Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44887 del 23/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 44887 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: GARRIBBA TITO

SENTENZA
sul ricorso proposto da RUBINO Guglielmo, nato il 12.2.1977,
avverso
la sentenza n. 536 emessa il 6 febbraio 2013 dalla Corte d’appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Tito Garribba;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Carlo
Destro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per le parti civili l’avv. Ettore Barcellona, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
udito per l’imputato gli avv.ti Raffaele Bonsignore e Antonio Turrisi che hanno
concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;

Data Udienza: 23/10/2013

RITENUTO IN FATTO

§1.

Con sentenza del 6 febbraio 2013 la Corte d’appello di Palermo

confermava la decisone di primo grado che aveva dichiarato RUBINO Guglielmo colpevole dei delitti, uniti dal vincolo della continuazione, previsti dagli artt. 416 bis,

diminuzione del rito abbreviato, alla pena di anni undici e mesi otto di reclusione.
La Corte fondava il giudizio di colpevolezza sulla chiamata in correità
proveniente da Di Maio Giuseppe, che aveva accusato l’imputato di appartenere,
come uomo d’onore, alla famiglia mafiosa palermitana di Santa Maria di Gesù, per
conto della quale commetteva estorsioni in danno di imprenditori e commercianti
insediati nel territorio controllato. A conferma dell’attendibilità della chiamata indicava: la frequentazione con persone di vertice della famiglia come Pilo Pietro e
Guerco Francesco; le conversazioni intercettate in cui Lo Bocchiaro Giuseppe, sottocapo della stessa famiglia mafiosa, chiedeva ai propri congiunti se l’imputato, scampato a una retata che aveva colpito gran parte degli associati, adempisse ai doveri
di solidarietà verso i carcerati, e poi, saputo che il genero Di Matteo stava collaborando con gli inquirenti, li esortava ad avvertire del fatto l’imputato affinché potesse
prendere le opportune contromisure; l’arresto dell’imputato nella flagranza del reato
di estorsione in danno dell’imprenditore edile La Placa; il sequestro all’imputato di
un foglio sul quale erano annotati nomi di commercianti da taglieggiare.
Contro detta sentenza ricorre l’imputato, che denuncia erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione:
1. in ordine all’affermazione di colpevolezza, assumendo che l’accusa non

sarebbe stata provata. Sostiene che la chiamata in correità non è attendibile, perché nessuna delle estorsioni che Di Maio gli ha attribuito è stata riscontrata, né Di Maio, tra le anzidette estorsioni, aveva menzionato
quella in danno di La Placa. Il foglio contenente i nomi dei commercianti
non aveva valore indiziante perché nessuno di loro aveva ammesso di
avere subito richieste estorsive. Non v’era prova che l’estorsione verso
La Placa fosse stata commessa con l’utilizzo del metodo mafioso o fosse
comunque collegata con un sodalizio mafioso;
2. in ordine alla pena inflitta, assumendo che il reato più grave, ai fini della
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commi 1 e 4, e 56-629, commi primo e secondo, cod.pen., condannandolo, con la

disciplina della continuazione, sarebbe stato erroneamente individuato
nell’associazione mafiosa anziché nella tentata estorsione; inoltre l’aumento a titolo di continuazione sarebbe stato erroneamente calcolato in
anni cinque anziché anni quattro e mesi due di reclusione;
3. in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, che

4. in ordine alla mancata riduzione della pena e della durata della misura di
sicurezza;
5. in ordine alla provvisoria esecutività della condanna al risarcimento del
danno, concessa senza che ricorressero i “giustificati motivi”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

§2.

I motivi di ricorso sono, da un lato, manifestamente infondati,

perché la sentenza impugnata fornisce un’adeguata, convincente e logica giustificazione delle ragioni della decisione e, dall’altro, non consentiti dalla legge, perché si
limitano a proporre una diversa valutazione delle risultanze processuali senza evidenziare in seno alle argomentazioni sviluppate in sentenza alcuna palese illogicità.
In particolare, esaminano i motivi nell’ordine sopra elencato, si osserva
quanto segue.

§2.1.

La sentenza impugnata ha debitamente illustrato il contenuto

della chiamata in correità, ne ha positivamente valutata – alla stregua dei criteri canonizzati dalla giurisprudenza di legittimità – l’attendibilità intrinseca, ha indicato i
plurimi riscontri oggettivi, ha infine confutato con argomenti logici le obiezioni sollevate dalla difesa, precisando che, dei commercianti citati nel biglietto trovato in
possesso dell’imputato, solo due avevano avuto il coraggio di ammettere di essere
vittime del ‘pizzo’ (e Guagliardo Salvatore riconosceva nell’imputato l’autore delle
richieste estorsivi subite), mentre gli altri avevano negato perché succubi dell’intimidazione mafiosa. La sentenza, pertanto, ha posto a base dell’affermazione di colpevolezza una motivazione completa, adeguata, immune da vizi logici o giuridici.
Per la sussistenza dell’aggravante – inerente al reato di tentata estorsio-

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avrebbero consentito di mitigare la pena eccessivamente elevata;

ne – di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991, la corte territoriale ha rinviato alla decisione di
primo grado, che in effetti ha dato una diffusa e analitica spiegazione della sua realizzazione in entrambe le forme previste dalla disposizione di legge.

§2.2.

Il ricorrente non ha un interesse concreto a denunciare l’erro-

nea individuazione della violazione più grave, poiché il presunto errore si sarebbe ri-

munque la censura è infondata, perché la pena massima prevista per il reato di cui
all’art. 416 bis, comma 4, cod.pen. è di anni 25 (a. 15 + 2/3 rec. = a. 25), mentre
quella per il reato di tentata estorsione aggravata è di anni 17, mesi 9 e giorni 10
(a. 20 – 1/3 ex art. 56 = a. 13 m. 4 + 1/3 rec. = a. 17 m. 9 g. 10). La recidiva reiterata specifica infraquinquennale incide diversamente sui due reati, perché, sul
reato associativo, opera pienamente dato che concorre con altra circostanza ordínaria (comma quarto dell’art. 416 bis cod.pen.), mentre nella tentata estorsione, concorrendo con altre aggravanti speciali (secondo comma dell’art. 629 cod.pen. e art.
7 d.l. n. 151/1991), comporta l’aumento massimo di un terzo ex art. 63, comma
quarto, cod. pen.
Quanto all’aumento di pena inflitto a titolo di continuazione nella misura
di anni cinque di reclusione, la sentenza di primo grado è effettivamente incorsa in
un errore di computo, che, però, non si riverbera sulla decisione, perché la volontà
di infliggere la pena di anni 17 e mesi 6 di reclusione è incontrovertibilmente consacrata nel dispositivo. E’ accaduto, infatti, che il giudice, determinata la pena base,
con l’aumento per la recidiva, in anni 12 e mesi 6 di reclusione, ha precisato che, a
causa delle recidiva reiterata, l’ulteriore aumento per la continuazione doveva essere di almeno un terzo e, quindi, lo ha calcolato “in tal misura minima, pari ad anni
quattro e mesi due di reclusione, così da ottenere la pena di anni 17 e mesi 6 di reclusione”, che, diminuita per il rito abbreviato, dà la pena finale – specificata nel dispositivo – di anni 11 e mesi 8 di reclusione. Risulta dunque, da un lato, la volontà
di infliggere la pena di anni 17 e mesi 6 di reclusione (ché, altrimenti, non si giustificherebbe quella finale di anni 11 e mesi 8) e, dall’altro, la svista, frutto di disattenzione, per la quale il giudice, trascinato dall’osservazione che l’aumento per la
continuazione non poteva essere inferiore a un terzo, ha erroneamente ritenuto che
l’aumento di pena da anni 12 e mesi 6 ad anni 17 e mesi 6 corrispondesse a un terzo. Poiché l’errore cade su un passaggio aritmetico interno al computo della pena,

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solto a suo vantaggio con l’inflizione di una pena meno grave di quella dovuta. Co-

la cui misura, detratta la diminuzione per il rito, è irrevocabilmente fissata nel dispositivo in anni undici e mesi otto di reclusione, esso non inficia la decisione finale.

§2.3.

La concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nel-

l’ambito di un giudizio di fatto rimesso al potere discrezionale del giudice di merito,
il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a fare emergere in misura

alla gravità del reato e alla personalità del reo. Non è pertanto necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle
parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che indichi quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo implicitamente disattesi tutti gli altri (v. Cass., Sez. 6,
n. 41365 del 28.10.2010, Straface, rv 248737; idem, n. 34364 del 16.6.2010, Giovane, rv 248244).
Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai predetti criteri,
facendo riferimento, per motivare il diniego delle attenuanti generiche, agli elementi
indicati dall’art. 133 cod.pen., e ritenendo, con valutazione non censurabile in questa sede di legittimità, l’imputato non meritevole per la sua condotta antecedente al
reato (numerosi precedenti penali) e per la progressione delinquenziale segnata
dall’ingresso nell’associazione mafiosa.

§2.4.

Per le stesse ragioni testé esposte e per l’elevata pericolosità

sociale dimostrata attraverso la commissione dei reati ascrittigli, il giudice a quo ha
discrezionalmente ritenuto adeguate sia l’entità della pena inflitta che la durata della misura di sicurezza applicata.

§2.5.

Il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronun-

ciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una
somma da imputarsi alla liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione,
in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato a essere
travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (v. Cass., Sez. U.,
19.12.1990 n. 2246, Capelli, rv 186722).
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art.
606, comma 3, cod.proc.pen. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma, ritenuta congrua, di euro mille alla Cassa

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sufficiente la valutazione circa l’adeguamento della pena concretamente irrogata

delle ammende. Ne deriva altresì la condanna alla rifusione delle spese sostenute
dalle parti civili, liquidate come specificato nel dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento

Cassa delle ammende. Condanna altresì il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute in questa sede dalle parti civili, che liquida in euro 1.700 per ciascuna, oltre IVA e CPA.
Così deciso il 23 ottobre 2013.

delle spese processuali e al versamento della somma di euro mille in favore alla

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