Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 45281 del 13/10/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 45281 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sui ricorsi proposto da
Lazzaro Giuseppe, nato a Napoli il 30/8/1986

avverso l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Napoli in data
10/7/2015;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Sante Spinaci, che ha chiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 10/7/2015, il Tribunale del riesame di Napoli, in
accoglimento dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso il
provvedimento emesso dal G.i.p. in sede il 28/5/2015, applicava a Giuseppe
Lazzaro la misura cautelare del divieto di dimora nel Comune di Napoli; allo
stesso erano contestate plurime violazioni del reato di cui all’art. 349, comma 2,
cod. pen., commesse su un immobile sito nel capoluogo campano.

Data Udienza: 13/10/2015

2. Propone duplice ricorso per cassazione il Lazzaro, a mezzo dei propri
difensori, deducendo i seguenti motivi:
– illogicità della motivazione (ricorso Avv. Regine). Il Tribunale avrebbe
riconosciuto il reato e la circostanza aggravante di cui all’art. 349, comma 2,
cod. pen. – che sola giustifica la misura cautelare – in relazione all’intero
immobile, ormai ultimato, mentre il ricorrente era stato formalmente nominato
custode soltanto per il bene come riscontrato dalla Polizia municipale alla data
del 13/8/2014; non anche, quindi, in ordine alle opere abusive successivamente

dell’obbligo di custodia anche a parti dell’immobile diverse da quelle di cui al
verbale di sequestro dell’agosto 2014;
– mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione
(ricorso Avv. Perone). Il Tribunale avrebbe applicato la misura senza verificare
che, in ordine agli abusi accertati successivamente al 13/8/2014, non
risulterebbe alcuna responsabilità del Lazzaro, non più custode dell’immobile né
mai trovato sul posto dalla Polizia;
– violazione dell’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., difetto
motivazionale (Avv. Perone); la misura sarebbe stata disposta pur difettando
qualsivoglia esigenza cautelare. In particolare, premesso che i sigilli erano stati
apposti nell’agosto del 2014 per impedire la prosecuzione dei lavori, mentre ad
oggi insistono per evitare l’uso dell’immobile, ormai ultimato, e quindi per
soddisfare una esigenza cautelare diversa da quella originaria; ciò premesso, nel
caso di specie difetterebbero concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione
del reato, atteso che l’autorità pubblica ha già disposto lo sgombero dei locali ed
ha affidato gli stessi alla custodia di un dirigente comunale. Quel che
escluderebbe in radice che ulteriori violazioni di sigilli possano verificarsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Osserva innanzitutto il Collegio che, per consolidato indirizzo di questa
Corte, in tema di misure cautelari personali allorché sia denunciato, con ricorso
per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del
riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza ed
all’adeguatezza della misura cautelare, alla Corte Suprema spetta solo il compito
di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti
che ad esso ineriscono, se il Giudice di merito abbia dato adeguatamente conto
delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a
carico dell’indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante
la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi

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eseguite. In tal modo, quindi, sarebbe stata realizzata un’indebita estensione

di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (per tutte,
Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Tiana, Rv. 255460).
Ciò premesso, entrambi i ricorsi risultano manifestamente infondati.
Rileva la Corte che il Tribunale di Napoli ha steso una motivazione del tutto
adeguata, logica e sostenuta da congruo apparato argomentativo, con la quale
ha innanzitutto ravvisato il fumus dei reati contestati (le plurime violazioni di
sigilli), invero non censurato neppure in questa sede; al riguardo, l’ordinanza ha
richiamato i sopralluoghi della Polizia municipale di Napoli del 13/8/2014,

erano state sempre accertate violazioni di sigilli e realizzazioni di opere abusive
ulteriori rispetto a quelle di cui al precedente accesso.
Quanto, poi, al fumus della responsabilità del ricorrente con riguardo a tutte
le condotte di cui all’art. 349 cod. pen. rilevate, il provvedimento impugnato ha
evidenziato: 1) la sua presenza in loco in occasione del primo sequestro, alla
data del 13/8/2014, allorquando lo stesso era stato nominato custode; 2) gli
accessi da questi compiuti presso gli uffici comunali successivamente alla terza
misura (18/10/2014), «per sollecitare il dissequestro del manufatto», pur non
avendo egli alcun titolo che legittimasse l’occupazione di locali del Comune; 3) la
stabile presenza della moglie del ricorrente, Maria Arca Puccinelli, e del suo
nucleo familiare, accertata nel corso dell’ultimo sopralluogo (e sequestro), alla
data del 4/5/2015, allorquando l’immobile abusivo era stato riscontrato come
ultimato, rifinito internamente ed arredato.
Una motivazione, quindi, ampia, logica e fondata su oggettive risultanze
investigative.
Al riguardo, peraltro, non può neppure accedersi alla doglianza secondo la
quale il ricorrente sarebbe oggi sottoposto ad una misura cautelare “eccedente” i
suoi obblighi di custode, invero riferibili soltanto all’immobile nello stato
accertato il 13/8/2014; osserva la Corte, infatti, che l’ordinanza contiene
adeguata motivazione – in ragione dei punti sopra richiamati – circa la riferibilità
al Lazzaro di tutte le violazioni di sigilli accertate nella presente vicenda, non solo
di quella immediatamente successiva al 13/8/2014; di tal ché, non è dato
riscontrare alcuna indebita estensione della custodia a parti dell’immobile
ulteriori rispetto agli abusi riscontrati alla stessa data, dovendosi riferire il
relativo obbligo al bene nella sua interezza ed a tutti gli illeciti via via accertati
dalla Polizia giudiziaria. Così come, ancora giusta adeguata motivazione del
Tribunale, nessuna indebita estensione può essere ravvisata quanto all’esigenza
cautelare da soddisfare, inizialmente ravvisata nella necessità di impedire che la
violazione dei sigilli conducesse alla prosecuzione delle opere abusive, quindi

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8/9/2014, 18/10/2014, 8/4/2015, 28/4/2015 e 4/5/2015, nel corso dei quali

cristallizzata – ad immobile ultimato – nella necessità di evitare che la stessa
condotta conduca all’utilizzo del bene stesso.
Da ultimo, i criteri dell’attualità e concretezza del pericolo.
L’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., come novellato dalla I. 16
aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure
caute/ari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
visita a persone affette da handicap in situazione di gravita), stabilisce che le
misure cautelari personali possono essere disposte – con riferimento al pericolo

ravvisato nel caso di specie) – soltanto quando il pericolo medesimo presenta i
caratteri della concretezza e dell’attualità, ricavabili dalle specifiche modalità e
circostanze del fatto e dalla personalità della persona sottoposta alle indagini o
dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti
penali. Con l’ulteriore precisazione – ancora introdotta dalla I. n. 47 del 2015 per cui le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla
personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla
gravità del titolo di reato per cui si procede.
La ratio dell’intervento legislativo (che, peraltro, investe numerose altre
norme di cui al Libro IV, titolo I, da leggere tutte nella medesima ottica) deve
esser individuata nell’avvertita necessità di richiedere al Giudice un maggior e
più compiuto sforzo motivazionale quanto all’individuazione delle esigenze
cautelari di cui all’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., in ordine alle quali, quindi,
non risulta più sufficiente il requisito della concretezza ma si impone anche
quello dell’attualità. La novella risulta di particolare rilievo. Ed invero,
precedentemente, questa Corte aveva più volte affermato che, ai fini della
valutazione del pericolo che l’imputato commettesse ulteriori reati della stessa
specie, il requisito della “concretezza” doveva essere riconosciuto alla sola
condizione – necessaria e sufficiente – che esistessero elementi, per l’appunto,
“concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali potesse
affermarsi che l’imputato, verificandosi l’occasione, potesse facilmente
commettere reati che offendessero lo stesso bene giuridico tutelato dalla
disposizione per cui si procedeva (tra le alte, Sez. 5, n. 24051 del 15/5/2014,
Lorenzini, Rv. 260143; Sez. 1, n. 10347 del 20/1/2004, Catanzaro, Rv. 227227);
con la modifica citata, per contro, il legislatore richiede che l’ordinanza
applicativa o confermativa della misura dia conto – in modo esauriente ed
espresso – anche dell’attualità del pericolo (concreto) stesso, da ricavare dalla
riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi
reati.

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di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede (pericolo

Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma certe nel loro
vicino verificarsi.
Ciò premesso, rileva il Collegio che il Tribunale del riesame ha ben
evidenziato l’esigenza cautelare sottesa alla misura, come risultante dall’attuale
testo dell’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.; in particolare, l’ordinanza
ha richiamato la «impressionante» pluralità di violazioni di sigilli riscontrate, la
loro estrema contiguità cronologica fino ad epoca recentissima, l’assoluta
inefficacia del vincolo reale ad impedire la ripetuta condotta illecita e l’interesse

dell’immobile.
Una motivazione, pertanto, insuscettibile di ogni censura in questa sede.
I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2015

Il Presidente

costantemente manifestato dal ricorrente ad ottenere, comunque, l’uso

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