Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44809 del 22/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 44809 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Gianferfini Francesco n. il 23.4.1959
avverso l’ordinanza n. 18/2013 pronunciata dal Tribunale di Trani il
12.4.2013;
sentita nella camera di consiglio del
Cons. dott. Marco Dell’Utri;

22.10.2013

la relazione fatta dal

sentito il Procuratore Generale, in persona del doti. M.G. Fodaroni,
che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 22/10/2013

Ritenuto in fatto
i. – Con atto in data 8.6.2013, a mezzo del proprio difensore,
Francesco Gianfenini ha proposto ricorso per cassazione avverso
l’ordinanza in data 12.4/29.5.2013 con la quale il tribunale di Trani
ha rigettato l’istanza di riesame proposta dal Gianferrini avverso il
provvedimento del 27.2.2013 con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Trani ha disposto il sequestro conservativo dei beni immobili del Gianferrini quale forma di tutela cautelare
a garanzia del pagamento delle spese del procedimento penale in corso a carico dell’imputato.
Con l’impugnazione proposta, il ricorrente censura il provvedimento impugnato per violazione di legge in relazione all’art. 316
c.p.p., avendo i giudici del merito disposto il contestato sequestro
conservativo sulla base del solo rilievo costituito dall’obiettiva sproporzione tra il credito ex adverso azionato e l’entità del patrimonio
del Gianferrini, in assenza di alcuna considerazione critica in ordine
al ricorso di effettivi indici di valutazione riconducibili al comportamento del debitore, in ipotesi suscettibili di fondare il concreto rischio di dispersione della garanzia patrimoniale costituita dal relativo
patrimonio.
Sotto altro profilo, il ricorrente evidenzia l’incompatibilità
dell’interpretazione dell’art. 316 c.p.p. privilegiata dal tribunale pugliese, rispetto al vigore del principio costituzionale di uguaglianza
(art. 3 Cost.), tale da porsi in insanabile contrasto con il divieto di discriminazione tra soggetti fondato sull’astratta considerazione delle
rispettive condizioni economiche.
Considerato in diritto
2. – Il ricorso è infondato.
Preliminarmente, rileva la corte come il tribunale del riesame
abbia correttamente richiamato il principio statuito dalla giurisprudenza di legittimità (che questo collegio condivide e fa proprio, per la
fedele coerenza dell’interpretazione al dettato normativo richiamato e
applicato) ai sensi del quale l’art. 316 c.p.p. richiede, ai fini del sequestro conservativo, un unico requisito, tale essendo la “fondata ragione
di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento
(…)”; requisito che riecheggia quello dell’omologo sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c. per il quale è sufficiente il ricorso di un

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”fondato timore”, per il creditore, di “perdere la garanzia del proprio
credito”.
Al di là del contrasto interpretativo (pure segnalato
nell’ordinanza impugnata) insorto con riguardo all’identificazione
delle modalità di verificazione del depauperamento del patrimonio
(che, secondo la tesi più rigorista, sarebbe configurabile indipendentemente da un comportamento ascrivibile al debitore), per il resto la
giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che si debba avere riguardo all’entità del credito, alla natura del bene oggetto del sequestro e alla situazione del patrimonio del debitore. In altri termini,
il sequestro conservativo va disposto sulla base di un giudizio prognostico negativo in forza del quale appare fondatamente ipotizzabile
che le garanzie patrimoniali del debitore (presenti al momento della
decisione sul sequestro) possano, in futuro, venire a mancare o essere
disperse; con ciò la legge riferendosi 4tanto a circostanze indipendenti
dalla volontà (e quindi dal comportamento) del debitore (garanzie
che “manchino”), quanto a vicende più strettamente addebitabili alla
persona e all’attività di quest’ultimo (garanzie che “si disperdano”).
Infatti, poiché nella sua più evidente accezione semantica il
verbo “disperdere” rimanda a un’attività (non necessariamente fraudolenta) del debitore, lo stesso non può che contrapporsi al verbo
“mancare” che indica, viceversa, il mero fatto del venir meno delle
garanzie a seguito di fattori esterni e indipendenti dal comportamento del debitore.
In altri termini, il legislatore, con l’adoperare in modo alternativo due distinti verbi che indicano e rimandano a due diverse circostanze (l’una addebitabile alla persona del debitore, l’altra ad eventi
non riconducibili ad un comportamento di questi), ha voluto coprire
tutta la possibile gamma delle ipotesi che, in astratto, varrebbero a
compromettere la conservazione delle garanzie, in vista dell’essenziale obiettivo costituito dalla massima estensione possibile della garanzia e della protezione delle ragioni creditorie proprie dell’erario e/o
dei privati, essendo del tutto irrilevante e indifferente se quelle garanzie, esistenti al momento della pronuncia, possano venire a mancare (indipendentemente dal comportamento del debitore) o essere
disperse (a causa della stessa attività del debitore).
Ciò che rileva, pertanto, è l’ineludibile ricorso di una “fondata
ragione” che quelle garanzie, alla fine del processo, possano non es-

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serci più, con il conseguente danno per l’erario o per i privati che si
siano visti riconoscere un credito nei confronti del condannato. E la
prognosi negativa sulla “fondata ragione” non può che essere desunta
da elementi fattuali che spetta al giudice di merito indicare e che,
come ha chiarito la giurisprudenza di questa stessa Corte, possono
essere individuati, a titolo di mero esempio, nell’entità del credito,
nella natura del bene, nella composizione del patrimonio del debitore, nel comportamento (processuale o extraprocessuale) da questi tenuto, etc. (cfr. Cass., Sez. 2, 11. 6973/2011, Rv. 249663).
È appena il caso di rilevare la radicale improprietà del richiamo (contenuto nel secondo motivo del ricorso proposto in questa sede) al preteso contrasto dell’interpretazione dell’art. 316 c.p.p. qui
condivisa con il vigore del principio di uguaglianza di cui all’art. 3
della Costituzione (per l’asserita discriminazione tra debitori in ragione delle relative condizioni economiche), dovendo nella specie ricondursi la ratio ispirativa della disciplina legislativa de qua
all’assorbente e ragionevole esigenza di assicurare ogni più ampia garanzia alle istanze creditorie vantate da soggetti aggrediti da illeciti
altrui, in ipotesi pregiudicati dall’eventuale ricorso di indici di rischio
obiettivamente connessi alle concrete condizioni economiche
dell’autore dell’illecito.
Ciò posto, in applicazione dei principi di diritto così compendiati, il tribunale del riesame ha correttamente evidenziato come il
valore degli scarni elementi riconducibili al patrimonio immobiliare
del ricorrente (nel suo complesso inferiore all’importo di euro
70.000,00) appare tale da esprimere un’oggettiva inadeguatezza rispetto all’ammontare delle spese processuali dovute dall’imputato
(quantificate, secondo il calcolo operato dal pubblico ministero, in
circa euro 230.000,00); sproporzione tale da evidenziare il ricorso di
un obiettivo e fondato rischio di depauperamento delle garanzie patrimoniali del debitore nella specie coerentemente desunta dal ricorso, concreto ed effettivo, di elementi fattuali specificamente richiamati dal giudice a quo sulla base di una motivazione dotata di piena
coerenza logica e conseguente linearità argomentativa.
3. – Il riscontro dell’integrale infondatezza dei motivi
d’impugnazione illustrati con il ricorso, impone il rigetto dello stesso
e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna
il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 22.10.2013

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