Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 45171 del 15/05/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 45171 Anno 2015
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di

Simonelli Marco, nato a Cassino il 04/02/1980

Valentini Daniela, nata a Sant’Ippolito il 28/02/1962

Valentini Danilo, nato a Cassino il 24/11/1967

Della Rosa Roberto, nato a San Giorgio a Liri il 22/06/1953

Michelini Mafalda, nata a San Lorenzo in Campo il 24/03/1930

avverso la sentenza emessa il 30/11/2012 dalla Corte di appello di Roma

visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Eugenio Selvaggi, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata limitatamente al Della Rosa ed alla Michelini, ed il rigetto del
ricorso con riferimento alle posizioni degli altri imputati;
udito per la parte civile Curatela Fallimento Marmi Giansante Valentin s.r.l. l’Avv.
Pietro Pomanti, il quale ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi, e comunque
la conferma delle statuizioni civili;

Data Udienza: 15/05/2015

uditi per i ricorrenti gli Avv.ti Gianfranco Iadecola e Antonio Fraioli, i quali hanno
concluso per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza
impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. Il 30/11/2012, la Corte di appello di Roma riformava parzialmente la

(anche) degli imputati indicati in epigrafe, i quali erano stati condannati – il
Simonelli, nonché Daniela e Danilo Valentini – per reati di bancarotta afferenti la
gestione della Marmi Giansante Valentin s.r.I., dichiarata fallita nel 2004, nonché
– la Michelini e il Della Rosa – per un addebito di favoreggiamento personale.
La Corte territoriale confermava integralmente le statuizioni di cui alla pronuncia
di primo grado, ad eccezione di quelle che avevano riguardato un’ulteriore
imputata (Paola Fernanda Loredana Valentini, madre del Simonelli), deceduta
medio tempore.
Secondo l’assunto accusatorio, sulla Marmi Giansante Valentin s.r.I.,
costituita nel 1999, erano confluite numerose passività derivanti dalla gestione di
altre società facenti capo alla stessa famiglia, la Valentini s.r.l. e la Graniti
Valentini s.r.I., costituite invece negli anni Settanta ed Ottanta: tali passività,
fittiziamente attribuite alla società di più recente costituzione, erano state
oggetto di fraudolenta esposizione nelle scritture contabili della medesima, che
venivano pertanto ritenute falsificate per effetto delle annotazioni de quibus.

La

Corte di appello riteneva peraltro che la fallita «fosse una società non operativa,
creata al solo scopo di dirottare sulla stessa le passività delle altre due», secondo
quanto indicato nei capi d’imputazione; la Marmi Giansante Valentin, infatti, non
disponeva di un autonomo laboratorio, aveva sede presso l’abitazione
dell’imputata poi defunta e poteva contare su un solo operaio alle proprie
dipendenze. Inoltre, malgrado le locazioni di immobili e beni strumentali dalle
società preesistenti a quella poi fallita, le prime erano rimaste in piena attività:
in particolare, un macchinario che risultava affittato dalla Graniti Valentini (e
che, presso la Marmi Giansante Valentin, avrebbe dovuto essere
irrealisticamente manovrato da un solo dipendente) era stato rinvenuto dalla
polizia giudiziaria ancora presso la sede della locatrice.
Quanto al favoreggiamento contestato alla Michelini (madre dei Valentini) e
al Della Rosa (genero di costei), al capo d) della rubrica, i giudici di secondo
grado ribadivano come i due imputati, il 30/01/2006, avessero tentato di

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sentenza emessa dal Tribunale di Cassino, in data 19/01/2010, nei confronti

occultare documentazione ed appunti manoscritti, fra cui alcune scritture extracontabili della società, «all’evidente scopo di sottrarla al compendio probatorio».

2. Avverso la sentenza della Corte romana propongono ricorso, con atto
unico curato nell’interesse dei loro assistiti, i comuni difensori di tutti gli
imputati.
La difesa lamenta innanzi tutto che nella pronuncia impugnata «non si
forniscono risposte ai rilievi ed alle doglianze avanzati nell’atto di gravame a

grado», e ciò sia in ordine ai reati di bancarotta che alla condotta di
favoreggiamento personale descritta al capo d) (per la quale, erroneamente, non
risulta ravvisata la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 384 cod.
pen.).
2.1 II primo vizio oggetto di censura da parte dei ricorrenti è dunque quello
di mancanza e manifesta illogicità della motivazione, già a partire dall’apodittico
richiamo (ad opera della Corte territoriale) dei rilievi compiuti dal Tribunale di
Cassino quanto alla presunta non operatività della società fallita. Nell’opposta
prospettiva, e dunque a riprova dell’effettivo svolgimento di attività
imprenditoriale da parte della Marmi Giansante Valentin s.r.I., gli appellanti
avevano infatti dedotto:
a. l’assenza di elementi di riscontro alla tesi della fittizietà degli apporti
finanziari dei soci Paola Fernanda Loredana Valentini e Marco Simonelli,
che anzi – per essere stati “diluiti” nel corso di quattro anni, esigenza che
non sarebbe stata di certo avvertita nel caso in cui non si fosse trattato di
versamenti reali – avrebbero dovuto considerarsi effettivi;
b. che la Valentini s.r.l. aveva sì continuato ad utilizzare i macchinari
concessi in locazione alla fallita, ma nel rispetto di una espressa clausola
contrattuale che ciò consentiva;
c.

la decisività delle dichiarazioni del teste Mambro (l’unico dipendente della
Marmi Giansante Valentin), il quale aveva riferito che il funzionamento del
macchinario ricevuto in affitto, per quanto di grandi dimensioni, era tale
da consentirne la manovrabilità anche ad una sola persona, senza venire
smentito da alcuno;

d. l’irrilevanza del dato che il bene de quo era rimasto nella disponibilità
della fallita anche dopo la cessazione dell’attività lavorativa da parte del
Mambro nel 2002, visto che la società era comunque rimasta inattiva
proprio a partire da quell’anno;
e. che l’importo degli affitti dei quattro anni successivi al 2004 era stato
contabilizzato dalla società fallita come addebito, e non già quale costo

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contestazione della ricostruzione in punto di fatto operata dal giudice di primo

(senza dunque che se ne potesse ricavare la conclusione che le somme
fossero state tutte corrisposte in anticipo);
f.

il sicuro esercizio di attività d’impresa da parte della Marmi Giansante
Valentin s.r.I., documentato quanto a lavorazione di marmo per conto
terzi, ad acquisto di prodotti finiti, semilavorati e materie prime, e
confermato dalla circostanza che la società aveva chiesto ed ottenuto
decreti ingiuntivi verso propri debitori;

g. l’esistenza di fatture attive a riscontro di quelle lavorazioni, mentre sul

s.r.I., assunti dalla Marmi Giansante a compensazione dei suoi debiti
verso la Graniti Valentini medesima», situazione che smentiva l’ipotesi
che la fallita si fosse accollata i debiti delle altre due società di famiglia
(tant’è che il Tribunale civile di Cassino aveva in seguito rigettato ogni
richiesta della curatela fallimentare, sul punto, nei confronti della
suddetta Graniti Valentini s.r.I.);
h. la circostanza che le istanze del curatore per l’estensione del fallimento
alle altre due società erano state rigettate dal Tribunale.
Gli aspetti sopra evidenziati avrebbero dovuto meritare specifica disamina,
anche per poter ritenere concretamente provato il dolo che avrebbe animato gli
imputati; in ogni caso, infine, alcune delle asserzioni dei giudici di merito a
riprova della non operatività della Marmi Giansante Valentin s.r.l. appaiono
insignificanti, non essendo certamente vietato per una società (che comunque
disponeva di locali presi in affitto per la lavorazione del marmo) avere sede
legale presso un’abitazione privata.
2.2 A proposito del presunto favoreggiamento, agli atti del processo non
risulta comunque acquisita la prova certa che nella borsa in ipotesi sottratta dai
due imputati fosse davvero contenuto materiale afferente la contabilità ed i
rapporti bancari fra le società di famiglia, atteso che vi era stata solo la generica
asserzione di un ufficiale di polizia giudiziaria, secondo la cui opinione (non
verificabile su base oggettiva) si trattava di documenti “abbastanza importanti”.
D’altro canto, sul piano logico, il solo tentativo di nascondere la borsa in
questione non poteva assumere rilevanza decisiva in ordine a cosa vi fosse
contenuto, dal momento che gli autori della condotta ben avrebbero potuto così
determinarsi anche per la semplice supposizione erronea che quanto ripostovi
avesse notevole importanza.
Inoltre, nella fattispecie risultavano concretizzati gli estremi di un mero
tentativo di nascondimento, senza dunque che il reato potesse intendersi essere
stato consumato; e, soprattutto, il Della Rosa e la Michelini avevano certamente
agito per salvare i loro prossimi congiunti da possibili iniziative giudiziarie, con la

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lato passivo «si trattava in realtà di debiti contratti dalla Graniti Valentini

conseguente ravvisabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art.
384 cod. pen. (causa che, ove ritenuta configurabile per la sola Michelini, madre
o nonna degli altri imputati, avrebbe dovuto comunque estendersi in favore del
genero, ai sensi dell’art. 119, comma secondo, cod. pen.).

CONSIDERATO IN DIRITTO

sentenza impugnata in ordine ai reati di bancarotta; deve invece rilevarsi la
maturata prescrizione del reato di favoreggiamento ascritto a Roberto Della Rosa
e Mafalda Michelini.

2. A proposito degli addebiti di bancarotta, questi si fondano in effetti sul
ritenuto presupposto della costituzione ad hoc della Marmi Giansante Valentin
s.r.I., in modo tale da poter dirottare su tale società le poste debitorie della
Valentini s.r.l. e della Graniti Valentini s.r.I.: assume pertanto rilievo centrale,
nello sviluppo del percorso argomentativo adottato dai giudici di merito, il
presunto carattere di “contenitore vuoto” (v. la sentenza di primo grado, a pag.
9) da riconoscere alla fallita, a conferma della tesi secondo cui le altre società
continuarono ad operare malgrado avessero ceduto o locato alla prima i beni
apparentemente necessari per l’esercizio dell’attività imprenditoriale.
2.1 Alle osservazioni sviluppate dal Tribunale di Cassino, la difesa aveva
contrapposto – in sede di motivi di appello – le obiezioni sopra ricordate, ma
solo alcune, ed in parte, risultano esaminate dalla Corte territoriale: altre, di
carattere decisivo già sul piano dell’elemento materiale (quanto meno per
l’individuazione della consistenza complessiva delle presunte passività fittizie
oggetto di esposizione nelle scritture contabili), appaiono invece del tutto
pretermesse. Deve infatti rilevarsi che, sulla natura degli apporti finanziari
della defunta Paola Fernanda Loredana Valentini e di Marco Simonelli (i quali,
peraltro, si erano succeduti nella carica di amministratori di diritto della società
fallita), la motivazione della sentenza impugnata si limita a rappresentarne la
“più che fondata” non rispondenza al vero, astenendosi dal prendere in esame le
osservazioni della difesa; ed analogamente è a dirsi quanto alla dedotta
significatività della clausola contrattuale che consentiva comunque alla Valentini
s.r.l. di continuare ad impiegare i macchinari locati.
Neppure oggetto di disamina è il tema dell’esistenza di fatture attive e
passive, come pure di decreti ingiuntivi ottenuti dalla Marmi Giansante Valentin,
a riscontro dello svolgimento di una effettiva attività imprenditoriale, a

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1. Il ricorso è fondato, con riferimento alle carenze motivazionali della

prescindere da una obiettiva confusione della manodopera all’interno delle
società del gruppo (dalla sentenza di primo grado si evince che il Mambro, già
“dipendente storico” della famiglia Valentini, lavorò per la fallita sino al 2002, per
essere poi nuovamente riassunto dalla Graniti Valentini s.r.I.) e dalle incertezze
sul numero di operai necessari per garantire il funzionamento di macchinari
peculiari.
2.2 Inoltre, deve considerarsi che l’omessa trattazione dei profili appena
evidenziati non consente di superare le obiettive lacune delle sentenze di merito

configurabilità dei reati in rubrica. Come detto, l’ipotesi di bancarotta
fraudolenta sub a) è formulata in termini di esposizione di passività inesistenti,
ed è innegabile che per la sussistenza di tale fattispecie criminosa si richieda «la
presenza del dolo specifico, rappresentato dallo scopo di recare pregiudizio ai
creditori» (Cass., Sez. V, n. 45431 del 26/10/2004, Di Trapani, Rv 230353),
analogamente a quanto prescrive lo stesso art. 216 legge fall. per l’addebito di
bancarotta documentale come qui contestato. Infatti, secondo pacifica
giurisprudenza di legittimità, anche «per la configurazione delle ipotesi di reato
di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili, per
espresso dettato dell’articolo 216, primo comma n. 2, della legge fallimentare, è
necessario il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un
ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, mentre per le ipotesi di
irregolare tenuta della contabilità, caratterizzate dalla tenuta delle scritture in
maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del
movimento degli affari, è richiesto invece il dolo intenzionale, perché la finalità
dell’agente è riferita ad un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva
– l’impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell’impresa – anziché a un
elemento ulteriore, non necessario per la consumazione del reato, quale è il
pregiudizio per i creditori» (Cass., Sez. V, n. 5905 del 06/12/1999, Amata, Rv
216267; v. anche, nello stesso senso, Cass., Sez. V, n. 21075 del 25/03/2004,
X.). Le pronunce degli anni successivi, ferma restando la necessità del
dolo specifico per le sole ipotesi di sottrazione, distruzione o falsificazione della
contabilità (v. Cass., Sez. V, n. 21872 del 25/03/2010, Laudiero), hanno poi
superato l’orientamento secondo cui l’irregolare tenuta delle scritture, rilevante
ex art. 216, comma primo, n. 2, legge fall., presuppone il dolo intenzionale: si è
infatti precisato che il reato de quo «richiede il dolo generico, costituito dalla
consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere
impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per
contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione» (Cass.,

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quanto all’illustrazione dell’elemento soggettivo necessario per affermare la

Sez. V, n. 5264 del 17/12/2013, Manfredini, Rv 258881; v. altresì, già nello
stesso senso, Cass., Sez. V, n. 22109 dell’11/05/2005, Veronesi).
A tale riguardo, non è possibile colmare il vuoto argomentativo della
pronuncia oggetto di ricorso, indubbiamente assai sintetica, facendo riferimento
al contenuto della decisione di primo grado. Il Tribunale – da un lato – sembra
affermare la rilevanza penale della condotta sub a) soltanto basandosi sulla
evidenza delle «falsificazioni riportate sui libri sociali» (pag. 11), costituenti
invece l’addebito successivo, mentre – al contempo – dà semplicemente per

fine di rendere farraginosa la ricostruzione del patrimonio societario e, dunque,
di arrecare pregiudizio ai creditori»; con tanto di precisazione immediata che «ai
fini della sussistenza del reato di bancarotta documentale ex art. 216, primo
comma, n. 1, seconda ipotesi, legge fall., è sufficiente il dolo generico,
rappresentato dalla consapevolezza del fatto che la disordinata e caotica tenuta
dei libri possa essere idonea a rendere impossibile la ricostruzione del
patrimonio» (pag. 12). Ciò a dispetto del chiaro tenore letterale del capo b),
dove la condotta contestata è esclusivamente quella di avere falsificato le
scritture contabili.

3. Il delitto di favoreggiamento, che si assume commesso il 30/01/2006, è
invece da considerare estinto, per essere il termine prescrizionale massimo di cui
agli artt. 157 e segg. cod. pen. interamente decorso, anche tenendo conto delle
cause di sospensione verificatesi durante le fasi di merito.
Non emergono d’altro canto, alla luce del percorso argomentativo adottato
dalla sentenza impugnata, gli estremi per un proscioglimento ai sensi dell’art.
129, comma 2, del codice di rito, ove fra l’altro si consideri che la ricorrenza dei
presupposti per l’applicazione al caso di specie del disposto di cui all’art. 384
cod. pen. non era neppure stata invocata nei motivi di appello. Deve altresì
rilevarsi che ogni censura in ordine alla motivazione – a fronte della presenza di
una causa estintiva – diviene inammissibile, giacché un eventuale annullamento
per nuovo esame, cui si dovrebbe pervenire in caso di accoglimento dei motivi di
gravame, contrasterebbe con l’obbligo di immediata declaratoria di cui al comma
1 dell’anzidetto art. 129. Del pari, risulta superata ogni questione processuale,
posto che anche la sussistenza di cause di nullità assoluta rimane a sua volta
irrilevante al verificarsi della prescrizione (v. Cass., Sez. U, n. 35490 del
28/05/2009, Tettamanti).

3. Si impongono pertanto le determinazioni di cui al dispositivo.

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ammesso che l’alterazione della contabilità sarebbe stata «sorretta dal precipuo

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio, limitatamente al reato di cui al capo
d), ex art. 378 cod. pen., per essere lo stesso estinto per prescrizione; annulla
altresì la sentenza medesima, con riferimento alle residue imputazioni, con rinvio

Così deciso il 15/05/2015.

per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

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