Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46323 del 21/05/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 46323 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Longo Francesco, nato a Nicolosi il 12/03/1958
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Bologna il 27/10/2011
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Francesco Salzano, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Monica Marciano, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO
1. Il 27 ottobre 2011, la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza
di condanna emessa il 03/11/2003 dal Tribunale della stessa città nei confronti di
Francesco Longo, giudicato responsabile di condotte di bancarotta per distrazione
relativamente alla gestione della Imola Costruzioni s.r.I., dichiarata fallita nel
luglio 1997, di cui si assumeva egli fosse stato socio ed amministratore di fatto.

Data Udienza: 21/05/2013

Nell’ipotesi accusatoria, si assumeva che la distrazione avesse riguardato
beni per circa 32.000.000 di lire: di una parte di quei cespiti era stato lo stesso
Longo (ritenuto dominus della ditta, in un periodo in cui ne era stata nominata
legale rappresentante la di lui convivente) a consentire il recupero a distanza di
tempo, mentre altri erano stati rinvenuti nella disponibilità dello stesso imputato
o di soggetti diversi, senza che costoro avessero titoli di sorta per giustificare AlereA
ne fossero entrati in possesso.

Perciò, la Corte territoriale non riteneva

sostenibile la tesi difensiva del difetto di dolo in capo al prevenuto, cui al

appello convenivano altresì sulle valutazioni espresse in primo grado in punto di
applicabilità dell’attenuante prevista dall’art. 219, ultimo comma, legge fall.,
senza tuttavia poter concedere la riduzione nei termini massimi («posto che la
tenuità del danno non significa nel caso concreto la sua completa trascurabilità,
sia per il numero che per il valore dei beni sottratti, anche in relazione alla quasi
inesistenza di attivo e al passivo accertato, secondo il curatore circa 400 milioni
di lire».
2. Propone ricorso, con atto sottoscritto personalmente, lo stesso imputato.
2.1 Con il primo motivo, il Longo lamenta erronea applicazione degli artt. 42
e 43 cod. pen., facendo rilevare che nel giudizio di appello lo stesso
rappresentante dell’ufficio del P.M. aveva chiesto la riforma della sentenza di
prime cure; il ricorrente segnala che le presunte distrazioni riguarderebbero una
trentina di attrezzi da cantiere, parte dei quali venne rinvenuta là dove era
ragionevole si trovassero (ovvero presso le sedi dove la ditta era impegnata
all’atto del fallimento, o presso le altre imprese che si erano trovate ad operare
negli stessi luoghi, e che all’atto della chiusura dei cantieri avevano in buona
fede ritenuto che quell’attrezzatura fosse per loro disponibile). L’imputato,
dimostrando così un atteggiamento in antitesi con qualunque intento spoliativo o
di frode in danno dei creditori, aveva poi collaborato con la procedura fin dal
momento in cui ciò era stato concretamente possibile.
2.2 Con il secondo motivo, il ricorrente si duole di una erronea applicazione
della norma di cui all’art. 219, ultimo comma, legge fall.
Ad avviso dell’imputato, sarebbe rimasto senza risposta il motivo di appello
incentrato sulla necessità di riconoscere all’attenuante in argomento la sua
massima estensione. Sotto tale profilo, la motivazione adottata dai giudici di
merito sarebbe carente, o quanto meno contraddittorietà, giacché da un lato si
riconosce la tenuità del danno, ma dall’altro non si spiega perché la diminuente
dovrebbe operare solo in termini contenuti.

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massimo poteva riconoscersi una resipiscenza parziale e tardiva; i giudici di

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Deve innanzi tutto disattendersi l’istanza di rinvio formulata a verbale dal
difensore (nominato di ufficio) per difetto di notifica dell’odierna udienza al
proprio assistito, visto lo stato di restrizione del Longo, detenuto per altra causa.
La difesa rileva che sarebbe necessario consentire all’imputato la nomina di un
difensore di fiducia, non avendo egli avuto concreta conoscenza della
celebrazione del processo in data odierna e tenendo conto dell’intervenuta
revoca del precedente difensore di fiducia, nominato per la fase di merito:

Corte è stato ricevuto il 9 aprile 2013 dall’imputato presso il difensore poi
revocato (quale domiciliatario), mentre la successiva revoca risale – come
attestato dallo stesso difensore oggi presente – al 13 maggio.

Ne deriva,

ferma restando l’indubbia ritualità dell’avviso, che il Longo ha avuto un tempo
più che sufficiente per valutare la prospettiva della nomina di altro difensore.
2. Passando a valutare il contenuto del ricorso, questo deve qualificarsi
inammissibile, sia perché finalizzato ad una rivalutazione dei profili di merito
della fattispecie concreta, sia per manifesta infondatezza dei motivi in diritto.
2.1 Innanzi tutto, è evidente che gli argomenti utilizzati dal Longo nel primo
motivo del ricorso a sua firma tendono a sottoporre al giudizio di legittimità
aspetti che riguardano la ricostruzione del fatto e l’apprezzamento del materiale
probatorio, da riservare alla esclusiva competenza del giudice di merito e già
adeguatamente valutati sia in primo che in secondo grado.
Sino alla novella introdotta con la legge n. 46 del 2006, la giurisprudenza di
questa Corte affermava pacificamente che al giudice di legittimità deve ritenersi
preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa, dovendo soltanto controllare se la motivazione della
sentenza di merito fosse intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non potevano avere rilevanza le censure
che si limitavano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la
verifica della correttezza e completezza della motivazione non poteva essere
confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti,
«non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione
dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento» (v., ex plurimis, Cass., Sez. IV, n. 4842
del 02/12/2003, Elia).

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tuttavia, dall’esame degli atti emerge che l’avviso per l’udienza dinanzi a questa

I parametri di valutazione possono dirsi solo parzialmente mutati per effetto
delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606 cod. proc. pen. con la ricordata
novella: in linea di principio, questa Corte potrebbe infatti ravvisare un vizio
rilevante in termini di inosservanza di legge processuale, e per converso in
termini di manifesta illogicità della motivazione, laddove si rappresenti che le
risultanze processuali avrebbero in effetti consentito una ricostruzione dei fatti
alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, purché tale
diversa ricostruzione abbia appunto maggior spessore sul piano logico

pronuncia di condanna).
Si è peraltro più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma «gli
aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del
significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono
rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso
giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e […], pertanto, restano
inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a
sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio» (Cass., Sez. V, n.
8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540). E, proprio con riguardo al principio
dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è da ultimo precisato che esso non ha
comunque inciso sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di
motivazione della sentenza e non può, quindi, «essere utilizzato per valorizzare e
rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto,
eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che
tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice
dell’appello» (Cass., Sez. V, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).
Nella fattispecie oggi in esame, al contrario, l’imputato punta proprio a far
rivalutare a questa Corte le emergenze istruttorie, occupandosi soltanto degli
elementi di fatto a dispetto della dedotta sussistenza di vizi

ex art. 606 cod.

proc. pen.; peraltro, nella prospettazione del ricorrente non si evidenziano neppure al fine di cercare di confutarle – le ragioni esposte dai giudici di appello
in ordine alla insostenibilità della tesi difensiva, laddove veniva sottolineato fra
l’altro che il Longo aveva consentito il recupero di alcuni beni della società
(comunque, non di quelli in rubrica) «solo a seguito delle indagini e ad oltre un
anno dal fallimento».
2. In ordine alla ravvisata attenuante ex art. 219, ultimo comma, legge fall.,
il Tribunale di Bologna indicò una pena base di anni 3 di reclusione, ridotta ad
anni 1 e mesi 6 in ragione dell’attenuante ora ricordata (con ulteriore riduzione
ad anni 1 di reclusione per la concessione delle attenuanti generiche);

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(realizzando così il presupposto del “ragionevole dubbio” ostativo ad una

ineccepibile, e non sindacabile in sede di legittimità in quanto afferente la
determinazione del trattamento sanzionatorio, risulta la motivazione della Corte
di appello, che reputa necessario distinguere la tenuità dalla completa
trascurabilità del danno patrimoniale (che avrebbe in ipotesi consentito una
riduzione “fino al terzo”, come previsto dalla norma de qua).

La Corte

territoriale sottolinea altresì il numero ed il valore dei beni sottratti, dati da porre
in correlazione con un attivo pressoché inesistente e con un passivo calcolato
dalla curatela fallimentare in circa 400 milioni di lire.

atto della prescrizione del reato contestato all’imputato (sopravvenuta il
22/07/2012, in data posteriore alla sentenza di appello): per pacifica
giurisprudenza di questa Corte un ricorso per cassazione inammissibile, vuoi per
manifesta infondatezza dei motivi vuoi per altra ragione, «non consente il
formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la
possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129
cod. proc. pen.» (Cass., Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv 217266,
relativa appunto ad una fattispecie in cui la prescrizione del reato era maturata
successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; v. anche, negli stessi
termini, Cass., Sez. IV, n. 18641 del 20/01/2004, Tricorni).
4. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del Longo al
pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla
volontà del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al
versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di C 1.000,00,
così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.

P. Q. M.
Rigetta l’istanza di rinvio come da motivazione della sentenza.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso il 21/05/2013.

3. Stante la ritenuta inammissibilità del ricorso, non è possibile prendere

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