Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 46110 del 05/11/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 46110 Anno 2015
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 05/11/2015

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di Farina Paolo, n. a Mirandola
(MO) il 21.03.1959, rappresentato e assistito dall’avv. Paolo Petrella,
di fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna, prima
sezione penale, n. 4850/2006, in data 18.07.2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Giulio
Romano che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
sentita la discussione del difensore avv. Paolo Petrella che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

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1. Con sentenza in data 18.07.2013, la Corte d’appello di Bologna
confermava la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di
Modena, in composizione collegiale, in data 20.04.2006, con la quale
Farina Paolo era stato condannato alla pena di anni tre di reclusione
ed euro 3.000,00 di multa per il reato di cui all’art. 648 bis cod. pen.
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nonché
del vincolo della continuazione, con la pena accessoria di legge e la

condanna al risarcimento del danno a favore della parte civile, Baraldi
Raffaella, liquidato in euro 12.000,00.
A Farina Paolo è stato contestato di essersi appropriato dei codici
identificativi del motore, del cambio e del telaio di automezzi non più
in circolazione (perché distrutti in conseguenza di pregressi incidenti
stradali) e di averli applicati su autovetture di provenienza furtiva.
2. Avverso detta sentenza, Farina Paolo, tramite difensore, propone
ricorso per cassazione, lamentando:
– primo motivo: mancanza di motivazione in ordine al primo motivo
d’appello essendosi la sentenza di secondo grado limitata a riportare
il contenuto della pronuncia di primo grado alla quale ha
integralmente aderito omettendo di vagliare criticamente ed
analizzare le censure difensive;
-secondo motivo: mancanza di motivazione in ordine al secondo
motivo d’appello con il quale la difesa aveva eccepito che i fatti
ascritti al prevenuto avrebbero dovuto essere qualificati come
acquisto di cose di sospetta provenienza;
-terzo motivo: mancanza di motivazione in ordine al quarto motivo
d’appello con il quale la difesa aveva eccepito la necessità di acquisire
nuove prove ex art. 507 cod. proc. pen.;
-quarto motivo: erronea applicazione dell’art. 648 bis cod. pen. nella
parte in cui il collegio non aveva ritenuto sussumibili i fatti entro il
disposto di cui al comma 3 dell’art. 648 bis cod. pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, che presenta numerose censure in fatto non scrutinabili
in sede di legittimità, è infondato – per taluni motivi, anche in modo
manifesto – e, come tale, va rigettato.

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2. Con motivazione logica e congrua – e quindi immune dai denunciati
vizi di legittimità – la Corte territoriale dà conto degli elementi che
l’hanno portata ad affermare la penale responsabilità dell’imputato.
Va ricordato, in proposito, che il controllo del giudice di legittimità sui
vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione
di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico
argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto

posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie,
cfr. Sez. 3, n. 12110 del 19/03/2009 e n. 23528 del 06/06/2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della
motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve
essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu
oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che,
anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo
logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. 3, sent. n. 35397
del 20/06/2007; Sez. U, sent. n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv.
214794). Successivamente, è stato ribadito come ai sensi di quanto
disposto dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), il controllo di
legittimità sulla motivazione non attiene ne’ alla ricostruzione dei fatti
ne’ all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla
verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo
rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente
significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o
contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la
congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del
provvedimento (Sez. 2, sent. n. 21644 del 13/02/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542). Il sindacato demandato a questa Corte sulle
ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta
legislativa, un orizzonte circoscritto. Non c’è, in altri termini, come
richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la
motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla
luce del vigente testo dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e)
come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46. Il giudice di

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legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti
ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite,
trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del
merito. Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a
fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare
specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato
dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale

illogicità vada desunta. Il vizio della manifesta illogicità della
motivazione deve essere evincibile dal testo del provvedimento
impugnato. Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di
questa Corte, la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”,
cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata
previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre
che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del
processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non
ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane
giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un nuovo
giudice del fatto. Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della
motivazione anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero
il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di
legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in
forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una
(inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove),
prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per
verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato,
senza travisamenti, all’interno della decisione. In altri termini, vi sarà
stato “travisamento della prova” qualora il giudice di merito abbia
fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad
esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su
un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla
disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero
che la firma apocrifa fosse dell’imputato). Oppure dovrà essere
valutato se c’erano altri elementi di prova inopinatamente o
ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma – occorrerà ancora ribadirlo non spetta comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo
con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice
di merito. Per esserci stato “travisamento della prova” occorre,

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tuttavia, che sia stata inserita nel processo un’informazione rilevante
che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare
una prova decisiva ai fini della pronunzia. In tal caso, però, al fine di
consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato
specificamente nel ricorso per cassazione quale sia l’atto che contiene
la prova travisata o omessa. Il mezzo di prova che si assume
travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività.

Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una
rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto,
sconfinerebbe nel merito. Se questa, dunque, è la prospettiva
ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il
ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano
manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della
sentenza della Corte d’Appello di Bologna alcuna illogicità che ne
vulneri la tenuta complessiva. Rispetto a tale motivata, logica e
coerente pronuncia, il ricorrente chiede sostanzialmente una rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione
di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per
quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile
perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo
giudice del fatto.
3. Manifestamente infondato è il primo motivo. Le osservazioni
critiche ivi articolate si risolvono nella introduzione di temi in fatto
diversi da quelli emergenti dalla ricostruzione – vincolante perché
esente da vuoti logici – resa nel doppio giudizio di conformità operato
dai giudici del merito, assumendo i toni tipici ed altrettanto
inammissibili, delle valutazioni alternative rispetto a quelle segnalate
in sentenza non adeguatamente supportate dall’indicazione dei profili
di manifesta illogicità del motivare della Corte destinati ad inficiarne il
portato. Invero la Corte territoriale, lungi dall’omettere di
pronunciarsi sulle censure difensive sollevate con l’atto di appello, ha
analiticamente indicato quali alterazioni finalizzate ad ostacolarne
l’identificazione avessero subìto le autovetture o parti di esse,
riconducibili alla “mano” del Farina, e precisamente: l’autovettura
Volkswagen Golf, originariamente targata BS38031-1, denunciata
rubata il 05.12.2003 da Militello Ferruccio e venduta a Baraldi

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Raffaella; l’autovettura Lancia Lybra SW, targata CC855WV, con
motore e codice statistico, risultante abbinato all’autovettura tg.
BS832LN, denunciata rubata il 18.11.2003 da Fedeli Nicola; n. un
motore Volkswagen TD avente n. AHF14875 completo di cambio
avente n. DEA2909814, originariamente montato sulla vettura Golf
tg. CB209GL.
4. Infondato è il secondo motivo di doglianza. Occorre

necessariamente premettere come costituisca principio ormai
consolidato della giurisprudenza di questa Suprema Corte che, per
integrare l’elemento oggettivo del reato di riciclaggio, è sufficiente il
mero smontaggio di singoli pezzi, pur privi di codice identificativo, di
un bene mobile registrato, come un’autovettura o un ciclomotore, di
provenienza delittuosa, rientrando tale condotta nella nozione
normativa di operazione adatta ad ostacolare l’identificazione della
provenienza delittuosa del bene (Sez. 2, sent. n. 12766 del
11/03/2011, dep. 29/03/2011, Spagnolo ed altro, Rv. 249678). Al
riguardo, va premesso che, con la riforma attuata dalla L. 9 agosto
1993, n. 328, art. 4, il delitto di riciclaggio è a forma libera, grazie
alla previsione di chiusura che, alle condotte di sostituzione o
trasferimento, ha aggiunto qualsiasi altra operazione atta ad
ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene: è
pacifico che possa trattarsi di operazioni anche meramente materiali
sui beni (diversamente, sarebbe bastato ad integrare il delitto il
trasferimento della

res,

già previsto come condotta rilevante

nell’originaria formulazione della norma incriminatrice), purché tali da
ostacolare “l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Il
riferimento alle condotte che ostacolano l’identificazione della
provenienza delittuosa – e, prima ancora, a quelle di trasferimento icasticamente evidenzia che la condotta del soggetto attivo del reato
può incidere tanto sulla mera identità del bene, ovvero sulla sua
“riconoscibilità”, quanto sulla “tracciabilità” del suo percorso. Invero,
per escludere il delitto di riciclaggio non basta che il bene resti
astrattamente tracciabile se poi, proprio in forza di interventi di
manomissione delle sue componenti, se ne altera l’identità in modo
da non renderlo più riconoscibile. E, per converso, un bene può
restare fisicamente identico e, ciò nondimeno, di difficile tracciabilità

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a cagione di plurimi trasferimenti dopo essere stato sottratto alla
sfera di controllo del suo titolare. Nel caso dei beni mobili registrati, la
tracciabilità è legata alle relative risultanze documentali e queste
ultime all’identità del mezzo che è data non soltanto dagli
identificativi fisicamente impressi sul bene (come i numeri di telaio o
di motore) o comunque ad esso incorporati (come la targa), ma
anche dal modello e dall’epoca di produzione. Di conseguenza, pur

senza intaccare il numero di telaio o di motore dell’autovettura, una
volta smontati taluni pezzi e sostituiti con altri analoghi, ancorché per
ipotesi di modelli differenti (per tipo, epoca e/o casa produttrice), si
ottiene il medesimo risultato, vale a dire la creazione di un bene non
più conforme (e, quindi, di non agevole riconoscibilità) ai numeri
identificativi su di esso rimasti inalterati. Invero, il delitto di
riciclaggio è integrato dal compimento di operazioni volte non solo ad
impedire in modo definitivo, ma anche soltanto a rendere difficile
l’accertamento della provenienza del bene (cfr., Sez. 6, sent. n.
16980 del 18/12/2007, dep. 24/04/2008, Papale). Pertanto, non
corretta è la tesi secondo cui il delitto di riciclaggio non potrebbe
prescindere da un’azione incidente sugli identificativi numerici e/o
documentali del bene mobile registrato, nè questa Suprema Corte ha
mai statuito il contrario. Infatti, come si riconosce in altro precedente
della giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, sent. n. 15092 del
02/04/2007, dep. 13/04/2007, P.M. in proc. Morino e altri, Rv.
236354), se le operazioni tese ad ostacolare l’identificazione della
provenienza delittuosa possono consistere sia in quelle che incidono
sulla cosa o ne alterano i dati esteriori, sia in quelle che lo
trasformano o lo modificano parzialmente, allora anche lo smontaggio
di un veicolo in singoli pezzi è riconducibile a tale categoria di
operazioni. Tale operazione è infatti simile a quelle di taglio di pietre
preziose o lo smontaggio e la fusione di gioielli altrimenti riconoscibili,
che all’evidenza integrerebbero il delitto di riciclaggio, ricorrendone gli
altri presupposti richiesti dalla norma incriminatrice, essendo
oggettivamente e soggettivamente finalizzate ad occultare la
provenienza delittuosa dei suddetti beni. A tale proposito, va
ricordato che questa Corte ha affermato che “la disposizione di cui
all’art. 648- bis cod. pen., pur configurando un reato a forma libera,
richiede che le attività poste in essere sul denaro, bene od utilità di

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provenienza delittuosa siano specificamente dirette alla sua
trasformazione parziale o totale, ovvero siano dirette ad ostacolare
l’accertamento sull’origine delittuosa della res, anche senza incidere
direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in
quanto tale” (Sez. 2, sent. n. 47088 del 14/10/2003, dep.
09/12/2003, Rv. 227731). Non è quindi necessario, per integrare il
delitto di riciclaggio di un autoveicolo di provenienza delittuosa, che

di targa o quello del motore, potendosi ottenere il risultato di
occultarne la provenienza delittuosa anche smontando il veicolo e
vendendo o riutilizzando i singoli pezzi. Smontaggio e riutilizzo
integrano infatti proprio l’elemento specializzante della più grave
fattispecie di riciclaggio (rispetto a quella di ricettazione) consistente,
come detto, nell’ostacolare l’individuazione della provenienza
delittuosa dei beni. Fermo quanto precede, rileva il Collegio come,
nella fattispecie, la dinamica delle condotte accertate (presenza di
numerose manomissioni ed alterazioni in un contesto di interventi del
tutto seriali) non possa lasciare adito a dubbi sulla ricorrenza del
reato di riciclaggio ed esclude in radice la possibilità di ipotizzare
condotte occasionali, fortuite ed inconsapevoli.
5. Infondato è il terzo motivo di doglianza. Invero, per costante
giurisprudenza di legittimità, la mancata assunzione di una prova
decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione – può essere
dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta
l’ammissione a norma dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché
il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il
mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al
giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione
probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato
ritenuto non necessario ai fini della decisione (cfr., Sez. 2, sent. n.
9763 del 06/02/2013, dep. 01/03/2013, Rv. 254974; Sez. 2, sent. n.
841 del 18/12/2012, dep. 09/01/2013, Rv. 254052; Sez. 3, sent n.
24259 del 27/05/2010, dep. 24/06/2010, Rv. 247290, secondo cui la
mancata ammissione di prove sollecitate al giudice ai sensi dell’art.
507 cod. proc. pen. non costituisce un vizio deducibile ai sensi
dell’art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen.).

4/1

siano alterati i dati identificativi dello stesso quali il telaio, il numero

6. Manifestamente infondato è il quarto motivo di doglianza.
Invero, come correttamente precisato dalla Corte territoriale, la
fattispecie di cui all’art. 648 bis, comma 3, cod. pen., è
impropriamente evocata, posto che i reati presupposti risultano
essere furti aggravati (la sottrazione di un’autovettura costituisce
sempre furto aggravato ex artt. 624, 625 n. 7 cod. pen.), tutti puniti

7. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 5.11.2015

Presidente

Il Consigliere estensore
Dott. Andre Pellegrino (
ti&c/

Dott. A

osito

con pena edittale superiore nel massimo ad anni cinque di reclusione.

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