Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44876 del 22/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 44876 Anno 2013
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: GARRIBBA TITO

SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di
Campobasso
avverso

la sentenza n. 132 emessa il 5 marzo 2013 dalla Corte d’appello di Campobasso
nei confronti di PANICHELLA Maria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Tito Garribba;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
Eduardo Scardaccione, che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
udito per l’imputato l’avv. Giuseppe Fazio, che ha concluso chiedendo il rigetto
del ricorso;

Data Udienza: 22/10/2013

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza specificata in epigrafe la Corte d’appello di Campobasso, riformando la decisione di primo grado, assolveva Panichella Maria dal reato
previsto dall’art. 326 cod.pen., per avere, violando il dovere di segretezza inerente
all’incarico di infermiera in servizio presso il locale ospedale, rivelato a Marino Vincenzina che la figlia Di Criscio Livia aveva interrotto volontariamente la gravidanza.

monianze di Marino Vincenzina, alla quale l’imputata aveva dato la notizia dell’aborto specificando di averla attinta dalla cartella clinica della figlia, e di Di Criscio Livia,
a cui l’imputata aveva ribadito la fonte della notizia, la Corte d’appello, invece, valorizzava la testimonianza di La Fratta Nicola, marito dell’imputata, il quale aveva deposto di avere appreso la notizia dell’aborto da Panichella Lucio, marito della Di Criscio e fratello dell’imputata, e di averla poi riferita alla propria moglie. La Corte,
inoltre, svalutava l’attendibilità delle dichiarazioni rese dall’imputata a Marino Vincenzina e alla di lei figlia sul punto dell’origine ospedaliera della notizia, osservando
che con ogni probabilità ella aveva simulato quella fonte, per salvaguardare il fratello Lucio dalle rimostranze che gli muoveva la moglie, che lo sospettava di avere violato il segreto.
Contro la sentenza ricorre il pubblico ministero, il quale denuncia vizio di
motivazione in ordine alla valutazione della prova. Censura in particolare che non
sia stato considerato che la rivelazione della notizia che doveva restare segreta sia
avvenuta attraverso due telefonate: la prima del 22.6.2007, in cui l’imputata informava genericamente la Marino dell’interruzione della gravidanza; la seconda, effettuata il giorno dopo durante l’orario di servizio, in cui l’imputata confermava la notizia precisando di avere consultato la cartella clinica. La scansione temporale dimostrerebbe – secondo il ricorrente – che l’indicazione delle scritture ospedaliere come
fonte della notizia è genuina e veritiera, e non già un escamotage inventato per salvare la pace familiare della coppia interessata dall’aborto. Sostiene, infine, il pubblico ministero ricorrente che l’imputata, da qualsiasi fonte avesse ricevuto la notizia
coperta da segreto, essendo ella infermiera, non avrebbe dovuto rivelarla a chicchessia. Conclude pertanto per l’annullamento della sentenza impugnata.

Mentre il giudice di primo grado aveva basato il giudizio di colpevolezza sulle testi-

CONSIDERATO IN DIRITTO

§1.

Nel presente processo si fronteggiano due diverse ricostruzioni

del fatto: secondo il giudice di primo grado l’imputata apprese la notizia dell’interruzione della gravidanza nell’ambiente in cui prestava servizio come infermiera; secondo il giudice d’appello, invece, ella apprese la notizia dal marito, che a sua volta

Il pubblico ministero ricorrente adduce come dirimente la circostanza
che l’imputata, quando comunicò per telefono a Marino Vincenzina la notizia in discorso specificando che l’aveva controllata consultando cartella clinica, era di servizio all’ospedale; il che avvalorerebbe la veridicità dell’affermazione ched aveva consultato quel documento.
Tuttavia l’argomentazione, dotata di indubbia forza persuasiva, non è
stata ignorata dal giudice d’appello, il quale, su questo specifico fatto, ha controdedotto che, alla stregua delle dichiarazioni del direttore sanitario, risultava impossibile l’asserita consultazione, perché la cartella clinica della paziente, alla data della
telefonata, era già stata trasmessa all’archivio e quindi era divenuta inaccessibile
agli estranei. Non solo, ma il giudice d’appello ha anche fornito una spiegazione
plausibile del motivo per cui l’imputata avrebbe mentito sulla vera fonte della notizia: voleva proteggere il fratello – che aveva divulgato la notizia riservata – dall’ira
della moglie, ferita dalla violazione del segreto.
In sostanza il ricorso, denunciando un preteso vizio di motivazione, sollecita questa Corte a indicare quale delle due ricostruzioni del fatto sia la più credibile e si risolve quindi nella richiesta di sovrapporre il proprio apprezzamento della
prova su quello espresso dal giudice d’appello, laddove il giudice di legittimità deve
solo valutare la tenuta logica della motivazione, essendo suo compito non di stabilire se la sentenza di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, ma di verificare invece se la giustificazione fornita sia conforme al comune senso logico e ai
principi che regolano la valutazione della prova. Pertanto, dato che le censure presentate sotto l’etichetta ‘vizio di motivazione’ sviluppano motivi non consentiti dalla
legge, il ricorso è per questa parte inammissibile.
Manifestamente infondato è poi l’altro motivo, che denuncia violazione
della legge penale, assumendo che l’imputata, ammesso pure che avesse ricevuto
la notizia riservata dal marito della cognata, sarebbe stata comunque obbligata a ri-

aveva ricevuto la confidenza dal marito della Di Criscio.

spettare il segreto.
Ai sensi dell’art. 326 cod.pen., commette reato il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che “rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere
segrete”. ‘Notizie d’ufficio’ sono le conoscenze relative ad atti o attività relative a
quello specifico ufficio o servizio al quale il soggetto agente è addetto. Se invece si
tratta di notizie inerenti a un ufficio o servizio estraneo, il soggetto si trova rispetto
alla notizia nello stesso rapporto in cui si troverebbe un quisque de populo, e perciò
l’eventuale rivelazione non avverrebbe – come è richiesto dalla legge – nella veste
di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

ro in cui si praticavano le interruzioni di gravidanza e, quindi, la notizia divulgata
apparteneva a un servizio al quale la stessa era estranea. Ne consegue che non era
tenuta al segreto e, pertanto, dato che non aveva appreso la notizia né grazie all’incarico ricoperto né grazie alla sua qualità, la rivelazione non ha realizzato il reato
ascrittole.
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art.
606, comma 3, cod.proc.pen.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso il 22 ottobre 2013.

Nel caso concreto l’imputata non prestava servizio nel reparto ospedalie-

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