceto), era però
accolta solo in parte dalla Corte di appello, che riteneva ultronea l’audizione

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recidiva inizialmente contestata all’imputato, con conseguente riduzione della

da ultimo sollecitata in ragione del contenuto della sentenza prodotta, che i
giudici di secondo grado ritenevano al contrario coerente con la conferma
dell’impianto accusatorio a carico del Protto. Tale valutazione viene
censurata dal ricorrente, atteso che risulta formulata all’atto stesso
dell’acquisizione della pronuncia ex art. 238-bis del codice di rito, piuttosto
che all’esito del conseguente e doveroso contraddittorio (sul punto, i difensori
richiamano la sentenza n. 29/2009 della Corte Costituzionale, nonché la
giurisprudenza di legittimità secondo cui le sentenze irrevocabili di cui alla

di un coimputato nello stesso o in altro procedimento, bisognevoli di riscontro
ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.). In concreto, la Corte
territoriale avrebbe utilizzato un dato probatorio – l’esistenza di un debito
IVA insinuato al passivo fallimentare solo nell’ottobre 2006, da correlare ai
falsi in bilancio degli anni pregressi quale conseguenza dell’aggravamento del
dissesto – traendolo solo dalla sentenza de qua e mai consentendo che sul
punto venisse compiuta una discussione in contraddittorio, anche alla luce di
eventuali altri elementi di conferma o smentita della sua attendibilità (come
sarebbe invece accaduto dando corso all’esame del perito).
2. Mancata assunzione di prova decisiva, per inosservanza ed erronea
applicazione dell’art. 603 cod. proc. pen.
Il motivo di ricorso è collegato al precedente, quanto all’omessa escussione
del perito: avendo la Corte territoriale disposto la parziale rinnovazione del
dibattimento ex art. 603, comma 2, cod. proc. pen., non avrebbe al
contempo potuto escludere l’esame del Dott. Aceto, certamente non
qualificabile come prova vietata per legge, manifestamente superflua od
irrilevante. Infatti, secondo i difensori del Protto «l’esame del perito avrebbe
comportato una serie di argomentazioni logico-giuridiche che, se ascoltate
dai giudici, avrebbero probabilmente inficiato le argomentazioni poste a base
del loro convincimento».
3. Violazione dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen.
La difesa censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui rigetta
l’istanza di produzione dell’elaborato tecnico di parte allegato ai motivi
aggiunti di impugnazione, presentati a seguito della notizia della ricordata
assoluzione dei coimputati; nell’occasione, non vi sarebbe stato alcun
tentativo di introduzione di temi nuovi, bensì un fisiologico ampliamento dei
motivi principali di gravame già rassegnati, che fra l’altro riguardavano anche
il tema della “cristallizzazione del dissesto Faber”.
4. Carenza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, con riguardo alla ritenuta sussistenza di un aggravamento del

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norma sopra ricordata debbono essere considerate al pari delle dichiarazioni

dissesto della società fallita conseguente alla presunta falsità dei bilanci
del 1998 e 1999
La tesi difensiva è che la recente modifica dell’art. 223 legge fall.
«presuppone che il nuovo reato configurato dal legislatore sia un reato di
evento, dove l’evento è costituito dal dissesto, che deve essere causalmente
collegato al falso in bilancio […]. E’ vero che il dissesto deve ritenersi
sussistente in presenza di un effettivo squilibrio fra attività e passività
dell’azienda, ma, in ragione della nuova articolazione fra condotta illecita,

riconoscere che una situazione di insolvenza eliminata con successo
dall’imprenditore non può dar luogo ad un fatto di bancarotta fraudolenta
societaria, e che non potrà mai dirsi sussistente il reato in parola allorquando
lo stato di decozione dell’impresa sia dovuto non al dissesto cagionato
dall’illecito societario ma ad un nuovo e del tutto autonomo episodio di crisi».
La sentenza impugnata non avrebbe invece tenuto conto di tali principi, e
non avrebbe esplicitato le ragioni per cui le presunte false appostazioni a
bilancio alla fine degli anni Novanta avrebbero cagionato, fra l’altro, il debito
IVA relativo al 2000, espressamente menzionato nel corpo della decisione
(che fra l’altro avrebbe invocato, secondo i difensori, un precedente di
legittimità inconferente).
5. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 216 legge fall., nonché
illogicità della motivazione, con riferimento al capo 9 della rubrica
Nell’interesse del ricorrente si sostiene che la condotta di bancarotta
documentale contestata in nulla si differenzierebbe dalla descrizione di una
ipotesi di bancarotta semplice, non rilevando ai fini della qualificazione
giuridica la mera constatazione della mancanza di una contabilità di
magazzino o del libro degli inventari; appare al contrario assodato che fra le
scritture presenti vi era il libro giornale, ex se sufficiente a consentire la
ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari dell’impresa, come
espressamente confermato dal curatore del fallimento. Né risulta decisiva la
circostanza, al contrario evidenziata dalla Corte territoriale, secondo cui nel
predetto libro giornale risultava omessa l’annotazione di circa 3.000 scritture,
trattandosi di semplice non aggiornamento della stampa di annotazioni
comunque presenti nel sistema informatico della Faber (dato, questo,
confermato dai periti nominati nel corso del giudizio di primo grado e idoneo
già ad escludere il dolo necessario per ravvisare l’ipotesi criminosa più grave,
della quale la difesa sollecita la derubricazione).
6. Nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.,
ancora con riguardo al capo 9

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dissesto dell’impresa e relativa dichiarazione di fallimento, bisogna

I difensori del Protto lamentano che la Corte di appello avrebbe segnalato la
necessità di ascrivere all’imputato la responsabilità di “deliberate
manipolazioni” strumentali a non rendere possibile la ricostruzione del
movimento degli affari e degli atti dispositivi compiuti: condotta che però,
alla luce della contestazione di reato effettivamente mossa e limitata
all’addebito di omessa tenuta delle scritture, comporta una immutazione del
fatto. Stando alle osservazioni dei giudici di secondo grado, sarebbe stato
ravvisabile un reato di cui alla prima parte dell’art. 216, comma secondo, n.

giammai contestato.
7. Illogicità della motivazione della sentenza impugnata per travisamento del
fatto, sempre in relazione al capo 9
I difensori rappresentano che il curatore del fallimento Faber dichiarò di «non
essere in grado di stabilire se certi elaborati contabili […] erano andati persi
oppure erano stati fatti scomparire»; da questa sola affermazione la Corte
territoriale avrebbe ricavato la conclusione che lo stesso curatore aveva
riscontrato manipolazioni delle scritture, circostanza non rispondente al reale
contenuto di quelle dichiarazioni.
Con atto depositato il 05/09/2013, gli stessi difensori del ricorrente hanno
infine eccepito l’intervenuta prescrizione dei reati contestati al Protto, precisando
che la causa estintiva sarebbe maturata il 27 agosto scorso. Nella ricostruzione
operata in detta memoria, i termini di prescrizione sarebbero stati sospesi nel
corso del giudizio di merito a seguito di tre rinvii:
– dal 27 aprile al 18 maggio 2006, su istanza di differimento per motivi di
salute presentata dal difensore di una coimputata;
dal 13 luglio al 23 novembre 2006, per effetto dell’astensione dei
difensori, aderenti ad una iniziativa di categoria;
dal 6 dicembre 2012 al 21 febbraio 2013, su istanza di uno dei legali del
Protto, motivata da ragioni di salute.
La tesi della difesa è che del primo rinvio non dovrebbe affatto tenersi conto,
visto che riguardava la posizione di un soggetto cui erano addebitati reati diversi
da quelli ascritti al Protto, mentre l’art. 161, comma primo, cod. pen. sancisce
che la sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti
coloro che hanno commesso il reato, senza più contemplare – dopo la novella
del 2005 – l’ipotesi dei reati connessi per cui si proceda congiuntamente; la
seconda e la terza causa di sospensione dovrebbero invece operare, ma solo nel
limite di 60 giorni previsto dall’art. 159, comma secondo, cod. pen.

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2, legge fall. per distruzione, sottrazione o falsificazione dei libri contabili,

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso merita un accoglimento soltanto parziale.
1.1 II primo motivo è da considerare manifestamente infondato, dal
momento che non si registra alcuna violazione del principio del contraddittorio,
nei termini lamentati dai difensori del Protto.
Occorre infatti tenere presente che venne ammessa la produzione di una
sentenza e di una relazione peritale, conformemente alle richieste avanzate

dolersi): a quel punto, era del tutto fisiologico e conforme al sistema processuale
che la Corte territoriale, dovendo decidere sull’ulteriore istanza volta a far
disporre l’audizione del suddetto perito, e ritenendo ultronea la rinnovazione dei
dibattimento per acquisire – anche – la prova in questione, esprimesse una pur
implicita valutazione sulla significatività delle prove già ammesse. Valutazione,
del resto, in quel momento neppure limitata alla presa d’atto che, ad avviso della
Corte medesima, quel che il perito avrebbe potuto dichiarare risultava desumibile
dall’elaborato a sua firma, non avendo i giudici di appello formulato elementi di
critica sul contenuto dell’anzidetta relazione prima che le parti avessero
concluso: infatti, come risulta dal verbale di udienza prodotto in allegato al
ricorso, sull’istanza di esaminare il perito i giudici torinesi si riservarono di
decidere unitamente al merito.
1.2 L’assunto della Corte territoriale circa l’inutilità dell’escussione del Dott.
Aceto è invece formulato, del tutto ritualmente, nel corpo della sentenza
impugnata: la motivazione, sul punto, appare immune dai vizi rappresentati
dalla difesa, giacché appariva senz’altro ragionevole considerare che il perito non
avrebbe fatto altro che confermare i risultati delle sue analisi tecniche,
adeguatamente compendiate nello scritto a sua firma. Come dovrà precisarsi
tra breve, è l’analisi della Corte di appello sul contenuto della relazione ad
apparire carente (quanto alla ritenuta derivazione causale del debito IVA di un
miliardo e mezzo, insinuato al passivo fallimentare nel 2006, anche dalle
presunte falsità nelle scritture contabili descritte in rubrica), non invece il
giudizio circa l’inutilità di una prova che nulla avrebbe aggiunto rispetto alle
acquisizioni istruttorie già disponibili.
1.3 Parimenti da disattendere è il terzo motivo di ricorso.

La Corte di

appello, infatti, non ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti di gravame
perché estranei rispetto ai profili di doglianza proposti in sede di impugnazione
principale, ma ha ritenuto irrituale la produzione – in allegato ai motivi aggiunti,
ex se ammessi – di un elaborato tecnico di parte, ritenendo conseguentemente

di non dover esaminare la parte dei suddetti motivi aggiunti dedicata

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nell’interesse dell’imputato (circostanze di cui non può certo essere la difesa a

all’illustrazione della consulenza de qua. E’ del resto lo stesso tenore del ricorso
a precisare che non si trattava di una memoria difensiva, bensì di una relazione
sottoscritta da un consulente incaricato (della quale, in ipotesi, avrebbe dovuto
farsi a sua volta istanza di ammissione ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.).
1.4 In ordine al problema del nesso di causalità tra falsità in bilancio ed
aggravamento del dissesto, la giurisprudenza di questa Corte ha già più volte
affermato – contrariamente alla tesi difensiva sostenuta nell’odierno ricorso che «in tema di bancarotta societaria (art. 223, comma secondo, n. 1 legge

irreversibilità del dissesto, in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause
successive, espressamente dispiegata dall’art. 41 cod. pen. che disciplina il
legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento, sia la circostanza per
cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con
progressione e durata nel tempo (tanto da essere suscettibile di misurazione)
assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di
dissesto già maturato» (Cass., Sez. V, n. 16259 del 04/03/2010, Chini, Rv
247254).
Il principio, diffusamente illustrato nella motivazione della pronuncia ora
richiamata, risulta ribadito anche nelle sentenze più recenti della Sezione Quinta,
laddove si è sostenuto che «il reato di bancarotta impropria da reato societario
sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare anche
solo un aggravamento del dissesto già in atto della società» (Cass., Sez. V, n.
17021 dell’11/01/2013, Garuti, Rv 255090), ovvero – in termini che potrebbero
sembrare decisivi anche nella fattispecie oggi in esame, a sostegno dell’impianto
accusatorio – che «integra il reato di bancarotta impropria da reato societario
l’amministratore di società che esponga nel bilancio dati non veri al fine di
occultare la sostanziale perdita del capitale sociale, evitando così che si
palesasse la necessità di procedere al suo rifinanziamento o alla liquidazione
della società, provvedimenti la cui mancata adozione determinava
l’aggravamento del dissesto di quest’ultima» (Cass., Sez. V, n. 28508 del
12/04/2013, Mannino, Rv 255575).
Venendo appunto al caso concreto, va considerato che, secondo i capi
d’imputazione, le false appostazioni ivi descritte avrebbero comportato uno
squilibrio assai rilevante tra realtà contabile e situazione effettiva della società;
e, quand’anche fosse confermato che un dissesto si era già prodotto (aderendo
alla “nozione dinamica” di dissesto che la sentenza Chini del 2010 fa propria),
sarebbe inevitabile ascrivere valenza di aggravamento a condotte che avrebbero
fatto apparire una perdita di meno di 200 milioni di lire a fronte di una realtà pari

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fall.), rilevano ai fini della responsabilità penale anche le condotte successive alla

a 9 miliardi e mezzo, oppure di 3 miliardi quando sarebbe stato corretto
indicarne 16.
Gli elementi di novità ritualmente acquisiti nel processo di appello celebrato
a carico del Protto (la sentenza intervenute nel giudizio a carico del Chiappino e
del Nigro, e la relativa perizia) erano però assai significativi per far dubitare
dell’esistenza stessa di un aggravamento del dissesto, a prescindere dall’indagine
sulle cause o concause che lo avessero determinato: a pag. 13 di quella
sentenza si legge infatti che «in ordine alla questione concernente l’andamento

cui è processo e, dunque, la configurabilità del nesso di causalità tra false
comunicazioni sociali e dissesto, il perito nella relazione scritta esaminava
l’andamento dell’indebitamento in capo alla Faber S.p.a. a partire dall’esercizio
1997 e fino alla data del fallimento, concludendo nel senso che “sostanzialmente
e complessivamente il passivo societario è rimasto pressoché uguale al
27/10/2000 rispetto al 31/12/1997”; spiegava il perito che, tenuto conto del
fatto che l’analisi era stata predisposta senza poter disporre delle scritture
contabili complete, onde non era stato possibile esaminare la modalità di calcolo
attraverso la quale gli accantonamenti erano stati calcolati, l’esigua differenza tra
i due ammontare di debiti – al 31/12/1997 ed al 27/10/2000 – permette di
concludere per una sostanziale uguaglianza tra i due passivi, onde poteva
concludersi nel senso che la gestione messa in atto dai responsabili a partire dal
01/01/1998 fino al fallimento non aveva prodotto un aggravamento del
dissesto».
Vero è che nella stessa sentenza si rappresenta che il Dott. Aceto aveva
corretto le proprie conclusioni, dando atto che il valore dell’aumento
dell’indebitamento (espresso nella relazione in lire 289.228.235, di qui la
sostanziale sovrapponibilità dei due passivi) avrebbe dovuto incrementarsi di
circa un miliardo e mezzo, a fronte della insinuazione al passivo fallimentare di
un debito capitale IVA sopravvenuta alla redazione dell’elaborato peritale: ma
scrivono i giudici torinesi, sempre nella sentenza pronunciata nei confronti del
Chiappino e del Nigro, che «la sopravvenienza dell’insinuazione tardiva per il
predetto debito verso l’Erario – della quale il perito non aveva potuto tenere
conto e della quale ha correttamente dato atto – non è tale da sovvertire le
conclusioni peritali sopra ricordate, in quanto non trattasi di debito suscettibile di
essere posto in rapporto di derivazione causale dalle false comunicazioni ascritte,
e deriva da esercizio successivo a quelli (1997-1999) presi in considerazione
dalle imputazioni di cui si discute». Osservazione in vero ineccepibile, proprio
perché si trattava di un debito IVA concernente il 2000.

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dell’indebitamento sociale nel periodo riguardato dalle false comunicazioni per

Al contrario, nella sentenza oggetto dell’odierno ricorso la Corte territoriale
prende atto della esistenza di quella insinuazione tardiva per inferirne che un
aumentato indebitamento (ergo, un aggravamento del dissesto) fra il 1997 e il
2000 vi fu senz’altro; ma non affronta in alcun modo il problema se
quell’aggravato dissesto derivò almeno in parte dalle false appostazioni contabili
di cui ai capi 4 e 5. Né può aiutare a tal fine il tenore della rubrica, essendo
impossibile trarre un rapporto di derivazione causale ictu ocull evidente fra una
indebita capitalizzazione di spese pubblicitarie, ovvero una sopravvalutazione di

Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, in parte qua,
con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di
Torino.
1.5 In ordine alla contestata bancarotta documentale, va innanzi tutto
considerato che l’addebito non si fonda soltanto sull’omesso aggiornamento delle
scritture quanto a 3.000 annotazioni, al di là di una possibilità di ricerca dei dati
contabili nella memoria degli apparati informatici in uso presso la società fallita.
A convincere di una ben più generale censura sulle modalità di tenuta dei libri è
infatti la stessa sentenza emessa a carico del Chiappino e del Nigro, a loro volta
condannati per il reato in questione (e senza derubricazioni di sorta): alle pagg.
17 e 18 si legge infatti che «il fondamento dell’imputazione si rinviene nei rilievi
del curatore, il quale osservava che – oltre ad alcune mancanze formali (quali la
mancanza del libro inventari per il 1994, 1997, 1998 e 1999) – dal punto di vista
sostanziale l’apparato contabile era risultato “estremamente carente al fine di
ricostruire con certezza e chiarezza il movimento degli affari”, tanto che il
curatore ha dovuto provvedere con aggravio di attività e di dispendio a fare
rielaborare da consulenti informatici situazioni contabili e patrimoniali (come il
magazzino) che altrimenti non sarebbero mai emerse, ed ha rilevato “deliberate
manipolazioni al fine di rendere irricostruibile il patrimonio degli affari e, quanto
più interessante, gli atti dispositivi posti in essere dagli amministratori”
(relazione del curatore, pag. 146). Ad esempio, notava il curatore che dalle
rielaborazioni effettuate era emerso che 3.300 scritture contabili riferibili ad
operazioni di chiusura del bilancio 1998 non trovavano riscontro sul libro
giornale, fatto che era in sé “sufficiente ad invalidare la sostanzialità delle
scritture contabili della Faber” ed aveva creato “non poche difficoltà alla
ricostruzione dei fatti amministrativi”, e inoltre che la gestione finanziaria era
“improntata ad una sconsiderata movimentazione di cassa” (relazione del
curatore, pag. 146 s.). Anche la analisi della posizione contabile Faber S.p.a. /
Bianchi S.r.l. rilevava una confusione ed una difficoltà interpretativa che rendeva

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rimanenze di magazzino, e un debito IVA.

inattendibile la contabilità sociale, con dubbi sulla effettiva movimentazione
avvenuta (relazione del curatore, pag. 58)».
E’ dunque la stessa pronuncia offerta in produzione dalla difesa, la cui lettura
non può certo limitarsi ai dati utili alla prospettazione del ricorrente, a
sconfessare la fondatezza della doglianza in esame, come pure dei motivi di
ricorso afferenti una presunta immutazione del fatto (laddove peraltro il concetto
di “manipolazione” utilizzato nella motivazione della sentenza qui impugnata non
sembra affatto essere inteso dai giudici di appello come sinonimo di artificio

1.8 Quanto infine alla dedotta prescrizione dei reati in rubrica, è sufficiente
prendere atto della insostenibilità della tesi difensiva circa l’incidenza di un rinvio
dovuto all’astensione del difensore da attività di udienza sulla sospensione dei
termini di prescrizione.
La consolidata giurisprudenza degli ultimi anni afferma infatti che «la
richiesta del difensore di differimento dell’udienza, motivata dall’adesione
all’astensione collettiva dalle udienze, quantunque tutelata dall’ordinamento
mediante il riconoscimento del diritto al rinvio, non costituisce, tuttavia,
impedimento in senso tecnico, in quanto non discende da un’assoluta
impossibilità a partecipare all’attività difensiva. Ne consegue che, in tale ipotesi,
non si applica il limite massimo di 60 giorni di sospensione al corso della
prescrizione, che resta sospeso per tutto il periodo del differimento» (Cass., Sez.
I, n. 25714 del 17/06/2008, Arena, Rv 240460).

Ergo, non solo è doveroso

tenere conto ai fini della prescrizione di un rinvio della trattazione del processo
motivato dall’adesione del difensore ad una astensione dalle attività di udienza,
ma occorre farlo senza contenere nel limite dei 60 giorni il correlato effetto
sospensivo dei termini ex art. 159 cod. pen.; ancor più di recente, si è ribadito
che «in tema di sospensione della prescrizione, il limite di 60 giorni previsto
dall’art. 159, comma primo, n. 3, cod. pen., non si applica nel caso in cui il
differimento dell’udienza sia determinato dalla scelta del difensore di aderire alla
manifestazione di protesta indetta dalle Camere penali, con la conseguenza che,
in tal caso, il corso della prescrizione può essere sospeso per il tempo, anche
maggiore di 60 giorni, ritenuto adeguato in relazione alle esigenze anche
organizzative dell’ufficio procedente» (Cass., Sez. V, n. 18071 dell’08/02/2010,
Placentino, Rv 247142).
Come ricordato, la difesa perviene a individuare la data di prescrizione nel
27 agosto 2013 rappresentando che il rinvio dovuto all’anzidetta astensione
dovrebbe computarsi nei soli limiti di 60 giorni: il differimento de quo fu però dal
13 luglio al 23 novembre 2006, ergo di complessivi 133 giorni. Spostando in
avanti di 73 giorni la data indicata nell’interesse del ricorrente si giunge all’8

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contabile).

novembre, il che esime questa Corte dal dover esaminare gli ulteriori argomenti
portati a sostegno delle ragioni del Protto.

2. Si impone in definitiva l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata, nei termini di cui al dispositivo, con riguardo alla ritenuta
colpevolezza dell’imputato quanto ai reati sub 4 e 5 della rubrica; il rigetto del
ricorso, nel resto, comporta il passaggio in giudicato della declaratoria di penale
responsabilità del Protto per il delitto di bancarotta documentale. Il giudice del

rideterminazione del trattamento sanzionatorio, che nelle precedenti pronunce di
merito non risulta oggetto di autonomo computo.

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni relative ai capi 4 e
5 della rubrica.
Rigetta il ricorso nel resto e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di
Torino per nuovo esame sui capi 4 e 5, nonché per la rideterminazione della
pena con riguardo al capo 9.

Così deciso il 12/09/2013.

rinvio dovrà comunque provvedere, in ordine a detto reato, alla eventuale

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