Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46308 del 30/05/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 46308 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: SAVINO MARIAPIA GAETANA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SPARACIO FRANCESCO N. IL 27/03/1968
avverso l’ordinanza n. 109/2011 CORTE APPELLO di PALERMO, del
21/05/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIAPIA GAETANA
SAVINO;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

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Uditi difenso v .,

U~LAAAAMA. e’v ■,

Data Udienza: 30/05/2013

Ritenuto in fatto
Sparacio Francesco, per il tramite del difensore, ha proposto ricorso per Cassazione avverso
l’ordinanza in data 21-23.5.012 con la quale la Corte di Appello di Palermo ha respinto l’istanza
di riparazione per ingiusta detenzione presentata dal predetto.
Lo Sparacio era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia cautelare in carcere dal
25.1.07 al 15.7.2010, in forza di ordinanza applicativa di custodia in carcere emessa dal GIP del
Tribunale di Palermo in data 21.1.07 per il reato di cui all’art. 416 bis c.p..
Tribunale di Palermo in data 7.8.08), la Corte di Appello di Palermo, con sentenza in data
15.7.2010 irrevocabile il 2.4.011, lo aveva assolto dal reato associativo per non aver commesso il
fatto.
Da tale assoluzione la richiesta ex art 314 c.p.p.di riparazione per l’ingiusta detenzione subita
avanzata dall’odierno ricorrente, respinta dalla Corte di appello.
La Corte di Appello aveva ritenuto la sussistenza di una condotta ostativa al riconoscimento della
riparazione costituita dalla frequentazione da parte di Sparacio di esponenti della malavita
organizzata, quale era emersa dalle intercettazioni e dai servizi di osservazione e controllo svolti
dalla PG operante. Venivano valorizzate l’ accertata presenza dell’odierno ricorrente ad
importanti riunioni cui avevano partecipato i massimi esponenti e i contatti avuti con esponenti di
rango per il recupero di un camion oggetto di rapina, di cui si era interessato il reggente della
famiglia mafiosa di Carini, Pipitone Vincenzo.
In definitiva, benché la sentenza abbia ritenuto che non fossero stati raggiunti elementi
comprovanti, oltre ogni ragionevole dubbio, una partecipazione dell’imputato al reato di
associazione di stampo mafioso, era comunque emerso dalla stessa * l’inserimento dello Sparacio
da un contesto relazionale e ambientale certamente ambiguo e sospetto, del quale facevano
parte soggetti inseriti in gruppi e famiglie mafiose, intrattenendo rapporti con il capo della cosca
mafiosa di Carini Pipitone Vincenzo, e con Pipitone Antonino e Pulizzi Gaspare, condannati nella
stessa sentenza per partecipazione ad associazione mafiosa, la consapevolezza da parte del
predetto della illiceità degli affari trattati dai soggetti che frequentava, tanto che mostrava, come
emerso dalle intercettazioni, di non volerne parlare per telefono.
Tali condotte erano state valutate, prima dal GIP come idonee a fondare un quadro di gravità
indiziaria per l’adozione della misura cautelari, poi dal GUP in sede di rito abbreviato e dalla
Corte di Appello (benché questa fosse prevenuta ad un giudizio di assoluzione) come fortemente
indizianti in ordine alla posizione di contiguità e di vicinanza del medesimo con l’ambiente
mafioso della cosca di Carini.
Riteneva quindi il giudice della riparazione che l’inserimento negli ambienti mafiosi del territorio e
la frequentazioni con i principali esponenti del cosche mafiose, posta in essere dalla Sparacio con
la consapevolezza del rischio di essere coinvolto nella legittima azione repressiva dell’autorità,
integrasse la colpa grave che ha concorso a dare causa all’adozione della misura cautelare nei suoi
confronti, svolgendo un ruolo sinergico nel determinare la misura restrittiva.
A ciò andava aggiunta anche la scelta processuale dell’imputato, che, pure in presenza di elementi
altamenti indizianti di una sua partecipazione al reato associativo, avvalendosi della facoltà di non

Dopo una condanna in primo grado alla pena di anni cinque di reclusione (sentenza GUP

rispondere, non chiariva la sua posizione, omettendo di fornire agli inquirenti spiegazioni volti
ad una diversa lettura dei suoi comportamenti.
Il Ministero del’Economia e delle Finanze, rappresentato dall’Awocatura di stato, si costituiva
chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso.
Il PG della Cassazione chiedeva, con requisitoria scritta, l’inammissibilità del ricorso.
A sostegno del ricorso la difesa di Sparacio deduceva violazione di legge in relazione all’art. 314
c.p., asserendo che le condotte poste dalla Corte di appello a fondamento del diniego della
riparazione, come confermato dalla sentenza di assoluzione di Sparacio, non presentavano alcun
riparazione.
Peraltro la Corte di appello aveva posto alla base del proprio convincimento la decisione
dell’imputato di awalersi della facoltà di non rispondere, che era espressione del legittimo diritto
di difesa, scelta difensiva che, proprio perché tale, non integrava alcuna condotta colposa
sinergica all’adozione della misura cautelare.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Come è noto, l’ambito operativo dell’istituto ex art. 314 c.p. è delimitato dall’accertamento
dell’esistenza di un requisito negativo, ovvero l’istante non deve aver dato o concorso a dare
causa alla detenzione con dolo o colpa grave.
Il Giudice adito per il procedimento di riparazione ha il dovere di verificare se il comportamento
tenuto dall’istante, quale risulta dagli atti (la colpa grave deve potersi desumere dal
provvedimento restrittivo della libertà o dagli eventuali prowedimenti successivi di riesame o di
appello) sia stato tale da porre in essere dolosamente o con colpa grave, la causa o una concausa
dell’emissione del prowedimento restrittivo della libertà, owero, a seguito della sua emissione,
abbia, sempre per dolo o colpa grave, trascurato di portare alla cognizione dell’ufficio elementi
idonei a far cessare lo stato di custodia; l’incidenza del comportamento dell’indagato sulla misura
cautelare può riguardare difatti sia il momento genetico del prowedimento restrittivo, sia la fase
della sua successiva permanenza.
Quanto alla colpa, deve trattarsi di comportamento incauto che abbia avuto incidenza causale
sull’evento della carcerazione preventiva, in quanto valutato come uno degli elementi fondanti i
gravi indizi di colpevolezza che ebbero a giustificare il prowedimento restrittivo della libertà.
Ricorre la colpa grave come causa ostativa del diritto alla riparazione nel caso di condotta
superficiale, connotata da spiccata leggerezza o da macroscopica trascuratezza, tale da superare il
comune buon senso, di tale entità che il verificarsi dell’evento temuto (la misura carceraria),
benché non previsto, deve ritenersi prevedibile dalla generalità di persone di comune esperienza
e buon senso, di grossolana incuria nel difendersi, di ingiustificabile e macroscopica leggerezza nel
non rappresentare all’autorità procedente elementi di fatto, noti all’inquisito, sulla base di quali
avrebbe potuto essere scagionato, o, comunque scarcerato.

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carattere illecito e dunque non potevano giustificare il provvedimento di reiezione dell’istanza di

Siffatti comportamenti sono idonei ad ingenerare nell’autorità procedente il convincimento della
sussistenza dei presupposti della misura cautelare così traendola in errore attraverso una falsa
rappresentazione della realtà.
Quanto poi all’accertamento della sussistenza di un contributo causale, doloso o colposo,
all’adozione della misura restrittiva, come causa ostativa del diritto all’equo indennizzo, il giudice
della riparazione deve compiere tale accertamento attraverso una valutazione ex ante, all’atto
dell’emissione del prowedimento cautelare, che tenga conto degli elementi esistenti a quel
momento, per verificare se il comportamento dell’istante abbia concorso dolosamente e
colpevolezza, il prowedimento cautelare. Dunque tale indagine deve collocarsi nel momento
genetico dell’emissione dell’ordinanza cautelare e deve fondarsi solo sulla situazione indiziaria
sussistente a quel momento, rimanendo preclusi gli ulteriori elementi acquisiti nel successivo
giudizio di cognizione.
In definitiva, l’accertamento della eventuale esistenza della causa ostativa alla riparazione, l’aver
dato causa allo stato di carcerazione, deve essere compiuto indipendentemente dalla sussistenza
o meno degli estremi del reato contestato valutando se la condotta dell’indagato possa avere
svolto un ruolo sinergico nel trarre in errore l’autorità giudiziaria circa la sussistenza dei
presupposti (gravi indizi di colpevolezza) per l’applicazione della misura cautelare carceraria.
Il giudice della riparazione può prendere in considerazione gli stessi comportamenti oggetto
dell’esame del giudice penale, sempre che la valutazione di essi sia eseguita dal primo non con
riferimento ai canoni di giudizio del processo penale, bensì a quelli propri del procedimento
riparatorio, che è diretto non ad accertare responsabilità penali, bensì solo a verificare se talune
condotte abbiano quantomeno concorso a determinare l’adozione del provvedimento restrittivo.
Orbene, nel caso di specie la corte distrettuale si è attenuta a tali principi, avendo ritenuto, con
motivazione adeguata e congrua sotto il profilo logico, sulla base di quanto emerso in sede
processuale, che la condotta dell’istante aveva sostanzialmente contribuito ad ingenerare, sia pur
in presenza di errore dell’autorità inquirente, la rappresentazione di una condotta illecita, dalla
quale è scaturita, con rapporto di causa ad effetto, la detenzione ingiustamente sofferta.
I giudici della riparazione, richiamando circostanze emerse in detta sede, hanno correttamente
ritenuto, che la frequentazione da parte dello Sparacio di appartenenti a cosche mafiose,
integrasse un comportamento equivoco, gravemente imprudente e negligente, idoneo ad
ingenerare la convinzione, con giudizio ex ante, di un suo coinvolgimento nell’azione oggetto di
indagine, contribuendo a determinare l’adozione del provvedimento restrittivo.
Tale comportamento, se non è sufficiente a fondare il giudizio di responsabilità penale, per le
ragioni illustrate nella sentenza di merito, è idoneo ad integrare una condotta gravemente
colposa, ostativa del diritto alla riparazione in quanto, concretizzandosi in frequenti contatti con
esponenti della malavita locale, era idonea ad ingenerare nel giudice il convincimento di un
concorso dell’indagato all’attività criminale contestata e quindi i presupposti di un doveroso
intervento dell’autorità giudiziaria.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha rawisato come elemento indicatore della colpa grave,
nei reati contestati in concorso, la condotta che si sia sostanziata nella consapevolezza dell’attività
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colposamente a determinare, ingenerando nel giudice l’erronea valutazione della sua

criminosa altrui e, nondimeno, nel porre in essere un’attività che si presti, sul piano logico, ad
essere interpretata come contigua a quella criminale.
“In tema di riparazione per ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue, ossia quelle che si
prestano oggettivamente ad essere interpretate come indizi di complicità, quando non sono
giustificate da rapporti di parentela, e sono poste in essere con la consapevolezza che trattasi di
soggetti coinvolti in traffici illeciti, possono dare luogo ad un comportamento gravemente colposo
idoneo ad escludere la riparazione stessa”. (Sez. 3, n. 363 del 30/11/2007 Cc. (dep. 08/01/2008)
Rv. 238782, v. anche Sez. 4, n. 37528 24/06/2008 dep. 02/10/2008 Rv. 241218, Sez. 4, n. 42679
Inoltre, legittimamente i giudici della riparazione hanno posto a fondamento del diniego
dell’istanza di riparazione il silenzio tenuto in sede di interrogatorio dall’indagato, avvalsosi della
facoltà di non rispondere.
Sparacio, di fronte alle contestazioni dell’autorità procedente, ben avrebbe potuto fornire una
logica spiegazione che gli consentisse di contrastare il quadro indiziario nei suoi confronti. Invece
ha scelto di non rispondere all’interrogatorio di garanzia.
E’ pur vero che, come ha più volte affermato la questa Suprema Corte, in tema di riparazione per
ingiusta detenzione, “la colpa dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione,

non può fondarsi solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al P.M. ed al
G.i.p. e nel corso di esame dibattimentale, giacchè la scelta defensionale di avvalersi della facoltà
di non rispondere non può valere “ex se” per fondare un giudizio positivo di sussistenza della
responsabilità, non solo per rispetto delle strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è
stato privato della libertà personale, ma anche in considerazione del legittimo esercizio da parte
dell’imputato e del difensore, che hanno scelto tali strategie, del “diritto di non rispondere”,
riconosciuto dalle norme del procedimento penale, “(art. 64, comma terzo, lett. b) cod. proc.
pen.)”. (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 45154, 4/10/2005, dep. 13/12/2005 Rv. 232821, v. anche
Sez. 4, Sentenza n. 39528, 17/10/2006, dep. 29/11/2006 Rv. 235390)
Tuttavia, è stato anche chiarito, ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione
ostativa della colpa grave dell’interessato e con riguardo non al momento dell’emissione della
misura restrittiva bensì con riguardo al suo permanere, che, fermo restando l’insindacabile diritto
al silenzio o alla reticenza o alla menzogna da parte della persona sottoposta alle indagini e
dell’imputato – nell’ipotesi in cui solo questi ultimi siano in grado di fornire una logica spiegazione,
al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, “non il silenzio
o la reticenza, in quanto tali, rilevano, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto
meno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli, che, se non può essere da solo posto a
fondamento dell’esistenza della colpa grave, vale però a far ritenere l’esistenza di un
comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare, del quale
può tenersi » conto nella valutazione globale della condotta, in presenza di altri elementi di
colpa”.( Cass Sez. 4, Sentenza n. 7296 del 17/11/2011 Cc. (dep. 23/02/2012) Rv. 251928, cfr
Sez. 4, Sentenza n. 26686 del 13/05/2008 Cc. (dep. 02/07/2008) Rv. 240940,

Sez. 4, Sentenza n. 15143 de119/02/2003 Cc. (dep. 01/04/2003) Rv. 224576) .

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24/05/2007 dep. 20/11/2007 Rv. 237898).

In definitiva, qualora l’indagato soltanto sia in grado di fornire una logica spiegazione al fine di
eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, il mancato esercizio di
una facoltà difensiva -quanto meno di allegazione di fatti favorevoli- pur non essendo idoneo a
fondare la sussistenza della colpa grave nell’emissione del prowedimento restrittivo, vale a far
ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere della
misura cautelare..
Non va dimenticato difatti che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione presuppone una
condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di circostanze
Il fatto che lo Sparacio non abbia fatto ricorso ad alcuna spiegazione volta a contrastare il quadro
indiziario, trincerandosi nel silenzio anziché fornire una spiegazione a lui favorevole, costituisce
un comportamento rilevante sotto il profilo della colpa grave, tale da ingenerare nel giudice la
rappresentazione in ordine alla sua colpevolezza.
Sulla base di tali emergenze, deve ritenersi assolutamente corretta l’ordinanza impugnata.
Il sindacato del giudice di legittimità sul provvedimento che rigetta o accoglie la richiesta di
riparazione è, d’altra parte, limitato alla correttezza del procedimento logico-giuridico attraverso
cui il giudice di merito è pervenuto alla decisione;
mentre resta di esclusiva pertinenza di quest’ultimo la valutazione dell’esistenza e dell’incidenza
della colpa o dell’esistenza del dolo.
Anche per tale considerazione, l’ordinanza in esame non merita di essere censurata, essendo la
decisione impugnata del tutto coerente rispetto alle circostanze emerse nella sede processuale,
correttamente valutate dalla corte territoriale e perfettamente in linea con i principi di diritto
affermati da questa Corte in tema di riparazione.
Il ricorso deve essere dunque rigettato. Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero del’Economia e delle
Finanze che si liquidano come da dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione
delle spese in favore del Ministero resistente che -41i liquida’ in complessive euro 750,00, oltre
accessori come per legge.
Così deciso in camera di consiglio il 30.5.013.

che contrastino l’accusa.

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