Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44957 del 17/10/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 44957 Anno 2013
Presidente: PRESTIPINO ANTONIO
Relatore: DAVIGO PIERCAMILLO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
Cavallo Alberto, nato a ad Alba il 14.3.1962,
avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino, sezione 4^ penale, in
data 26.4.2013.
Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Piercamillo Davigo.
Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, dott. Nicola Lettieri, il
quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato,

ritenuto in fatto

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Data Udienza: 17/10/2013

Con sentenza del 3.12.2010, il Tribunale di Alba dichiarò Cavallo
Alberto responsabile del reato di truffa e lo condannò alla pena di mesi 6 di
reclusione ed € 200,00 di multa.
L’imputato fu altresì condannato al risarcimento del danno ed alla
rifusione delle spese a favore della parte civile Di Canio Loreta.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte

d’appello di Torino, con sentenza del 26.4.2013, confermò la decisione di
primo grado e condannò l’imputato alla rifusione a favore della parte civile
delle ulteriori spese di giudizio.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato deducendo:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’elemento
oggettivo ed a quello soggettivo del reato; la condotta ascritta
all’imputato integrerebbe solo un illecito civile; non vi sarebbe prova
che, in occasione della stipulazione del contratto preliminare in data
20.4.2006, l’imputato abbia taciuto l’esistenza di un vincolo sul bene;
vi sarebbe anzi la prova del contrario stante le ultime 4 righe del
contratto, dal momento che il bene avrebbe dovuto essere libero da
vincoli al momento del rogito; mancherebbe comunque il dolo
essendosi l’imputato avvalso di un’agenzia immobiliare alal quale
aveva comunicato l’esistenza del vincolo;
2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla
determinazione della pena senza evidenziare le modalità di calcolo.

Considerato in diritto

Il primo motivo di ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606
comma 1 cod. proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della
decisione impugnata, congruamente giustificata.
La Corte d’appello ha argomentato che non solo l’imputato aveva
taciuto alla persona offesa l’esistenza di un pignoramento, ma l’aveva
assicurata in senso contrario.

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In tale motivazione non si ravvisa alcuna manifesta illogicità che la
renda sindacabile in questa sede.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di

apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente. (Cass.

Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745, Cass., Sez.
2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Del resto va ricordato che il vizio di motivazione implica o la carenza di
motivazione o la sua manifesta illogicità.
Sotto questo secondo profilo la correttezza o meno dei ragionamenti
dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla
verità degli enunciati che la compongono.
Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una
valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti
dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte del giudice
dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in
relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata
l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla
adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia
pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 cod.
pen. ed anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello. (Cass.
Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 rv 181825. Conf. mass.
n. 155508; n. 148766; n. 117242).
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità — al pagamento a favore della Cassa delle ammende della

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somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

Così deliberato in data 17.10.2013.

spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.

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