Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 45261 del 13/10/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 45261 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Pancaldi Claudio, nato a Molinella (Bo) il 19/4/1957

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Bologna in data
28/3/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Sante Spinaci, che ha chiesto dichiarare inammissibile il
ricorso;
sentite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. Giorgio Tedesco, che
ha chiesto l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 28/3/2014, la Corte di appello di Bologna confermava la
pronuncia emessa il 20/6/2007 dal locale Tribunale, con la quale Claudio
Pancaldi era stato riconosciuto colpevole del delitto di cui agli artt. 110, 61, n. 1
cod. pen., 6-bis, I. 13 dicembre 1989, n. 401, ed assolto dall’imputazione di

Data Udienza: 13/10/2015

concorso in danneggiamento aggravato; allo stesso – presente allo stadio
Dall’Ara di Bologna in occasione dell’incontro di calcio tra la squadra di casa ed il
Piacenza – era ascritto di aver lanciato verso il campo di gioco un pezzo di
seggiolino divelto, di plastica tagliente, in modo tale da creare pericolo per le
persone poste negli spalti sottostanti ed ai margini dell’area di gioco.
2. Propone ricorso per cassazione il Pancaldi, a mezzo del proprio difensore,
deducendo quattro motivi:
– violazione dell’art. 6 bis contestato, difetto motivazionale della sentenza

condanna pur in presenza di un comportamento – non contestato – del tutto
insuscettibile di arrecare pregiudizio ad altri; ed invero, il pezzo di plastica – che
il Pancaldi avrebbe lanciato in modo istintivo e solo per non averlo
(letteralmente) tra i piedi, dopo che era stato staccato dal coimputato Tartari sarebbe caduto in una parte dello stadio lontana decine di metri da operatori
televisivi, sanitari o steward, e tale da non porre in pericolo neppure gli altri
tifosi presenti sugli spalti. Il pezzo in oggetto, inoltre, avrebbe avuto il peso di
soli 106 grammi e sarebbe stato privo di spigoli vivi o parti contundenti;
– mancanza e manifesta illogicità quanto alla valutazione dell’elemento
soggettivo del reato. La sentenza avrebbe ricostruito il lancio secondo la
deposizione del Maresciallo Corda, il quale, però, dalla posizione e distanza cui si
trovava, mai avrebbe potuto avere esatta percezione dell’accaduto; la condotta,
inoltre, sarebbe stata meramente istintiva e non volta a danneggiare alcuno,
come confermato dal fatto che il Pancaldi non si sarebbe allontanato dal posto e
si sarebbe subito assunto la responsabilità del lancio;
– erronea applicazione dell’art. 61, n. 1 cod. pen.. La Corte avrebbe
riconosciuto questa circostanza aggravante pur in assenza dei presupposti,
specie considerando che il ricorrente è persona incensurata, padre di famiglia ed
onesto lavoratore;
– erronea determinazione della pena per mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche come prevalenti sulla contestata aggravante. La
sentenza avrebbe omesso ogni motivazione al riguardo, così irrogando un
trattamento sanzionatorio sproporzionato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo alle prime due doglianze, da esaminare congiuntamente
attesane la sostanziale identità di ratio, osserva innanzitutto il Collegio che il
controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza

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quanto alla pericolosità della condotta. La Corte di appello avrebbe confermato la

strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logicoargomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009,
Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo
di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a
norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella
evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocuii; ciò in quanto

circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv.
226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al
provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed
invero, dietro l’apparenza di un difetto motivazionale, lo stesso invoca al Collegio
– peraltro in modo del tutto esplicito – una nuova e diversa valutazione delle
medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (deposizioni,
rilevazioni tecnico-planimetriche), ampiamente riportate nel ricorso,
sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che, come appena indicato, non è consentito.
Il ricorso, inoltre, oblitera del tutto la motivazione stesa dalla Corte di
merito, la quale, rispondendo alle medesime doglianze, ha confermato la
pronuncia di primo grado con solido apparato argomentativo, congrua
valutazione delle emergenze probatorie ed assenza di ogni contraddizione. In
particolare, e data per pacifica la condotta contestata, la sentenza ha evidenziato
che il gesto del Pancaldi non poteva esser considerato istintivo e volto soltanto
ad allontanare da sé il pezzo di plastica, ma palesemente indirizzato a gettare
questo verso il campo, in evidente protesta contro la decisione arbitrale di

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l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte

espellere un calciatore del Bologna, squadra per la quale tifa il ricorrente. Quel
che la Corte di appello ha tratto dall’esame tecnico della parabola imposta
all’oggetto, per una lunghezza di 15.50 metri, tale da consentire il superamento
della barriera metallica e della vetrata antisfondamento alta 2,90 metri. E con la
precisazione ulteriore – non suscettibile di censura in questa sede, perché
adeguatamente motivata – che il pezzo in oggetto si presentava rigido (lo stesso
era parte di un seggiolino in plastica, divelto dal coimputato Tartari) e con bordi
frastagliati, tali da poter concretamente attingere le persone poste nelle

dal punto di caduta. E senza che, peraltro, possa esser apprezzata la
considerazione difensiva secondo cui questi, in realtà, si sarebbero trovati a
distanza di sicurezza, atteso che – come correttamente affermato dalla Corte di
merito – il Pancaldi non poteva controllare l’oggetto, una volta lanciato, né
individuare con assoluta precisione il punto in cui sarebbe caduto.
Sì da creare un concreto pericolo per le persone, come richiesto dall’art. 6bis, I. n. 401 del 1989 qui contestato.
4. Manifestamente infondata, poi, è la doglianza relativa alla circostanza di
cui all’art. 61, n. 1 cod. pen.. Premesso che la condotta è stata originata da una
decisione arbitrale non condivisa, si osserva che – per costante e condivisa
giurisprudenza – la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la
determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità,
banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il
comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione
criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento,
un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (per tutte, Sez. 5, n. 41052
del 19/6/2014, Barnaba, Rv. 260360); esattamente come ritenuto dalla Corte di
appello, con motivazione ancora adeguata ed insuscettibile di censura.
5. Da ultima, la doglianza in punto di pena e di circostanze attenuanti
generiche, parimenti del tutto infondata. Ed invero, il Collegio – investito della
questione – ha affermato che «la pena è congrua e non suscettibile di
attenuazione in assenza di elementi favorevoli (al di là della irrilevante pregressa
incensuratezza) che giustifichino la prevalenza delle attenuanti generiche»;
motivazione sintetica ma adeguata, atteso che la pena irrogata è stata
quantificata nel minimo edittale (1 anno di reclusione, ridotto per il rito
abbreviato), sì da non imporre un ulteriore onere motivazionale. Al riguardo,
infatti, si ribadisce che la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla
quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per
circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla
misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto

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immediate adiacenze, quali operatori televisivi e steward, presenti a 5-10 metri

dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena
congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità
del reato o alla capacità a delinquere (per tutte, Sez. 3, n. 27427 del 16/5/2014,
De Gennaro, Rv. 259395; Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, Denaro, Rv. 245596).
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di

norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.

ce o Mengoni

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente
Amedeo franco

1M,

inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a

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