Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44667 del 08/07/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 44667 Anno 2013
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: CAMMINO MATILDE

SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di
1) AVERSANO Andrea n.Napoli il 3 maggio 1984
2)

AVERSANO Aniello n. Napoli 1’8 settembre 1981

3)

CENTO Gianluca n. Napoli il 27 giugno 1975

4)

D’ANNA Salvatore n. Napoli il 4 aprile 1984

5) FALZARANO Geremia n. Arzano il 4 novembre 1971
6)

MARCHESE Salvatore n. Napoli il 18 febbraio 1972

7)

MASELLA Giannantonio n. Napoli il 25 giugno 1977

8) MOSCATO Maria n. Frattamaggiore il 13 luglio 1970
9)

REGINA Vincenzo n. Napoli il 13 dicembre 1983

10) RUSSO Domenico n. Napoli il 29 settembre 1961
11) RUSSO Virginia n. Grumo Nevano

agosto 1976

Data Udienza: 08/07/2013

12)

SALEMME Domenico n. Napoli il 5 marzo 1933

13)

SALVATORE Luisa Carmen n. Napoli il 4 dicembre 1980

14)

SICA Gerardo n. Napoli il 5 febbraio 1952

15)

SPENUSO Marta n. Grumo Nevano il 19 giugno 1972

16)

VERDE Antonio n. Sant’Antimo il 10 maggio 1952

17)

VERDE Antonio n. Sant’Antimo il 14 gennaio 1960

avverso la sentenza emessa il 6 dicembre 2011 dalla Corte di appello di Napoli

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Matilde Cammino;
udita la requisitoria del pubblico ministero, sost. proc. gen. dott. Luigi Riello, che ha chiesto per
tutti i ricorrenti l’inammissibilità del ricorso, in subordine il rigetto;
sentiti i difensori avv. Eleonora Appolloni del foro di Roma, avv. Pietro Pomanti del foro di
Roma, avv. Pier Giuseppe Di Virgilio del foro di Roma in sostituzione dell’avv. Fulvio Melillo,
avv. Vincenzo Montanino del foro di S. Maria Capua Vetere, avv. Michele A. Basile del foro di S.
Maria Capua Vetere anche in sostituzione dell’avv. Paolo Sperlongano, avv. Giovanni Aricò del
foro di Roma, avv. Giovanni Cappuccio del foro di Napoli, avv. Cesare Placanica del foro di
Roma e avv. Giuseppe Gianzi del foro di Roma che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi
dei rispettivi assistiti;
osserva quanto segue.

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Con sentenza in data 6 dicembre 2011 la Corte di appello di Napoli, pronunciandosi
sull’appello del pubblico ministero e di ventisette imputati, ha riformato la sentenza emessa il 6
maggio 2010 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, all’esito del giudizio
abbreviato, con la quale erano state emesse condanne per plurime violazioni della normativa in
materia di stupefacenti, per i delitti associativi previsti dall’art.416 bis c.p. e dall’art.74
D.P.R.309/90 e per reati minori.

del pubblico ministero relativo all’esclusione dell’aggravante prevista dall”art.7 d.l. n.152/91 nei
confronti di alcuni imputati, l’ha accolto quanto all’assoluzione di Verde Antonio c1.1960 dal
reato ascrittogli al capo B (all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90) ed ha ridotto o rideterminato in
determinati casi la pena, confermando le restanti statuizioni.
Avverso la predetta sentenza gli imputati Aversano Andrea, Aversano Aniello, Cento
Gianluca, D’Anna Salvatore, Falzarano Geremia, Marchese Salvatore, Masella Giannantonio,
Moscato Maria, Regina Vincenzo, Russo Domenico, Russo Virginia, Salemme Domenico,
Salvatore Luisa Carmen, Sica Gerardo, Spenuso Marta, Verde Antonio c1.1952 e Verde Antonio
c1.1960 hanno proposto -personalmente Salemme Domenico e Spenuso Marta e tramite il
difensore gli altri- ricorso per cassazione.
Il presente procedimento trae origine dall’attività di intercettazione telefonica ed
ambientale e dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (Danese Bruno, Masella
Giannantonio, Aversano Aniello, Vitale Domenico) che avevano consentito -unitamente alle
sentenze passate in giudicato attestanti la preesistenza delle associazioni camorristiche clan Verde
e clan Aversano e l’operatività in epoche precedenti di un’associazione dedita al traffico di
sostanze stupefacenti nel parco ICE SNEI (cd. palazzine) del comune di Grumo Nevano e nei
comuni limitrofi- di ricostruire l’attività di spaccio svolta da numerosi soggetti operanti nel
territorio in questione, in una zona a rigido controllo camorristico, in cui la piazza di spaccio era
contesa dai due gruppi (clan Verde e clan Aversano) che si alternavano nel predominio anche a
prezzo di scontri e intimidazioni.
Per comodità espositiva saranno prese in considerazione distintamente le posizioni dei
singoli ricorrenti.
1. AVERSANO Andrea
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Aversano Andrea era
stato dichiarato colpevole del delitto di cui all”art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa

All’esito del giudizio di appello la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello

l’aggravante dell’art.7 d.1.152/91, ed era stato condannato, con le circostanze attenuanti generiche
prevalenti sulle residue aggravanti, alla pena di anni quattro, mesi sei di reclusione (pena base anni
dodici, con la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche anni sei, mesi nove di reclusione,
ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Michele A. Basile del foro di S. Maria Capua
Vetere, si deduce la violazione dell’art.606 lett.b) c.p.p. in relazione alla ritenuta sussistenza

mancanza della prova della conoscenza da parte del ricorrente del fatto che altri sodali avessero la
disponibilità di armi e, comunque, della prova che le armi fossero funzionali rispetto agli scopi
dell’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti; non si era tenuto conto che il
ricorrente era dedito allo spaccio “su strada” e aveva una posizione marginale nell’ambito
dell’associazione.
Il ricorso è inammissibile.
Le censure sono generiche e non tengono conto della motivazione della sentenza
impugnata (f.99 ss.) che puntualizza in maniera adeguata e giuridicamente corretta le condizioni,
ritenute sussistenti nel caso di specie, per configurare l’aggravante dell’associazione armata. La
Corte territoriale ha fatto riferimento ad un numero elevatissimo di conversazioni intercettate da
cui si desume la disponibilità di armi da parte degli associati (tra cui le conversazioni nn.8 e 10 del
28 ottobre 2003 tra Spenuso Marta e il padre Spenuso Gabriele circa il possesso di armi da parte di
Di Nardo Franco; la conversazione tra Russo Virginia, depositaria di armi del fratello Russo
Domenico, e il marito Marchese Salvatore; la conversazione del 17 febbraio 2004 tra Russo
Domenico e Masella Giannantonio in cui si parla di “pistole parcheggiate”; conversazione n.132
tra Spenuso Gabriele e Cavaliere Angelo; la conversazione n.186 del 5 dicembre 2003 tra
Salemme Domenico e il figlio Gaetano circa il possesso di armi da parte del Di Nardo; le
conversazioni del 21 gennaio 2004 tra De Lucia Giuseppe e Vitale Domenico) e alle dichiarazioni
dei collaboratori di giustizia Vitale Domenico e Masella Giannantonio, i quali avevano ammesso
di aver detenuto armi.
E’ consolidata la giurisprudenza di questa Corte nel senso che, in tema di reati concernenti
gli stupefacenti, la circostanza aggravante dell’associazione armata, prevista dall’art. 74, quarto
comma, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, diversamente da quella analoga ipotizzata dall’art. 416 bis,
quinto comma, c.p. quanto all’associazione per delinquere di stampo mafioso, richiede
unicamente la disponibilità di armi, non esigendo anche la correlazione tra queste ultime e gli

dell’aggravante prevista dal quarto comma dell’art.74 D.P.R.309/90 (associazione armata), pur in

5

scopi perseguiti dall’associazione criminosa (Cass. sez.I 12 maggio 2010, P.G. in proc. De Vivo e
altri; sez.II 8 gennaio 2009 n.13682, Aveta e altri; sez.V 13 marzo 1996 n.4750, Rizzo e altri; sez.I
8 giugno 1994 n.9370, Morabito e altri)..
Questa Corte ha inoltre affermato -ai fini dell’ascrivibilità dell’aggravante prevista dall’art. 74,
comma quarto, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 dell’essere l’associazione armata- il principio
secondo il quale l’aggravante in questione va valutata a carico dell’agente secondo il disposto

dell’aggravante inerente alla consegna delle sostanze stupefacenti a persona di minore età: Cass.
sez.VI 29 gennaio 2008 n.20663, Cassoni e altro; sez.VI 9 luglio 2010 n.41306, A.) e che non è
possibile desumere la consapevolezza dell’esistenza dell’armamento o, in alternativa, la sua
colpevole misconoscenza in base alle semplici dimensioni del traffico di stupefacenti gestito dalla
organizzazione (Cass. sez.I 8 giugno 1994 n.9370, Morabito). Il regime di imputazione soggettiva
delle circostanze aggravanti previsto dall’art. 59 c.p., comma 2, come modificato dalla L. 7
febbraio 1990, n. 3, art. 11, ha inteso escludere che per l’operatività delle circostanze sia
sufficiente la loro obiettiva esistenza, ritenendo invece necessaria l’esistenza di un coefficiente
psicologico di imputazione all’autore, seppure richiedendo un legame meno intenso rispetto a
quello necessario per gli elementi essenziali del reato. Ne consegue che per attribuire l’evento
aggravato al soggetto agente debba necessariamente postularsi la sua “colpevolezza” anche in
relazione alla circostanza contestata, che per essere accollata all’agente deve ancorarsi a un
coefficiente di prevedibilità concreta.
Il giudice di merito nel caso del ricorrente (f.107 e ss.) non si è discostato dalla giurisprudenza
di legittimità anche relativamente all’imputazione dell’aggravante dell’associazione armata ex
art.74 D.P.R. n.309/90, avendo evidenziato l’attività continuativa di spaccio svolta dall’imputato,
pienamente inserito nel contesto associativo come si desumeva dal contenuto delle conversazioni
intercettate specificamente riportate, insieme con il fratello Aversano Aniello e alle dipendenze
dello zio Di Nardo Franco, significativamente soprannominato Francuccio sette pistole. Costui,
come risulta dal contenuto delle conversazioni intercettate (ff.99, 101), era uno dei soggetti da cui
il ricorrente riceveva direttive e con il quale aveva frequenti contatti non solo telefonici, per cui
era concretamente prevedibile che Aversano Andrea fosse a conoscenza che lo zio-datore di
lavoro disponesse di armi.
2. AVERSANO Aniello
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Aversano Aniello era
stato dichiarato colpevole del delitto di cui ali” art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B) a partire

dell’art. 59, comma secondo, c.p. (analogamente si è ritenuto quanto alla sussistenza

dal 22 ottobre 2003 e -riconosciuta l’attenuante prevista dall”art.8 d.l. n.152/91, con conseguente
disapplicazione dell’aggravante prevista dall”art.7 d.l. cit., nonché l’attenuante del settimo comma
dell’art.74 D.P.R.309/90 ritenute prevalenti sulle residue aggravanti e ritenuto il vincolo della
continuazione con i delitti oggetto della sentenza della Corte di appello di Napoli in data 13 aprile
2005, divenuta irrevocabile il 19 dicembre 2006- era stato condannato alla pena di anni cinque,
mesi quattro di reclusione (pena base per il più grave reato art.74 D.P.R.309/90 di cui alla

un anno per la continuazione, valutate le circostanze attenuanti descritte, ridotto l’aumento per il
rito abbreviato a mesi otto).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Luigi A. M. Ferrone del foro di Salerno, si deduce
la violazione dell”art.606 lett.b), c) ed e) c.p.p. in relazione all’art.74, comma settimo, D.P.R.
n.309/90 e all’art.8 d.l. n.152/1991 e il difetto di motivazione quanto al mancato riconoscimento
della massima riduzione di pena prevista per la cd. dissociazione attuosa, pur essendosi dato atto
nella sentenza impugnata dell’ampia collaborazione prestata dal ricorrente (il quale aveva
chiamato in correità anche il fratello Andrea) e pur dovendosi escludere che la gravità del reato
possa incidere nel calcolo della pena sulla misura della riduzione per effetto dell’attenuante
speciale; si rileva, inoltre, che diverso trattamento era stato riservato al coimputato Masella
Giannantonio, per il quale la pena era stata ridotta operando la massima riduzione prevista
dall’attenuante del settimo comma dell”art.74 D.P.R. cit. .
Il ricorso è inammissibile.
Al ricorrente, collaboratore di giustizia, era stata riconosciuta sin dal giudizio di primo grado la
continuazione con il reato oggetto di una precedente condanna, divenuta irrevocabile, in ordine ad
un reato (art.74 D.P.R. n.309/90) analogo a quello oggetto del presente processo ed era stata
applicata, sulla pena per il reato già giudicato, l’aumento per la continuazione nella misura di un
anno di reclusione, ridotto per il rito ad otto mesi. Le doglianze formulate con il ricorso
riproducono sostanzialmente gli argomenti prospettati nell’appello, ai quali la Corte territoriale ha
dato adeguata e argomentata risposta, giuridicamente corretta, che il ricorrente non considera né
specificatamente censura. Il giudice di appello ha infatti ritenuto che, -valutati tutti i criteri dettati
dall’art.133 c.p. e le risultanze processuali”, la pena non fosse -improntata ad eccessiva severità”
e non fosse, pertanto, ulteriormente riducibile. Del resto il giudice di primo grado aveva solo
stabilito un aumento per la continuazione sulla pena per il reato ritenuto più grave, tenendo conto
delle attenuanti riconosciute. Non risulta che il giudice di merito abbia compiuto, nel determinare
l’aumento per la continuazione, una specifica valutazione della gravità del reato, della capacità a

precedente condanna Corte di appello di Napoli anni quattro, mesi otto di reclusione, aumentata di

delinquere dell’imputato e delle ragioni che avevano determinato la sua collaborazione, né che
nella determinazione dell’aumento per la continuazione l’incidenza delle attenuanti per la
collaborazione prestata dal ricorrente sia stata considerata in misura inferiore al massimo. La
riconosciuta significatività da parte del giudice di appello del contributo alle indagini prestato dal
ricorrente non avrebbe peraltro potuto comportare automaticamente la riduzione di pena nella
misura massima prevista dall’art.8 d.l. n.152/91, rientrando la determinazione dell’entità della

risulta aver preso in considerazione sia i criteri previsti dall’art.133 c.p. (tra cui il comportamento
collaborativo successivo alla commissione del reato) sia le risultanze processuali per confermare
la misura, ritenuta sostanzialmente congrua, dell’aumento di pena per la continuazione indicato
dal giudice di primo grado. Improponibile è, infine, il confronto con il trattamento sanzionatorio
riservato al coimputato Masella il cui contributo collaborativo, per l’acquisizione di elementi
specifici ed efficaci per la prova in ordine al reato associativo, è stato oggetto di autonoma
valutazione.
3. CENTO Gianluca
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Cento Gianluca era stato
dichiarato colpevole del delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), con
l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91 e con l’aumento per la recidiva secondo il precedente regime,
ed era stato condannato alla pena di anni undici di reclusione (pena base anni dodici, aumentata
per l’art.7 d.l. n.152/91 ad anni sedici ed aumentata di mesi sei per la recidiva, ridotta per il rito
abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Michele A. Basile del foro di S. Maria Capua
Vetere, si deduce:
1)

la violazione dell’art.606 lett.b) c.p.p. in relazione all’aggravante prevista dal quarto

comma dell’art.74 D.P.R.309/90 (associazione armata), pur in mancanza della prova della
conoscenza da parte del ricorrente del fatto che altri sodali avessero la disponibilità di armi;.
2)

l’erronea applicazione di legge in relazione all’art.7 di. n.152/91 in quanto l’agevolazione

dell’attività dell’associazione camorristica denominata -clan Aversano” non sarebbe stata
ravvisabile nella condotta ascritta al ricorrente il quale, rientrato nel paese di origine, era stato
“assunto” da Santaniello Massimino prima quale “tagliatore” di droga e poi come cassiere e, dopo
breve tempo, si era allontanato dalla zona appropriandosi di una discreta somma di denaro
dell’associazione criminosa; in questo ristretto spazio temporale il ricorrente non avrebbe

riduzione nell’ambito di valutazione discrezionale del giudice di merito il quale nel caso di specie

compiuto alcuna attività diretta a favorire il – clan Aversano , ormai tramontato anche se alcuni
componenti superstiti continuavano ad agire illecitamente nel perseguimento di personali interessi
economici; peraltro il Cento non ricopriva un ruolo apicale e, comunque, identiche posizioni
processuali di coimputati erano state valutate diversamente.
Il ricorso è inammissibile.

La Corte non può che riportarsi a quanto osservato nell’esaminare l’analogo motivo di ricorso
del coimputato Aversano Andrea. Con particolare riferimento alla consapevolezza della
disponibilità di armi, la Corte rileva che dal contesto della motivazione (ff. 123, 124) si desume,
attraverso specifici riferimenti tratti dal contenuto delle conversazioni intercettate oltre che dalle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Aversano Aniello e Masella Giannantonio, lo stretto
rapporto di collaborazione del ricorrente con Di Nardo Franco detto sette pistole, che abitualmente
(come si desumeva dalle conversazioni intercettate ) aveva la disponibilità di armi.
Il secondo motivo è generico e, comunque, introduce questioni di fatto improponibili in
questa sede. Nel caso in esame il giudice di merito ha ineccepibilmente osservato che il forte
legame di Cento Gianluca con il clan Aversano era dimostrato dal tenore dei colloqui in carcere
tra Santaniello Massimiliano e la nuora Salvatore Luisa Carmen (da cui si desumeva il pieno
inserimento nell’ambito dell’attività organizzata dal Santaniello nel parco di Grumo Nevano del
Cento, il quale si era reso irreperibile non per allontanarsi dal sodalizio ma per timore di essere
arrestato a seguito delle dichiarazioni accusatorie rese nei suoi confronti da Marrandino Ciro; i
riferimenti del Santaniello ad un’appropriazione di denaro da parte del Cento era dimostrativa
dell’appartenenza del ricorrente al gruppo) nonché dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Masella Giannantonio e Aversano Aniello, i quali avevano entrambi indicato l’imputato come un
affiliato al clan Aversano deputato al settore degli stupefacenti ch,e per conto del D’Anna e del Di
Nardo nel periodo in cui il Santaniello era detenuto, collaborava come cassiere e addetto al taglio
delle sostanze stupefacenti. Le conclusioni circa la sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.7
d.l. n.152/91 risultano quindi congruamente giustificate dal giudice di merito attraverso una
puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione della condotta nell’ambito
associativo del ricorrente esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto basta per
rendere la sentenza impugnata incensurabile sul punto non essendo il controllo di legittimità
diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a
verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e

Il primo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato.

5
plausibile. Le censure difensive sono fondate su una diversa lettura degli elementi di fatto e una
conseguente diversa valutazione delle risultanze processuali, ma non evidenziano nella
motivazione della sentenza impugnata specifiche violazioni di legge che possano integrare il vizio
di legittimità.

4. D’ANNA Salvatore
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale D’Anna Salvatore,

del delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa l’aggravante dell’art.7 d.l.
n.152/91 e, valutata la recidiva secondo il precedente regime, era stato condannato alla pena di
anni otto, mesi quattro di reclusione (pena base anni dodici, aumentata di mesi sei per la recidiva,
ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Pietro Pomanti del foro di Roma, si deduce:
1)

la violazione ed erronea applicazione dell’art.74 D.P.R.309/90 e il vizio della motivazione

in quanto si era ritenuta sussistente la contestata associazione finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti sulla base di una serie di sentenze di condanna emesse in procedimenti nei quali il
ricorrente non era imputato; la motivazione sarebbe carente in particolare quanto all’apporto
individuale del D’Anna al sodalizio e alla sua volontà e consapevolezza di farne parte;
emergerebbe anzi dalla motivazione della sentenza impugnata la situazione conflittuale del
D’Anna nei confronti del patrigno (Santaniello Massimiliano);
2)

la violazione ed erronea applicazione dell’art.192 co.2 e 3 c.p.p. quanto alla valutazione

dell’attendibilità dei chiamanti in correità Masella e Aversano, le cui dichiarazioni erano state
erroneamente ritenute convergenti e tali da riscontrarsi reciprocamente; del tutto generico sarebbe,
comunque, il richiamo al riscontro costituito dalle conversazioni intercettate, che integrerebbero
peraltro dei meri indizi;
3)

la violazione ed erronea applicazione del quarto comma dell’art.74 D.P.R.309/90 e il

difetto di motivazione per la ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’associazione armata, pur in
mancanza della prova della conoscenza da parte del ricorrente del fatto che altri sodali avessero la
disponibilità di armi e, comunque, della prova che le armi in questione fossero nella disponibilità
dell’associazione e non dei singoli;
4)

la violazione ed erronea applicazione degli artt.62 bis e 99 c.p. e il difetto di motivazione

quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, giustificato nella
sentenza impugnata con un mero richiamo per relationem alle valutazioni del giudice di primo

assolto dal reato associativo contestato al capo A (art.416 bis c.p.), era stato dichiarato colpevole

/to

grado, e alla richiesta di esclusione della recidiva contestata che i precedenti dell’imputato non
avrebbero potuto far ravvisare.
E’ stata depositata nell’interesse del ricorrente una memoria difensiva con la quale si
ribadiscono i motivi oggetto del ricorso principale, con riferimento in particolare alla ritenuta
partecipazione del D’Anna all’associazione criminosa pur in mancanza da parte del ricorrente di
condotte significative che denotassero l’organico inserimento nel sodalizio criminoso e in

Il ricorso è inammissibile.
Con il primo e il secondo motivo si prospettano censure fondate su una diversa lettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione la cui valutazione è compito esclusivo
del giudice di merito ed è inammissibile in questa sede, essendo stato comunque l’obbligo di
motivazione esaustivamente soddisfatto nella sentenza impugnata con valutazione critica di tutti
gli elementi offerti dall’istruttoria dibattimentale e con indicazione, pienamente coerente sotto il
profilo logico-giuridico, degli argomenti a sostegno dell’affermazione di responsabilità.
Va innanzitutto puntualizzato che nella motivazione della sentenza impugnata il contenuto
di sentenze irrevocabili acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. è stato valutato, al pari delle
dichiarazioni dei coimputati nel medesimo procedimento, attraverso la verifica dei necessari
riscontri che possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica (Cass. sez.VI
30 settembre 2008 n.42799, Campesan; sez.II 28 febbraio 2007 n.16626, Guarnieri) . Infatti, con
particolare riferimento alla valutazione della posizione del D’Anna, è stato valorizzato il
contenuto delle conversazioni intercettate e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Aversano
Aniello e Masella Giannantonio.
Quanto alle dichiarazioni dei predetti collaboratori di giustizia, le stesse si caratterizzano,
come rilevato nella motivazione della sentenza impugnata attraverso un’approfondita analisi
comparativa dei riferimenti al D’Anna fatti dai due collaboratori (contestando, tra l’altro, l’assunto
difensivo secondo il quale il Masella aveva detto che il D’Anna era stato

capopiazza

ininterrottamente dal 2002 al 2004), per la loro sostanziale convergenza in ordine all’attività e al
ruolo svolto dal ricorrente, per l’indipendenza da suggestioni o condizionamenti, per la specificità,
costituendo nel loro complesso narrazioni individualizzanti che riguardano sia la persona
dell’imputato che le condotte ascritte. La convergenza del molteplice è stata pertanto correttamente
ravvisata in sede di merito, non potendosi peraltro pretendere la completa sovrapponibilità degli
elementi d’accusa forniti dai dichiaranti e dovendosi privilegiare l’aspetto sostanziale della loro
concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere (Cass. sez.II 4

presenza, per contro, di elementi circa i rapporti conflittuali tra il D’Anna e il patrigno.

marzo 2008 n.13473, Lucchese; sez.II 17 dicembre 1999 n.3616, Calascibetta).
Quanto all’interpretazione delle conversazioni intercettate in carcere tra Santaniello
Massimiliano, la moglie Traino Concetta e la nuora Salvatore Luisa Carmen e alle altre
conversazioni intercettate, telefoniche e ambientali, specificamente indicate a ff.159-165 della
sentenza impugnata, va rilevato che in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni,
l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o

di legittimità se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (tra e
tante, cfr. Cass. sez.VI 11 febbraio 2013 n.11794, Melfi; sez.VI 11 dicembre 2007 n.15396, Sitzia
e altri; sez.IV 28 ottobre 2005 n.117, Caruso). Peraltro in tema di ricorso per cassazione, è onere
del ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni
effettuate, indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia
effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o anche provvedendo a
produrlo in copia nel giudizio di cassazione (Cass. sez.II 20 marzo 2012 n.25315, Ndreko e altri;
sez.I 22 gennaio 2009 n.6112, Bouyahia; sez.I 18 marzo 2008 n.16706, Falcone).
Gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni possono, inoltre, costituire fonte diretta di
prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri
elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi
attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa
interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora,
con altri dati o elementi certi (Cass. sez.VI 4 novembre 2011 n.3882, Annunziata; sez.VI 3 maggio
2006 n.29350, Rispoli; sez.IV 25 febbraio 2004 n.21726, Spadaro; sez.IV 2 aprile 2003 n.22391,
Qehalliu).
Nel caso di specie le censure relative al rilievo attribuite alle intercettazioni coinvolgenti la
persona del D’Anna sono del tutto generiche e, risolvendosi in una serie di doglianze prive di
contenuto specifico, non consentono il controllo di legittimità.
Va, infine, ribadito che il sindacato di legittimità sulla gravità, precisione e concordanza
della prova indiziaria non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della
concordanza degli indizi, in quanto ciò comporterebbe inevitabilmente apprezzamenti riservati al
giudice di merito, ma deve tradursi nella verifica della correttezza del ragionamento probatorio del
giudice di merito, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali dettati
dall’art. 192, comma secondo, c.p.p. e se siano state coerentemente applicate le regole della logica
nell’interpretazione dei risultati probatori (Cass. sez.IV 12 novembre 2009 n.48320, Durante;

cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio

42_

sez.IV 19 marzo 2009 n.19730, Pozzi; sez.l 25 settembre 2008 n.42993, Pipa; sez.IV 15 novembre
2002 n.20474, Caracciolo).
Il terzo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato per le ragioni indicate
nell’esaminare l’analoga censura proposta nell’interesse dei coimputati Aversano Andrea e Cento
Gianluca. Anche il D’Anna era stato, nella ricostruzione del giudice di merito, stretto

Il quarto motivo è del pari manifestamente infondato.
Le circostanze attenuanti generiche sono state negate con riferimento alla gravità dei fatti e ai
precedenti penali. Va a questo riguardo osservato che la sussistenza di circostanze attenuanti
rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal
giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché
la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in
cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori
attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Cass. sez.VI 24 settembre 2008 n.42688, Caridi;
sez.VI 4 dicembre 2003 n.7707, Anaclerio). Pertanto il diniego delle circostanze attenuanti
generiche può essere legittimamente fondato anche sull’apprezzamento di un solo dato negativo,
oggettivo o soggettivo, che sia ritenuto prevalente rispetto ad altri (Cass. sez.VI 28 maggio 1999
n.8668, Milenkovic). Nel caso in esame il giudice di primo grado, la cui motivazione la Corte
territoriale ha espressamente richiamato quanto al trattamento sanzionatorio, aveva peraltro dato
rilievo all’assoluta pericolosità del D’Anna desunta dall’intensità e gravità della condotta posta in
essere e alla latitanza prolungata, dimostrando di aver valutato positivamente anche la persistente
pericolosità dell’imputato che avrebbe impedito l’esclusione della recidiva.
5. FALZARANO Geremia
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Falzarano Geremia era
stato dichiarato colpevole del delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa
l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, ed era stato condannato, con le circostanze attenuanti
generiche prevalenti sulle residue aggravanti, alla pena di anni quattro, mesi sei di reclusione
(pena base anni dodici, con la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche anni sei, mesi
nove di reclusione, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Paolo Sperlongano del foro di S. Maria Capua
Vetere, si deduce:

collaboratore del Di Nardo, che aveva la disponibilità di armi.

1) la violazione dell’art.606 lett.b) ed e) c.p.p. in relazione all’art.74 D.P.R.309/90 in quanto
la partecipazione del ricorrente all’associazione criminosa era stata desunta da appena dieci
conversazioni telefoniche intercettate nel breve periodo dal 3 dicembre 2003 al 23 gennaio 2004,
in cui l’interlocutore era Di Nardo Franco, in un solo caso unitamente ad Aversano Aniello; in
dette conversazioni si percepiva l’esigenza del ricorrente di avere sostanza stupefacente destinata
al suo personale consumo, lo stesso collaboratore di giustizia Aversano Aniello aveva accreditato

che facesse parte del contesto associativo; gli altri collaboratori di giustizia avevano del pari
escluso che il Falzarano fosse partecipe dell’associazione;
2) la violazione di legge in relazione all’art.74 comma quarto D.P.R.309/90 per la ritenuta
sussistenza dell’aggravante dell’associazione armata, pur in mancanza della prova della
conoscenza da parte del ricorrente del fatto che altri sodali avessero la disponibilità di armi e,
comunque, della prova che le armi fossero funzionali rispetto agli scopi dell’associazione
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.
Il ricorso è inammissibile.
Con il primo motivo si tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla
ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva
competenza del giudice di merito. Nel caso in esame il giudice di merito ha ineccepibilmente
osservato che la prova della responsabilità dell’imputato si desumeva dalle dichiarazioni di
Aversano Aniello, dal tenore delle conversazioni intercettate dal 3 dicembre 2003 al 24 gennaio
2010 (da cui risultava che il ricorrente coadiuvava Di Nardo Franco, dirigente dell’associazione
ex art.74 D.P.R. n.309/90 contestata al capo B, nella distribuzione della droga, accompagnandolo
nei suoi spostamenti e controllando l’andamento della “piazza- ; si trattava peraltro di telefonate
intercorse anche con altri componenti dell’associazione) e dalle modalità dell’arresto del Di Nardo
(sfuggito il giorno precedente all’arresto puntando la pistola ed esplodendo alcuni colpi
all’indirizzo dei Carabinieri) avvenuto nell’abitazione del Falzarano, che denotavano il grado di
consapevolezza di quest’ultimo circa il suo inserimento nel contesto associativo. Il giudice di
appello ha ritenuto con argomentazione logicamente coerente che, nel contesto sopra evidenziato,
la circostanza che in alcune occasioni il ricorrente avesse richiesto sostanza stupefacente per il suo
personale consumo risultasse irrilevante. La conclusione circa la responsabilità del ricorrente
risulta quindi adeguatamente giustificata dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione
delle prove e una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto
basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede essendo il controllo di

l’ipotesi che il Falzarano fosse tossicodipendente e il Di Nardo nel suo memoriale aveva escluso

legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito,
ma solo verificare se la valutazione dei fatti sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel
complesso esauriente e plausibile. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una
“rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via
esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze

sono state intercettate le telefonate coinvolgenti il Falzarano non può essere ritenuta significativa,
ben potendo essere riconducibile al sopravvenuto arresto del Di Nardo e non essendo comunque
necessario, ai fini della configurabilità del reato di partecipazione a un’associazione per delinquere
comune o di tipo mafioso, che il vincolo tra il singolo e l’organizzazione si protragga per una certa
durata, ben potendo, al contrario, ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve periodo
(Cass. sez.I 18 marzo 2011 n.31845, D. e altri; sez. VI 17 novembre 1998 n.3685, Cortes J.)
Il secondo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato per le ragioni indicate
nell’esaminare l’analoga censura dei coimputati Aversano Andrea, Cento e D’Anna. Peraltro lo
stretto legame con il Di Nardo, che il Falzarano non aveva esitato ad ospitare dopo che lo stesso si
era sottratto all’arresto sparando all’indirizzo dei carabinieri, costituiva un concreto elemento circa
la conoscenza dell’imputato circa la disponibilità di armi dell’associazione criminosa per la quale
“lavorava”.

6. MARCHESE Salvatore
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Marchese Salvatore,
assolto dal delitto contestato al capo N1, era stato dichiarato colpevole del delitto di cui all’art.74
co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa l’aggravante dell’art.7 d.1.152/91, ed era stato
condannato, con le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle residue aggravanti, alla pena
di anni quattro, mesi sei di reclusione (pena base anni dodici, con la prevalenza delle circostanze
attenuanti generiche anni sei, mesi nove di reclusione, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Domenico Di Donato del foro di Napoli, si deduce
la violazione dell’art.606 lett.e) c.p.p. in relazione al valore attribuito nella sentenza impugnata
alle intercettazioni ambientali e telefoniche, il cui contenuto non sarebbe chiaro; si tratterebbe
peraltro di conversazioni tra soggetti legati da rapporti di parentela, di cui non sarebbe stata
adeguatamente verificata l’effettiva riconducibilità al ricorrente; i collaboratori di giustizia, la cui
attendibilità non sarebbe stata valutata correttamente, non avevano del resto fornito elementi a
carico del ricorrente.

processuali (Cass. S.U. 30-4- 1997 n. 6402, Dessimone). La (relativa) brevità del periodo in cui

45
Il ricorso è inammissibile perché generico e perché introduce censure in fatto inammissibili in
questa sede.
Va peraltro ribadito quanto detto nell’esaminare il ricorso del D’Anna circa l’onere del
ricorrente, che lamenti l’omessa o travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate,
di indicare l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia effettivamente
acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o anche provvedendo a produrlo in copia

2009 n.6112, Bouyahia; sez.I 18 marzo 2008 n.16706, Falcone).
Quanto alla riconducibilità al ricorrente dei colloqui intercettati all’interno dell’autovettura
Volkswagen il giudice di merito ha contestato con adeguata motivazione, facendo riferimento ad
altro colloquio intercettato tra il Marchese e la moglie Russo Virginia, i rilievi difensivi.
Dal contenuto delle intercettazioni (ff.214-219), ha rilevato la Corte territoriale, erano
risultati i contatti del Marchese e della moglie Russso Virginia non solo con Russo Domenico,
fratello della donna, ma anche con Moscato Maria (moglie di Russo Domenico e, come il marito,
componente dell’organizzazione delittuosa dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti), contatti
inequivocabilmente connessi al traffico di sostanze stupefacenti svolto nell’ambito
dell’associazione criminosa contestata al capo B ed esulanti dai meri rapporti familiari. L’esito
della perquisizione domiciliare svoltasi il 10 marzo 2004, che aveva condotto al sequestro di
sostanze stupefacenti e di materiale idoneo al loro confezionamento in dosi, costituiva nella
ricostruzione del giudice di merito una conferma certa di quanto già era emerso dalle
intercettazione circa il coinvolgimento dei coniugi nella struttura associativa.
7. MASELLA Giannantonio
Con la sentenza di primo grado Masella Giannantonio era stato dichiarato colpevole del
delitto di cui all’art.416 bis co.1, 2, 3, 4, 5 e 8 (capo A), del delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4
D.P.R.309/90 (capo B) e del delitto di cui agli artt. 10 e 14 1.497/74 (capo B2) ed era stato
condannato -riconosciute l’attenuante dell’art.8 d.l. n.203/91, con conseguente disapplicazione
dell’aggravante dell’art.7 d.l.cit., e l’attenuante prevista dal settimo comma dell . art.74 D.P.R. cit.,
ritenute prevalenti sulle residue aggravanti contestate, ritenuta inoltre la continuazione- alla pena
di anni tre, mesi otto di reclusione (pena base per il più grave reato al capo B anni dodici, ridotta
ex art.74 co.7 ad anni sei, ridotta ex art.63 co.5 c.p. per l’art.8 d.l. n.152/91 ad anni quattro,
aumentata per la continuazione ad anni cinque, mesi sei, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con la sentenza di appello la pena è stata ridotta ad anni due, mesi, giorni dieci di reclusione e

nel giudizio di cassazione (Cass. sez.II 20 marzo 2012 n.25315, Ndreko e altri; sez.I 22 gennaio

sono state revocate le pene accessorie.
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Eleonora Appolloni del foro di Roma, si deduce la
violazione ed erronea applicazione degli artt.62 bis e 133 c.p. in relazione al mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, negate per la gravità dei fatti e per i
plurimi, reiterati e gravi precedenti penali senza tener conto del mutato stile di vita e del
ravvedimento interiore del ricorrente.

presente che in altra sentenza, a seguito di giudizio di rinvio, al Masella sono state riconosciute le
circostanze attenuanti generiche (sentenza della Corte di appello di Napoli sez.VI 14 dicembre
2012, allegata alla memoria).
Il ricorso è inammissibile.
Il richiamo alla gravità dei fatti e ai plurimi e reiterati precedenti “di una certa gravità”
costituisce un’adeguata motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche, mentre è irrilevante il riconoscimento delle medesime circostanze attenuanti
nell’ambito di un diverso procedimento. La concessione o meno delle attenuanti generiche rientra,
infatti, nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio
deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione
circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo
(Cass. sez.VI 28 ottobre 2010 n.41365, Straface). Nel motivare il diniego della concessione delle
attenuanti generiche non è quindi nemmeno necessario che il giudice prenda in considerazione
tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente
che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o
superati tutti gli altri da tale valutazione (Cass. sez.VI 16 giugno 2010 n.34364, Giovane).
Peraltro, in tema di reati di criminalità organizzata, il riconoscimento della circostanza
attenuante di cui all’art. 8 D.L. n. 152 del 1991 non implica necessariamente, data la diversità dei
relativi presupposti, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, le quali si fondano su
una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a delinquere del colpevole (Cass.
sez.VI 15 aprile 2010 n.20145, Cantiello). Non è consentito, del resto, utilizzare gli elementi posti
a fondamento della concessione della circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta

“dissociazione attuosa”, prevista dall’art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12
luglio 1991 n. 203 (provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di
trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) una seconda volta anche per

E’ stata depositata nell’interesse del ricorrente una memoria difensiva con la quale si fa

/0-

giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, perché ciò condurrebbe a
un’inammissibile ripetuta valorizzazione dei medesimi elementi (Cass. sez.V 13 luglio 2010
n.34574, Russo).

8. MOSCATO Maria
Con la sentenza di primo grado Moscato Maria era stata dichiarata colpevole del delitto di
cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, ed

abbreviato di un terzo).
Con la sentenza di appello la pena è stata rideterminata, con le circostanze attenuanti
generiche ritenute prevalenti, in anni quattro, mesi cinque, giorni dieci di reclusione ed è stata
sostituita la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea
per la durata di anni cinque..
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Fernando Rossi del foro di Napoli, si deduce la
violazione di legge e l’illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento
dell’attenuante prevista dall’art.8 d.l. n.152/91 e delle attenuanti previste dal settimo comma
dell’art.73 D.P.R.309/90 e dal settimo comma dell’art.74 D.P.R.309/90, essendo la Moscato
divenuta collaboratrice di giustizia, sottoposta a programma di protezione, subito dopo la
pronuncia di primo grado; nel ricorso si fa notare che la difesa aveva ottemperato al deposito
presso la Procura Generale dei verbali d’interrogatorio resi dalla Moscato e dal marito Russo
Domenico, coimputato, come disposto dalla Corte territoriale nell’originaria composizione, (in
considerazione della richiesta difensiva di riapertura dell’istruzione dibattimentale), ma che dopo
il mutamento del collegio giudicante la Corte aveva ritenuto non indispensabile l’esame dei
predetti imputati; con la sentenza impugnata la pena era stata ridotta, ma non si era dato conto in
motivazione né della mancata audizione degli imputati suddetti, né del mancato riconoscimento
delle attenuanti speciali per i collaboratori di giustizia che si chiede a questa Corte di riconoscere.
Si deduce altresì la nullità ex art.420 ter e quinquies c.p.p..
In data 12 marzo 2012 è stata depositata dall’avv. Gianluca Ziino presso la cancelleria
della Corte di appello di Napoli la dichiarazione, sottoscritta dall’imputata con firma autenticata
dal difensore, di rinuncia al ricorso per cassazione.
L’intervenuta rinuncia al ricorso, ritualmente presentata, determina una causa di
inammissibilità dell’impugnazione ai sensi dell’art. 591co.1 lett.d) c.p.p..

era stata condannata alla pena di anni otto di reclusione (pena base anni dodici, ridotta per il rito

Ae
9. REGINA Vincenzo
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Regina Vincenzo,
assolto dal reato di cui all’art.416 bis c.p. contestato al capo A, era stato dichiarato colpevole del
delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), con l’aggravante dell’art.7 d.l.
n.152/91, ed era stato condannato, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni undici,
mesi quattro di reclusione (pena base anni ventiquattro aumentata ex art.7 d.l. n.152/91 -nel limite

effetto speciale- ad anni ventiquattro e mesi sei, ridotta per le circostanze attenuanti generiche ad
anni diciassette, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con il ricorso, presentato dall’avv.Vincenzo Montanino del foro di S. Maria Capua Vetere,
si deduce:
1) la contraddittorietà, illogicità e mancanza di motivazione e l’erronea applicazione di legge
quanto alla ritenuta appartenenza del Regina all’associazione ex art.74 D.P.R. n.309/90 contestata
al capo B e al ruolo che egli avrebbe svolto nell’ambito del sodalizio; l’affermazione di
responsabilità era basata sulle dichiarazioni, contraddittorie, dei collaboratori di giustizia Masella
Giannantonio e Aversano Aniello che secondo il giudice di merito, invece, si riscontravano
reciprocamente e trovavano conferma nell’esito delle intercettazioni; la Corte territoriale si
sarebbe tuttavia contraddetta nell’affermare che le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia
si riferivano a periodi diversi, giungendo però alla conclusione che le dichiarazioni del Masella,
secondo il quale il Regina aveva avuto il compito di consegnare il denaro provento di spaccio a
Spenuso Gabriele nel periodo di gestione della piazza da parte del Di Nardo, non escludevano che
lo stesso Regina potesse essere stato, prima o dopo, il gestore della piazza e trovavano riscontro
nelle dichiarazioni dell’Aversano il quale tuttavia, si puntualizza nel ricorso, aveva attribuito al
Regina un ruolo diverso da quello di gestore della piazza di spaccio e aveva anzi sostenuto che
prima del Di Nardo la piazza era gestita da Spenuso Malia e non da altri soggetti; la Corte
territoriale, inoltre, avrebbe trascurato il rilievo difensivo riguardante le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Vitale Domenico, il quale aveva confermato quanto riferito sul punto
dall’Aversano contestando le affermazioni del Masella circa la gestione della piazza prima del Di
Nardo (f.164 della motivazione della sentenza di primo grado); il giudice di appello non avrebbe
poi considerato l’altro rilievo difensivo relativo alla mancanza nelle conversazioni intercettate di
riferimenti al Regina fino all’avvento, nel novembre 2003, del Di Nardo, che il Regina neppure
conosceva (v. conversazione n.30 del 28 ottobre 2003); la Corte territoriale aveva menzionato a
carico del Regina solo la conversazione n.863 del 2 gennaio 2004 da cui risultava che Spenuso

dell’art.63 co.4 c.p. per le aggravanti dell’art.74 D.P.R. n.309/90 e non per la recidiva che non è ad

45
Gabriele informava il Regina che il Di Nardo gli aveva portato 500,00 euro; l’interpretazione di
detta conversazione da parte del giudice di merito sarebbe apodittica e, comunque, contraddetta da
altre intercettazioni indicate nell’atto di appello; richiamando genericamente tutte le conversazioni
riportate nella sentenza di primo grado, la Corte territoriale non avrebbe assolto all’obbligo della
motivazione specifica sul fatto che il Regina fosse il collettore del denaro provento dello spaccio e
sull’accordo tra lo stesso Regina e lo Spenuso per allontanare Di Nardo dalla gestione della piazza

conversazioni intercettate da cui, secondo il difensore, si evincerebbe che autore della piazza di
spaccio era solo D’Anna Salvatore e non anche il Regina, il quale non aveva la disponibilità dei
proventi dello spaccio; il ricorrente si duole, infine, della mancata valutazione della conversazione
intercorsa tra Masella Giannantonio e Russo Domenico, intercettata all’interno di un’autovettura il
17 febbraio 2004, che era rilevante per la difesa, della deduzione della prova a carico del
ricorrente “per mancata esclusione”, rilevando che anche secondo il collaboratore Aversano
Aniello non era il Regina a rifornire la piazza nel periodo di gestione del Di Nardo e a raccogliere
la quota dei proventi da versare allo Spenuso, essendosi l’imputato limitato a promettere aiuto a
quest’ultimo per il recupero della sua quota; il contributo del Regina, cui non avrebbe potuto
comunque attribuirsi il ruolo di organizzatore dell’associazione criminale, sarebbe legato a
quest’unico episodio, relativo ad un’attività svolta nell’interesse di un singolo soggetto e non per
l’associazione;
2) il vizio della motivazione e l’erronea applicazione della legge quanto alla ritenuta sussistenza
dell’aggravante prevista dall’art.7 d.l. n.152/91 sulla base delle dichiarazioni del Masella e del
contenuto dell’intercettazione a ff.239, 240 della sentenza di primo grado, da cui si evincevano i
contatti del Regina con esponenti del “clan Verde” per ottenere il permesso di gestire la piazza di
spaccio; l’intercettazione in questione sarebbe generica e non avrebbe consentito, comunque, di
riconoscere un ruolo paritetico tra il Regina e i Verde né, tanto meno, di ravvisare nel pagamento
della “quota” imposta dal clan Verde, da parte del gestore della piazza, la finalità di agevolare
l’associazione camorrista; non era risultato, infine, che Spenuso Gabriele usasse dividere la
propria “quota” con i congiunti.
Il ricorso va rigettato.
Le doglianze formulate con il primo motivo riproducono infatti pedissequamente gli
argomenti prospettati nell’appello (ff.250-254 motivazione sentenza appello), ai quali la Corte
territoriale ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il
ricorrente si limita a contestare riproponendo la propria interpretazione del contenuto delle

di spaccio; si contesta, infine, l’interpretazione data nella sentenza impugnata ad altre

7.0

conversazioni intercettate e ravvisando contraddizioni ritenute, nella motivazione della sentenza
impugnata, insussistenti sulla base di ragionamenti logicamente coerenti. In particolare il giudice
di merito, con argomentazioni ineccepibili anche sotto il profilo della correttezza giuridica, ha
evidenziato che non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni “de relato” quelle con le
quali un intraneo (come il Masella) riferisca notizie assunte nell’ambito associativo, costituenti un
patrimonio comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse

n.4977, Finocchiaro; sez.I 6 maggio 2010 n.23242, Ribisi); che comunque le dichiarazioni del
Masella, il quale rivestiva un ruolo di spicco nell’ambito del clan Aversano, circa il ruolo del
Regina nell’ambito associativo avevano trovato riscontro nelle conversazioni intercettate e nelle
dichiarazioni dell’altro collaboratore di giustizia Aversano Aniello; che il Masella e l’Aversano
avevano affermato che il Regina prendeva parte attiva nella gestione della piazza di spaccio di
grumo Nevano, su incarico dello zio Spenuso Gabriele e con il placet dei Verde; che la lamentata
contraddittorietà tra il Masella e l’Aversano era inesistente in quanto il Masella aveva parlato del
Regina allorché gli era stato chiesto del ruolo di Di Nardo Franco (a questo proposito, pur usando
l’inadeguata espressione “non è possibile escludere”, la Corte sostanzialmente individua come
inequivoci riferimenti alla persona del Regina e al suo ruolo nell’ambito del traffico di sostanze
stupefacenti le allusioni contenute nelle conversazioni telefoniche n.419 del 24 dicembre 2003 e
n.637 del 25 dicembre 2003 al “cugino” da parte del Di Nardo e a “enzuccio” da parte di Spenuso
Marta che parlava con il padre del mancato rifornimento di droga); che la riluttanza ad effettuare i
pagamenti a Spenuso Gabriele da parte del Di Nardo, emergente da alcune conversazioni
intercettate, non era in contraddizione con quanto dichiarato dall’Aversano circa il ruolo di
collettore dei pagamenti svolto dal Regina, che trovava invece conferma nella conversazione
n.863 del 2 gennaio 2004 in cui Spenuso informava il nipote di un modesto versamento effettuato
dal Di Nardo che entrambi gli interlocutori progettavano di allontanare per fare posto allo stesso
Regina e a “Totore” (D’Anna Salvatore); che le conversazioni indicate dalla difesa dimostravano,
contrariamente a quanto prospettato nell’appello, il pieno coinvolgimento del Regina con il ruolo
di organizzatore della piazza di spaccio unitamente al D’Anna, del cui comportamento il Regina si
lamenta con Spenuso.
Nonostante la specifica e dettagliata motivazione il ricorrente si duole della contraddittorietà,
illogicità e mancanza di motivazione e dell’erronea applicazione di legge, limitandosi a ribadire le
tesi già esposta nei motivi di appello e confutate, con diffuse e ragionevoli argomentazioni, nella
sentenza impugnata

comune per gli associati (Cass. sez.I 13 marzo 2009 n.15554, Lo Russo; sez.V 8 ottobre 2009

Il secondo motivo è infondato.
La sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.7 d.l. n.152/91 è stata ritenuta sussistente
sulla base delle conversazioni intercettate e delle dichiarazioni di Masella Giannantonio da cui si
evinceva che il Regina, come lo zio Spenuso Gabriele, era in stretto contatto con i vertici del clan
Verde dai quali dipendeva il suo ruolo di gestore della piazza di spaccio. Nel versamento di una

“quota” ai vertici del clan Verde, in cambio del benestare per la gestione della piazza di spaccio, è

Spenuso Marta il giudice di primo grado aveva infatti rilevato che (a differenza dei coimputati
Aversano Andrea, D’Anna Giovanni, D’Anna Salvatore, Di Nardo Giuseppe, Falzarano Geremia,
Marchese Salvatore, Marcone Vincenzo, Moscato Maria, Piscopo Michele, Russo Virginia,
Salemme Armando, Salemme Domenico, Salvatore Luisa Carmen) non si era colta alcuna
intimidazione o necessità di sottostare al versamento della “quota” trattandosi di soggetti assunti
al seguito di Spenuso Gabriele (deceduto nel gennaio 2006), il quale traeva vantaggio per sé e i
suoi parenti dall’incarico di direzione e che, dunque, si muoveva in posizione contrattualmente
paritetica rispetto ai Verde i quali, nella fase di espansione del loro clan in concomitanza con la
crisi del clan Aversano, avevano inteso concedergli un riconoscimento per il silenzio mantenuto
durante la detenzione per un omicidio commesso per loro conto. La condotta del Regina e di
Spenuso Marta, anche per i rapporti diretti avuti con Antonio Verde ‘o .furnaro e altri esponenti
dell’omonimo clan, è stata ritenuta agevolatrice del clan Verde, perché dal mantenimento di tale

sponsor derivava il proprio coinvolgimento nell’affare della gestione della piazza di spaccio del
rione ICE SNEI di Grumo Nevano, nella piena consapevolezza che il venir meno del controllo da
parte dei Verde avrebbe voluto dire perdere la gestione della piazza di spaccio e il guadagno
conseguente. Tale conclusione appare razionalmente giustificata e non si discosta dai principi
della giurisprudenza di legittimità secondo la quale il perseguimento, da parte dell’agente,
dell’ulteriore scopo di trarre anche un vantaggio patrimoniale diretto dal fatto criminoso, è
astrattamente compatibile con la finalità di agevolazione dell’associazione mafiosa, integrante la
circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 7 d.l. cit. ( Cass. sez.I 24 maggio 2012
n.49086, Acanfora), circostanza che può qualificare anche la condotta di chi, senza essere
organicamente inserito in un’associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi
fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o
sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (Cass.
sez.VI 12 luglio 2012 n.31437, Messina e altro; sez.VI 13 novembre 2008 n.2696, P.M. in proc.
D’Andrea; sez.II 27 settembre 2004 n.44402, Colicchia).

stata ravvisata l’agevolazione dell’associazione camorristica. Nel caso di Regina Vincenzo e

10. RUSSO Domenico
Con la sentenza di primo grado Russo Domenico era stato dichiarato colpevole dei delitti
di cui all’art.74 co. l , 2, 3, 4 D.P.R.309/90 (capo B), di cui agli artt.81 cpv, 73 D.P.R.309/90 (capo
B1), ritenuto unico episodio quello del 27 e 3 gennaio 2004 ed escluso quello del 26 febbraio
2004, nonché dei reati di cui agli artt.74 co.1 e 2 D.P.R.309/90 (capo D), 10, 12 e 14 1.497/74
(capo N), 10, 12 e 14 1.497/74 (capo Ni), 73 D.P.R.309/90 (capo V; capo A10) ed era stato

per il più grave reato al capo B anni ventiquattro di reclusione aumentata per l’art.7 1.203/91 -nel
limite ex art.63 n.4 c.p. e non per la recidiva che non è ad effetto speciale per la precedente
disciplina- ad anni ventisei, aumentata per la continuazione ad anni ventotto, mesi quattro per
ognuno dei sei reati satellite, ridotta per il rito).
Con la sentenza di appello la pena è stata rideterminata, con le circostanze attenuanti
generiche prevalenti sulle contestate aggravanti ed esclusa quella di cui all’art.7 d.l. n.152/91, in
anni undici, mesi dieci e giorni venti di reclusione.
Con il ricorso, presentato dall’avv. Fernando Rossi del foro di Napoli, si deduce la
violazione di legge e l’illogicità della motivazione per il mancato riconoscimento dell’attenuante
prevista dall’art.8 d.l. n.152/91 e delle attenuanti previste dal settimo comma dell’art.73
D.P.R.309/90 e dal settimo comma dell’art.74 D.P.R.309/90, essendo il Russo divenuto
collaboratore di giustizia, sottoposto a programma di protezione, subito dopo la pronuncia di
primo grado; nel ricorso si fa notare che la difesa aveva ottemperato al deposito presso la Procura
Generale dei verbali d’interrogatorio resi nell’arco dei centottanta giorni previsti dalla legge
n.45/01 dal Russo e dalla moglie Moscato Maria, coimputata, come disposto dalla Corte di appello
nell’originaria composizione (in considerazione della richiesta difensiva di riapertura
dell’istruzione dibattimentale), ma che dopo il mutamento del collegio giudicante la Corte aveva
ritenuto non indispensabile l’esame dei predetti imputati; con la sentenza impugnata la pena era
stata ridotta, ma non si era dato conto in motivazione né della mancata audizione degli imputati
suddetti (in altri procedimenti si era invece proceduto all’audizione del Russo), né del mancato
riconoscimento delle attenuanti speciali per i collaboratori di giustizia e si chiede a questa Corte di
riconoscerle o, quanto meno, l’annullamento con rinvio in ordine al trattamento sanzionatorio.
Si deduce anche la nullità ex art.420 ter e quinquies c.p.p. in quanto il Russo, pur avendo
rinunciato a comparire all’udienza del 26 settembre 2011, non era stato tradotto alle successive
udienze “seppure richiesto” ed era stato presente solo all’udienza in cui era stato letto il
dispositivo; si deduce, infine, la violazione dell’art.3 Cost..

condannato, ritenuta la continuazione, alla pena di anni diciotto, mesi otto di reclusione (pena base

Il ricorrente è deceduto in Monza il 21 novembre 2012, come risulta dalla documentazione
trasmessa dalla direzione della casa circondariale di Monza. Si impone pertanto, nei suoi
confronti, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato estinto, ai sensi
dell’art.150 c.p., per morte dell’imputato.

11. RUSSO Virginia
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Russo Virginia era stata

di cui agli artt.110, 81 cpv., 10 e 12 1.497/74 (capo N1), esclusa l’aggravante dell” art.7 d.l.
n.152/91, ed era stata condannata, con le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle residue
aggravanti contestate, ritenuta la continuazione, alla pena di anni quattro, mesi sei di reclusione
(pena base per il più grave reato al capo B anni dodici, con la prevalenza delle circostanze
attenuanti generiche anni dieci e dunque anni sei, mesi nove di reclusione, ridotta per il rito
abbreviato di un terzo).
Con i motivi di ricorso, presentati dall’avv. Domenico Di Donato del foro di Napoli, si deduce
la violazione dell’art.606 lett.e) c.p.p. in relazione al valore attribuito nella sentenza impugnata
alle intercettazioni ambientali e telefoniche il cui contenuto non sarebbe chiaro; si tratterebbe
peraltro di conversazioni tra soggetti legati da rapporti di parentela, senza adeguata verifica
dell’effettiva riconducibilità alla ricorrente e senza prova della loro presenza nelle autovetture in
cui sono state intercettate conversazioni tra presenti; i collaboratori, la cui attendibilità non
sarebbe stata valutata adeguatamente, non avevano fornito elementi a carico del ricorrente.
Il ricorso è inammissibile per le stesse ragioni indicate nell’esaminare il comune ricorso del
coimputato Marchese.

12. SALEMME Domenico
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Salemme Domenico era
stato dichiarato colpevole del delitto di cui all”art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa
l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, ed era stato condannato alla pena di anni otto, mesi quattro di
reclusione (pena base anni dodici, aumentata di mesi sei per la recidiva, ridotta per il rito
abbreviato di un terzo).
Con il ricorso, presentato personalmente, l’imputato deduce:
1)

la violazione del principio del ne bis in idem, essendo stato già giudicato nel

processo “Terra bruciata” fondato sugli stessi fatti;

cf,

dichiarata colpevole del delitto di cui all’art.74 co. l , 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B) e del delitto

2)

l’illogicità o contraddittorietà della motivazione in quanto gli sarebbe attribuita la

“continuazione” nella gestione della piazza di spaccio, mentre da un colloquio intercettato
risulterebbe che l’imputato commentava con Spenuso Marta la gestione da parte del coimputato
Di Nardo.
E’ stata presentata nell’interesse del ricorrente una memoria difensiva in cui si sostiene la

Il ricorso è inammissibile perché del tutto generico.
La censura relativa alla violazione del principio ne bis in idem è infatti formulata in modo
stereotipato, senza riferimenti alla fattispecie concreta contestata e senza alcun collegamento con i
passaggi della motivazione della sentenza impugnata, in cui si puntualizza che le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Masella Giannantonio relative alla condotta del Salemme si riferivano al
periodo dal settembre 2003 al 2004, in cui nella reggenza della piazza di spaccio si erano
succeduti Spenuso Marta e Nevischio Anastasio, che Aversano Aniello aveva reso dichiarazioni
convergenti e che le conversazioni intercettate, estesamente riportate nella motivazione della
sentenza di primo grado legittimamente richiamata per relationem dalla Corte territoriale,
confermavano ulteriormente il coinvolgimento del ricorrente nell’ambito associativo finalizzato al
traffico di sostanze stupefacenti nella piazza di Grumo Nevano. Quanto alle ulteriori generiche
doglianze, la Corte rileva che nella motivazione della sentenza impugnata viene in particolare
citata la conversazione svoltasi tra il Salemme e Spenuso Marta il 29 novembre 2003 all’interno
della vettura dell’imputato, il quale esplicitamente riconosce di fare ancora parte della piazza di
spaccio gestita all’epoca da Di Nardo Franco.

13. SALVATORE Luisa Carmen
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Salvatore Luisa Carmen,
assolta per non aver commesso il fatto dal reato contestato al capo A (art.416 bis c.p.), era stata
dichiarata colpevole del delitto di cui all”art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B), esclusa
l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, ed era stata condannata, con le circostanze attenuanti
generiche prevalenti sulle residue aggravanti contestate, alla pena di anni quattro, mesi sei di
reclusione (pena base anni dodici, con la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche anni
dieci e dunque anni sei, mesi nove di reclusione, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con il ricorso, presentato dall’avv. Carlo Fabbozzo del foro di Napoli, si deduce la violazione
di legge e il vizio della motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione della ricorrente al reato
associativo sulla base di intercettazioni ambientali, da cui emergeva solo che la Salvatore era un

fondatezza dei motivi di ricorso.

soggetto sprovveduto alla ricerca di denaro dopo l’arresto dei familiari; i collaboratori Masella e
Aversano Aniello non avevano riferito a suo carico episodi specifici di rilevanza penale; si
contesta anche il riconoscimento dell’aggravante dell’associazione armata, non potendo avere
l’imputata consapevolezza della disponibilità di armi da parte di eventuali sodali.
Il ricorso è inammissibile perché introduce, in maniera peraltro del tutto generica, questioni di
fatto che rientrano nell’esclusiva competenza del giudice di merito che le ha già compiutamente

dalla Salvatore che, come si desumeva dalle intercettazioni dei suoi colloqui con i suoceri
Santaniello Massimiliano e Traino Concetta, si rendeva portavoce di informazioni, ordini e
“imbasciate” necessari per la sopravvivenza dell’organizzazione e si occupava, su espresso
incarico del suocero detenuto, della contabilità dello spaccio. Il giudice di appello ha
legittimamente richiamato per relationem le argomentazioni contenute nella motivazione della
sentenza di primo grado per giustificare l’affermazione di responsabilità della Salvatore, che era
stata assolta per non aver commesso il fatto dal giudice per le indagini preliminari in data 21
ottobre 2003 in ordine a due episodi di spaccio ma non era stata giudicata in ordine al reato
associativo. La Corte territoriale ha evidenziato, inoltre, la portata delle dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Masella, esponente di spicco del clan Aversano (cui apparteneva anche
Santaniello Massimiliano), il quale aveva riconosciuto in fotografia la Salvatore, aggiungendo di
non aver mai avuto a che fare con la donna ma di sapere che -si occupava” di droga. Il giudice di
appello ha altresì sottolineato che, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Aversano
Aniello, la Salvatore talvolta si recava -sulle palazzine a prendere le quote spettanti al marito-,
attività in cui con coerenza logica il giudice di primo grado aveva ravvisato un contributo non
secondario al funzionamento sodalizio criminoso.
14. SICA Gerardo
Con la sentenza di primo grado Sica Gerardo, assolto dalle imputazioni ascritte ai capi A3 e
A7, era stato dichiarato colpevole dei reati di cui all’art.73 D.P.R.309/90 (capi V, Z, Al, A2, A4,
A5,A6, A8, A9), esclusa per tutti l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, ed era stato condannato,
ritenuta la continuazione, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione ed euro 38.000,00 di
multa (pena base per il più grave reato al capo A8 anni sei ed euro 30.000,00, aumentata per la
recidiva ad anni sei, mesi tre ed euro 33.000,00, aumentata per la continuazione ad anni otto, mesi
tre ed euro 57.000 -mesi tre ed euro 3.000,00 per ciascuno degli otto reati satellite- e ridotta per il
rito).
Con la sentenza di appello la pena è stata rideterminata in anni cinque, giorni venti di

valutate nella sentenza impugnata in cui si è evidenziato il ruolo non meramente passivo svolto

reclusione ed euro 26.000,00 di multa.
Con il ricorso, presentato dall’avv. Raffaele Leone del foro di Napoli, si deduce l’omessa o
manifesta illogicità della motivazione sia in ordine all’interpretazione delle intercettazioni
telefoniche, sia alle censure relative alla violazione del principio del ne bis in idem parziale in
relazione ad una vicenda ancora sub iudice dinanzi alla sezione distaccata di Frattamaggiore del
Tribunale di Napoli, sia ai motivi di gravame relativi alla rideterminazione della pena e alla

Il ricorso è inammissibile perché del tutto generico.
Le censure sono infatti formulate in modo stereotipato e assertivo, senza riferimenti alla
fattispecie concreta e senza alcun collegamento con i passaggi della motivazione della sentenza
impugnata, risolvendosi in una serie di doglianze prive di contenuto specifico che non consentono
il controllo di legittimità. Le censure relative alla pretesa genericità della sentenza impugnata sono
quindi a loro volta superficiali e prive di concretezza, pur avendo la Corte territoriale compiuto
un’approfondita e puntuale disamina del contenuto delle conversazioni intercettate (ff.306-311),
sulle quali era fondata l’affermazione di responsabilità del Sica in ordine ai plurimi episodi di
illecita detenzione e cessione di sostanze stupefacenti ascritti, e ridotto sensibilmente la pena,
negando tuttavia il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per le condivise ragioni
esposte nella motivazione della sentenza di primo grado espressamente richiamata sul punto.

15. SPENUSO Marta
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Spenuso Marta, era
stata dichiarata colpevole del delitto di cui all’art.74 co.1, 2, 3 e 4 D.P.R.309/90 (capo B) e del
delitto di cui agli artt.110, 81 c.p., 10, 12 e 14 1. n.497/74 (capo L) ed era stata condannata,
ritenuta la continuazione, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni undici, mesi
quattro di reclusione (pena base anni ventiquattro, aumentata ex art.7 d.l. n.152/91 -nel limite
dell’art.63 co.4 c.p. per le aggravanti dell’art.74 D.P.R. n.309/90 e non per la recidiva che non è ad
effetto speciale dovendosi applicare il più favorevole regime previgente- ad anni ventiquattro e
mesi sei, ridotta per le circostanze attenuanti generiche ad anni sedici, mesi sei, aumentata per la
continuazione al capo L ad anni diciassette, ridotta per il rito abbreviato di un terzo).
Con il ricorso, presentato personalmente, l’imputata deduce:
1)

la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione all’art.268 co.3 c.p.p. e

l’erronea applicazione di legge in quanto le operazioni di ascolto delle conversazioni intercettate

comparazione delle attenuanti.

2 9-

erano avvenute in locali diversi da quelli della Procura della Repubblica in assenza o insufficienza
della motivazione, con conseguente inutilizzabilità delle intercettazioni;
2)

la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione all’art.74 D.P.R. n.309/90 non

essendo stato individuato il ruolo svolto nell’ambito della compagine associativa dalla ricorrente e
non sussistendo nemmeno i presupposti dell’associazione criminosa contestata, potendosi dalle
conversazioni intercettate desumere al massimo il concorso di persone nel reato di spaccio di

comune tra la ricorrente e i suoi fornitori;
3)

la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione alla sussistenza

dell’aggravante prevista dall’art.7 d.l. n.152/91 e, comunque, in ordine alla consapevolezza da
parte della ricorrente che l’organizzazione criminosa agisse con modalità mafiose;
4)

la violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione al mancato riconoscimento

delle circostanze attenuanti generiche.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è del tutto generico perché reiterativo di analoga doglianza, motivatamente
disattesa dalla Corte territoriale. Nella motivazione della sentenza impugnata infatti si legge:
“…Le doglianze espresse dal difensore circa l ‘inutilizzabilità delle intercettazioni riversate in atti
sono infondate. La difesa assume, genericamente, che tutte le conversazioni captate nell’ambito
del presente giudizio sono inutilizzabili perché i decreti autorizzativi non sono motivati e non sono
adeguatamente indicate le ragioni della scelta di effettuare l’attività di captazione presso una
sede diversa dai locali della procura. Tali circostanze non risultano dalla lettura dei
provvedimenti autorizzativi, come ha osservato pure il giudice dell ‘udienza preliminare alle
pagine 38 e ss. dell’appellata sentenza, al cui contenuto si rinvia. Pertanto l ‘eccezione sollevata
dalla difesa deve essere respinta”. La ricorrente si è limitata a riproporre l’eccezione, senza
aggiungere alcun elemento di concretezza alla censura.
Il secondo motivo è generico essendo le doglianze manifestate in forma assolutamente astratta
senza prendere in considerazione l’ampio spazio riservato nella motivazione della sentenza
impugnata -sia nella parte generale (ff.86-97) che nell’esame dell’appello (ff.313-316)- al
coinvolgimento diretto della ricorrente nella gestione della piazza di spaccio di Grumo Nevano,
unitamente a D’Anna Salvatore e a Regina Vincenzo, e al nutrito compendio probatorio a suo
carico costituito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Aversano Aniello e Masella

sostanze stupefacenti e non emergendo elementi significativi in ordine al perseguimento di un fine

Giannatonio e, soprattutto, dalle innumerevoli conversazioni intercettate che la riguardano.
Emblematicamente, tra le conversazioni intercettate, la Corte territoriale ha evidenziato quella di
Spenuso Marta con il padre Spenuso Gabriele del 28 ottobre 2003 da cui risultava che la
ricorrente “…aveva mansioni di organizzatrice dell’associazione, con compiti di direzione della

piazza di spaccio; che la stessa era in contatto con i vertici dell’associazione dei Verde a cui
portava personalmente la “quota” dovuta per la gestione della piazza di spaccio; che ai suoi

l’associazione era armata; che nella piazza di Grumo Nevano l’attività dello spaccio era
incessante”.
Il terzo motivo è generico e, comunque, manifestamente infondato.
La Corte non può che richiamare quanto esposto nell’esaminare l’analogo motivo del
coimputato Regina Vincenzo.
Il quarto motivo è manifestamente infondato, essendo state le circostanze attenuanti generiche
già riconosciute dal giudice di primo grado.

16.VERDE Antonio c1.1952
In appello è stata confermata la sentenza di primo grado con la quale Verde Antonio c1.1952
era stato dichiarato colpevole dei reati ascrittigli ai capi A (art.416 bis co.1, 2, 3, 4, 5 e 8 c.p., quale
promotore) e B (art.74 D.P.R.309/90, quale promotore) ed era stato condannato, ritenuta la
continuazione, alla pena di anni venti di reclusione (pena base per il più grave reato al capo 13 anni
24, aumentata ex art.7 d.1.152/91 nei limiti di cui all’art.63 co.4 c.p. ad anni 29, aumentata per la
continuazione ad anni 30, ridotta di un terzo per il rito).
Con il ricorso, presentato dall’avv. Cesare Placanica, si deduce:
1)

la violazione di legge in relazione all’art.416 bis c.p. e la mancanza,

contraddittorietà e illogicità della motivazione essendo stata trascurata nella sentenza impugnata
l’analisi delle condotte in concreto contestate; la sentenza -fondata sulle conversazioni, telefoniche
e tra presenti, intercettate, sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, sul contenuto di
sentenze passate in giudicato attestanti la preesistenza in Grumo Nevano, Sant’Antimo e paesi
limitrofi del clan Aversano e del clan Verde, sull’operatività in epoche precedente a quella in
contestazione di un’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti nelle palazzine del
parco ICE di Grumo Nevano- ometterebbe di dimostrare la sussistenza di un’associazione
caratterizzata dai requisiti dell’assoggettamento e dell’omertà negli anni 2003-05 e il contributo

ordini si muoveva un esercito di piccoli spacciatori in numero superiore a dieci; che

25
del ricorrente; irrilevanti sarebbero le frequentazioni mafiose – (sentenza Sezioni Unite Mannino)
e confusa sarebbe l’analisi nella motivazione circa la coesistenza delle due associazioni (416 bis
c.p. e art.74 D.P.R.309/90); nella conversazione intercettata in carcere in data 17 giugno 2003 tra
Santaniello Massimiliano (clan Aversano), detenuto, e la nuora Salvatore Luisa Carmen
sostanzialmente si esclude la forza intimidatrice del clan Verde, che nella ricostruzione accusatoria
contendeva all’altro clan il controllo della piazza di spaccio della droga; al ricorrente non erano

si evinceva la sua compenetrazione nell’organizzazione del sodalizio;
2)

la violazione di legge in relazione all’art.74 D.P.R.309/90 e la mancanza, contraddittorietà

e illogicità della motivazione in quanto i collaboratori di giustizia non avevano attribuito al
ricorrente alcun ruolo specifico nell’ambito dell’associazione dedita al traffico di stupefacenti e la
sola affiliazione mafiosa, se sussistente, non sarebbe stata sufficiente a dimostrare anche la
partecipazione all’associazione ex art.74 D.P.R.309/90; del resto la semplice corresponsione di
una quota fissa, peraltro esigua rispetto al

“volume di affari” della piazza di spaccio,

all’associazione camorristica non avrebbe potuto comportare automaticamente la responsabilità
degli affiliati a quest’ultima associazione in ordine al traffico di sostanze stupefacenti; né nella
condotta del ricorrente sarebbero ravvisabili . facta concludentia o, comunque, l’impegno
permanente volto alla realizzazione dei fini dell’associazione ex art.74 D.P.R. cit.; sul punto le
dichiarazioni dei collaboratori Collaro, Masella, Vitale e Aversano Aniello sarebbero generiche; le
intercettazioni non erano riferibili al ricorrente e riguardavano solo la quota mensile (5.000,00
euro) di spettanza del clan Verde, che non riforniva di droga gli spacciatori ma si limitava a
percepire solo una sorta di “pizzo”:
3)

la violazione di legge in relazione all’art.416 bis co.II c.p. e 74 co.1 D.P.R.309/90 e la

mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione circa il ruolo di promotore, dirigente e
organizzatore dei due sodalizi attribuito al ricorrente, senza l’individuazione delle funzioni in
concreto esercitate e solo sulla scorta del cognome e della “fama”; anzi emergerebbe il
disinteresse del ricorrente alle vicende di Grumo Nevano e la mancanza di un suo potere
decisionale, né sarebbe sufficiente a configurare le aggravanti in questione il rispetto dimostrato
nei suoi riguardi, nelle conversazioni intercettate, dagli interlocutori;
4)

la violazione di legge in relazione all’art.416 bis comma quarto c.p, all’art. 74 co.3 e 4

D.P.R.309/90 e all’art.7 d.l. n.152/91 e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della
motivazione quanto all’associazione armata; il quarto comma dell’art.74 cit. presuppone
l’esistenza di un vero e proprio armamentario a disposizione degli aderenti al sodalizio; l’art.416

contestati specifici atti di intimidazione o violenza e nemmeno dalle dichiarazioni dei coimputati

bis c.p. richiede una disponibilità di armi costante, e non in relazione ai singoli episodi, ed è
inoltre configurabile solo per il compartecipe che di tale disponibilità sia consapevole; la
motivazione sul punto sarebbe del tutto generica, così come sul numero delle aggravanti superiore
a dieci; non sussisterebbe l’aggravante dell’art.7 d.l. n.152/91, la cui stessa contestazione sarebbe
del tutto generica;
5) la violazione di legge in relazione all’art.2 c.p. e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della

risalenti all’anno 2004 e si sarebbe quindi dovuto applicare il trattamento sanzionatorio
dell’art.416 bis c.p. vigente prima dell’entrata in vigore della legge n.251 del 2005; comunque in
caso di dubbio si sarebbe dovuto fare applicazione della legge più favorevole; Verde è stato
detenuto dal 5 aprile 2005 al 14 febbraio 2008 e non era stato positivamente accertato che durante
lo stato di detenzione avesse continuato ad esercitare il ruolo di vertice nell’ambito
dell’associazione criminosa.
Con il ricorso presentato dall’avv. Claudio Davino si deduce la mancanza e manifesta
illogicità della motivazione in relazione all’applicazione dell’art.74 co.1 D.P.R.309/90 e
dell’art.416 bis co.2 c.p. e, inoltre, la violazione dell’art.192 c.p.p. in relazione alla valutazione
dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle chiamate in correità; l’ampio richiamo per

relationem della sentenza di primo grado non sarebbe giustificato non avendo il giudice di appello
tenuto conto delle specifiche censure difensive, né fornito una corretta interpretazione degli
elementi a sua disposizione, esaminati solo superficialmente, così pervenendo alla condanna sulla
base di un accertamento non sostenuto dalla certezza razionale; i fatti oggetto del presente
processo sarebbero l’evoluzione di quelli oggetto della sentenza del giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Napoli del 21 ottobre 2003, che riconosceva l’esistenza di
un’autonoma associazione organizzata per la gestione della piazza di spaccio nel rione ICE di
Grumo Nevano e la responsabilità, in particolare, di Santaniello Massimiliano e della moglie
Traino Concetta i quali, come emergeva dalla conversazione intercettata nella sala colloqui della
casa circondariale Poggioreale il 17 giugno 2003, continuavano la loro illecita attività nonostante
lo stato di detenzione, cercando di fronteggiare il sopravvento assunto da Spenuso Gabriele,
coadiuvato dalla figlia Marta, dal nipote Regina Vincenzo e da D’Anna Salvatore (figliastro di
Santaniello) finché Spenuso Marta non era stata sostituita, dopo la scarcerazione, da Di Nardo
Franco; secondo i giudici di merito, la gestione della piazza di spaccio era stata tenuta
nell’interesse di clan camorristici, in particolare del clan Verde di Sant’Antimo cui spettava una
quota fissa dei proventi dello spaccio; la difesa aveva tuttavia rappresentato alla Corte territoriale

motivazione in quanto gli elementi a sostegno della responsabilità del ricorrente sarebbero tutti

che dalle intercettazioni telefoniche e ambientali non risultava alcuna ingerenza di Verde

‘o

furnaro nella gestione della piazza, né nel periodo in cui se ne era occupato Santaniello né in
quello in cui si erano succeduti Spenuso e Di Nardo; sul punto le argomentazioni contenute nella
sentenza impugnata non sarebbero adeguate e coerenti; le dichiarazioni di Masella Giannantonio e
Aversano Aniello, secondo la Corte territoriale, troverebbero riscontro in una conversazione
intercettata il 23 gennaio 2004 nella vettura di De Lucia tra quest’ultimo e il ricorrente, ma si

in sede di merito, non comproverebbe l’interessamento e l’intervento del ricorrente nella direzione
della gestione della piazza; illogica sarebbe la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia Marsella (de relato) e Aversano Aniello; non sarebbe stata valutata l’attendibilità
intrinseca dei collaboratori di giustizia, i quali avrebbero reso dichiarazioni non convergenti né
specifiche; non sarebbero stati indicati specifici elementi di riscontro individualizzante.
Con i motivi nuovi, depositati in data 11 giugno 2013 e sottoscritti dagli avv.ti Gianzie e
Placanica vengono ribadite, in forma sintetica, le doglianze formulate con i due ricorsi.
Quanto al ricorso presentato dall’avv. Placanica la Corte osserva quanto segue.
Il ricorso ripropone gran parte dei motivi di appello ai quali nella motivazione della
sentenza impugnata è stata data adeguata risposta, esaustiva in fatto e corretta in diritto.
In particolare, quanto al primo e al secondo motivo riguardanti i due reati associativi
contestati ai capo A e B, nella motivazione della sentenza impugnata si è dato conto non solo della
storica esistenza, fin dagli anni ’80, del clan Verde nella zona di San’Antimo, Grumo Nevano,
Casandrino e comuni limitrofi (ff.781 ss. della motivazione della sentenza di primo grado,
richiamata per relationem) -desunta dalle sentenze passate in giudicato che dimostravano la
compresenza sul territorio di due organizzazioni camorristiche, l’una denominata clan Aversano e
l’altra denominata clan Verde- ma anche dell’accertata ingerenza del clan Verde, nel periodo di
crisi del clan Aversano i cui esponenti di spicco erano detenuti, nell’attività di spaccio di sostanze
stupefacenti nella piazza di Grumo Nevano che era uno dei settori illeciti di cui l’organizzazione si
occupava. Dalle numerosissime conversazioni intercettate -tra le quali particolarmente
significativa il giudice di appello riteneva quella tra Spenuso Gabriele, che del clan Verde poteva
considerarsi un affiliato, il suo stretto collaboratore De Lucia Giuseppe e la figlia Spenuso Martasi è desunto che si trattava “di un’organizzazione molto potente, dedita alle attività di estorsione
ed al traffico di sostanze stupefacenti, dotata di uomini, mezzi e armi, di cui fanno parte con ruolo
di capi e dirigenti Verde Francesco detto il Negus, Verde Antonio classe ’52 detto ‘o .furnaro,
Verde Antonio classe ’60 detto Capuzzella, Marrazzo Vincenzo detto l’elettrauto (si vedano a

tratterebbe di un falso riscontro; il contenuto di alcune conversazioni intercettate, ritenute rilevanti

3a
questo proposito le dichiarazioni del collaboratore Ranucci Antimo riportate in nota, dal giudice
dell’udienza preliminare, a pagina 86 della sentenza)”. La Corte territoriale ha puntualmente
evidenziato le numerosissime conversazioni intercettate da cui risultava la forza e la vitalità del
clan Verde nel periodo in contestazione (ff.80 ss.; f.330), attribuendo particolare rilievo al
colloquio tra De Lucia Giuseppe, stretto collaboratore di Spenuso Gabriele, e Vitale Domenico in
cui il primo descriveva in maniera eloquente la potenza del clan Verde da lui direttamente

dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Masella Giannantonio e Aversano Aniello risultavano,
inoltre, il diretto coinvolgimento del clan Verde nell’attività della piazza di spaccio di Grumo
Nevano e il ruolo di collegamento svolto da Salvatore Luisa Carmen, nel periodo in cui il suocero
Santaniello Massimiliano era detenuto, con esponenti di spicco del clan al quale veniva versata la
contribuzione periodica per conto del Santaniello prima da D’Anna Giovanni, poi da D’Anna
Salvatore, poi da Spenuso Gabriele (ff.81, 82; ff.327,328 sentenza impugnata). Il clan Verde nelle
persone di ‘o fornaro (Verde Antonio cl.’52) e Capuzzella (Verde Antonio c1260) aveva assunto il
pieno controllo dell’organizzazione delineata al capo B “sia tenendosi pronti ad intervenire con
uomini e mezzi, in caso di attacchi esterni (come dimostra la conversazione n.8 del 28 ottobre
2003), sia scegliendo direttamente i gestori della piazza o mani! e.stando il loro consenso ai vari
cambi di guardia nella gestione della piazza” (a questo proposito si citano le dichiarazioni del
collaboratore di giustizia Masella Giannantonio, la conversazione intercettata il 23 gennaio 2004
tra De Lucia e “don Antonio”, identificato in ‘o .fbrnaro con il quale il De Lucia aveva avuto
precedenti incontri, per proporgli il figlio del Santaniello quale nuovo gestore della piazza di
spaccio, la conversazione tra lo stesso De Lucia e Vitale Franco del 12 gennaio 2004 in cui il De
Lucia ammetteva di essersi recato da ‘o ,fòrnaro per parlare della “guerra” che agitava la piazza).
Il terzo motivo è infondato.
Il ruolo di promozione e direzione svolto dal ricorrente è adeguatamente delineato nella
motivazione della sentenza impugnata con riferimento al contenuto delle conversazioni
intercettate e alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Masella Giannantonio e attraverso
l’ampio e legittimo richiamo alla sentenza di primo grado, che sul punto si sofferma
specificamente (ff.790, 791; ff.218, 223 e ss.) per arrivare alla conclusione che Verde Antonio
detto ‘o fornaro era l’esponente del clan Verde ripetutamente contattato da Spenuso Marta durante
la sua gestione, da De Lucia nel periodo critico della gestione del Di Nardo, dal Regina all’inizio
della sua gestione e che gli era attribuita

“la delega che si esprime in una pluralità di attività

tipiche della dirigenza contestata: assegnazione del gestore (Spenuso), autorizzazione ai cambi

constatata allorché si era recato da ‘o .fornaro a Sant’Antimo. Da altre intercettazioni e dalle

dei dirigenti operanti sulla piazza (Spenuso Marta, Di Nardo, Regina, D’Anna), ricezione della

quota di profitto” (f.244 sentenza primo grado).
Il quarto motivo è infondato.
Il giudice di appello ha fornito adeguata motivazione, per le ragioni indicate nell’esaminare
l’analoga doglianza di altri ricorrenti, circa la sussistenza dell’aggravante dell’associazione armata

spazio ai numerosi elementi, tratti principalmente dal contenuto delle intercettazioni, circa la
disponibilità di armi da parte di tutti coloro che rivestivano nell’ambito associativo ruoli di
organizzazione e gestione, armi disponibili anche al fine di risolvere i conflitti interni
all’associazione. Quanto all’aggravante del numero di associati superiori a dieci è stata fornita
ugualmente motivazione adeguata e giuridicamente corretta (ff.105,106 motivazione della
sentenza di appello e ff.339-340 motivazione della sentenza di primo grado). Quanto infine
all’aggravante prevista dall’art.7 d.l. n.152/91 il giudice di appello ha legittimamente richiamato le
osservazioni svolte dal giudice di primo grado (ff.331 ss. in generale e, con specifico riferimento
alla posizione di Verde Antonio cl.’52, a E339) il quale aveva rilevato, con argomentazioni del

tutto logiche, che “…il suo coinvolgimento come dirigente e referente per il proprio clan della
piazza di spaccio del rione Ice Snei nel periodo della gestione Spenuso comprova la sussistenza
dell’aggravante dell’art. 7 nelle due forme. Quella di agevolare il clan omonimo, in quanto è
evidente che la gestione condizionata al versamento di una quota di denaro mensile nella misura
di 5.000 euro risulti funzionale agli interessi del clan di appartenenza, del quale Verde è
dirigente; per altro verso, anche le modalità operative attraverso le quali è stato commesso il
delitto contestato al capo B, vale a dire a seguito di una imposizione conseguente alla crisi del
clan Aversano, esprimono proprio la modalità di azione tipica delle associazioni ex art. 416 bis
c.p… il controllo del territorio, l’esazione su qualunque fonte di reddito, lecita o illecita, che
Masella fìgurativamente chiama la camorra, l’ottenere la gestione ed il controllo economico di
tali attività…”. A fronte di tale motivazione, argomentata ed esaustiva, le doglianze difensive
risultano generiche.
Il quinto motivo è infondato.
Anche in ordine alla rigetto della richiesta di applicazione del trattamento sanzionatorio
anteriore all’introduzione della legge n.251/2005 la Corte territoriale ha fornito adeguata

motivazione osservando che il ruolo verticistico ricoperto dal ricorrente, in mancanza di gesti
significativi di allontanamento dal sodalizio, induceva ad escludere che con la detenzione fossero

ed anche nella motivazione della sentenza di primo grado (ff.340-344) viene riservato ampio

intervenute la dissociazione o la cessazione della permanenza del vincolo associativo. In tema di
associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina infatti la
necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio, atteso che la perdurante
appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l’affiliazione può essere correttamente
ritenuta in qualunque momento ove manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione (Cass.
sez.II 22 marzo 2011 n.17100, Curtopelle e altri). Correttamente il giudice di appello ha rilevato

prevedibili eventualità le quali, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di
detenzione, non impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla
programmazione delle sue attività e, dall’altro, non fanno cessare la disponibilità a riassumere un
ruolo attivo non appena venga meno il forzato impedimento (Cass. sez.IV 7 dicembre 2005
n.2893, Attolico). Nel ricorso nessun elemento concreto viene evidenziato circa un’eventuale
dissociazione del ricorrente che avrebbe avuto, in considerazione del ruolo di vertice ricoperto
nell’ambito associativo, una particolare rilevanza. Va ribadito peraltro che nel reato di
associazione per delinquere di stampo mafioso il vincolo associativo tra il singolo e
l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo
indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo
della cessazione del carattere permanente del reato soltanto l’avvenuto recesso volontario, che,
come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato caso per
caso in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta
valenza (Cass. sez.II 15 marzo 2012 n.25311, Modica e altri; sez.V 21 maggio 1998 n.3089,
Caruana, sez.VI 23 gennaio 2002 n.21174, Mannino). Il giudice di appello ha pertanto
correttamente escluso che la privazione della libertà personale possa in astratto costituire un
ostacolo insuperabile al mantenimento del vincolo associativo, conformandosi ad un principio
consolidato della giurisprudenza di legittimità ed anche recentemente riaffermato (Cass. Sez.II 22
marzo 2011 n.17100, Curtopelle; sez.IV 7 dicembre 2005 n.2893, Attolico; sez.VI 17 gennaio
2003 n.6262, Agate).
Quanto al ricorso dell’avv. Davino la Corte osserva che sostanzialmente si propone, in
forma estremamente analitica e impegnativa, una diversa lettura degli elementi di fatto, in
particolare del contenuto delle conversazioni intercettate, posti a fondamento della decisione la cui
valutazione è compito esclusivo del giudice di merito ed è inammissibile in questa sede, essendo
stato comunque l’obbligo di motivazione esaustivamente soddisfatto nella sentenza impugnata con
valutazione critica di tutti gli elementi offerti dall’istruttoria dibattimentale e con indicazione,
pienamente coerente sotto il profilo logico-giuridico, degli argomenti a sostegno dell’affermazione

che in determinati contesti delinquenziali, i periodi di detenzione sono accettati dai sodali come

?S
di responsabilità. La Corte non può che ribadire quanto detto nell’esaminare i primi due motivi
dell’altro ricorso presentato nell’interesse del Verde circa l’esaustività della motivazione della
sentenza impugnata -che va letta unitamente a quella di primo grado di segno conforme, con la
quale si integra- in ordine sia alla partecipazione del ricorrente ai delitti associativi contestati ai
capi A e B, sia al ruolo di promotore, dirigente e organizzatore dallo stesso svolto in entrambi i
sodalizi. Del resto l’indagine sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,

legislatore- a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata
al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una
diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30-41997 n. 6402, Dessimone).
Quanto alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le doglianze
risultano generiche mentre nella motivazione della sentenza impugnata le dichiarazioni del
Masella (sul punto delle chiamate in correità il giudice di primo grado si era estesamente
soffermato a ff.45-55 della sentenza di primo grado) risultano essere state valutate nel rispetto dei
principi giurisprudenziali enunciati da questa Corte, anche nella recente sentenza delle Sezioni
Unite n.20804 del 29 novembre 2012, Aquilina e altri, in cui si è puntualizzato che nella
valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di
riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva
delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi
rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva
del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma terzo,
c.p.p., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale.
17. VERDE Antonio c1.1960
In primo grado Verde Antonio c1.1960 era stato dichiarato colpevole del reato di cui
all’art.416 bis c.p. (capo A), con condotta permanente, ed era stato condannato alla pena di anni
dieci, mesi otto di reclusione (pena base anni dodici, aumentata per la recidiva ex art.99, commi
terzo e quarto, c.p., ad anni sedici, ridotta di un terzo per il rito) ed era stato assolto dal reato di cui
all’art.74 co.1, 2, 3, 4 D.P.R.309/90 (capo B, organizzatore e promotore) per non aver commesso il

dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato -per espressa volontà del

3‘

fatto.
All’esito del giudizio di appello il Verde è stato condannato, in accoglimento dell’appello
del pubblico ministero, anche in ordine al reato ascritto al capo B e, ritenuta la continuazione con
il capo A e con i fatti di cui alla pregressa sentenza di condanna della Corte di appello di Napoli in
data 15 dicembre 2006, divenuta irrevocabile il 30 gennaio 2007, la pena complessiva è
rideterminata in anni ventidue di reclusione (pena base per il più grave reato al capo B anni

ulteriormente aumentata per la continuazione per il reato al capo A ad anni trenta, ridotta per il rito
ad anni venti e aumentata per la continuazione esterna di due anni, mesi tre, ridotta infine di un
terzo per il rito).
Con il ricorso, presentato dall’avv. Giovanni Cappuccio, si deduce:
con riferimento al capo A
1) “violazione/erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla fattispecie di cui
all’art.416 bis c.p., ritenuta pur in carenza dei requisiti di tipicità; violazione della legge
processuale con riferimento agli artt.192 co. l e 546 c.p.p. per mancata valorizzazione in decisione
di tutti gli elementi probatori (anche di segno negativo), acquisiti in atti e per la dichiarata
utilizzazione (f 342 sentenza) della regola probatoria secondo la quale -stante la presenza in atti di
sentenze inerenti periodi pregressi e contributi dichiarativi di collaboratori di giustizia che
riferiscono su fatti passati e pacificamente fuori contestazione (ff.341-342 sentenza)- sarebbe
sufficiente alla statuizione di colpevolezza il -desumere la perduranza di accordi simili a quelli
stabiliti in precedenza”, così trasferendosi la massima secondo cui id quod plerumque accidit dal
piano causale a quello fattuale, per inferirne (non la prova del nesso eziologico, ma) la prova
dell’esistenza del fatto illecito in contestazione; violazione della legge processuale prevista a pena
di nullità, in relazione all’art.178 lett.c) c.p.p., per omessa delibazione sulle deduzioni difensive
formulate con l’appello; vizio di motivazione sub specie della carenza, illogicità manifesta e
contraddittorietà, per aver omesso di registrare la significatività probatoria della totale assenza di
contatti e relazioni tra il ricorrente, ritenuto capo e promotore dell’associazione, ed alcuno dei
numerosi associati (trattandosi di elemento assurto a paradigma sintomatica della sussistenza del
vincolo tipico), e per la vistosa incongruenza rappresentata dal mancato coinvolgimento ex art.110
c.p. del ricorrente nelle pur numerose (capi B2, I, L, N, Ni, S. Si, S2, S3, S4, S5, A21) ipotesi di
reati-scopo (trattandosi di elemento anch’esso assurto a paradigma probatorio sintomatico della
fattispecie in contestazione) invece contestate a presunti sodali e ritenute in sentenza, nonché sub

ventiquattro, aumentata ex art.7 D.L.152/91 nei limiti dell’art.63 n.4 c.p. ad anni ventinove,

specie del travisamento della prova (segnatamente delle trascrizioni delle conversazioni
valorizzate in sentenza n.1884 del 17 febbraio 2004 a f.343, n.2303 dell’8 marzo 2004 a f.344,
n.444 del 1° aprile 2004 a f.346, n.330 del 6 aprile 2004 a f.346, con riserva di successiva
produzione in copia) in ordine alla ricorrenza degli elementi di tipicità della fattispecie contestata,
con riferimento alla estensione della prova in danno dell’odierni ricorrente in ragione di
espressione plurali colte in sede di captazioni telefoniche ed ambientali tra soggetti terzi”con

captazioni telefoniche e ambientali tra soggetti terzi”;

2) “violazione/erronea applicazione della legge processuale penale, con riferimento alla
disposizione di cui all’art.649 c.p.p., in relazione alla omessa dichiarazione di improcedibilità per
violazione del principio del ne bis in idem, tenuto conto che la contestazione di cui al capo A
veniva elevata con riferimento agli anni 2003, 2004 e 2005, con condotta perdurante, e che -pur
rilevando la Corte territoriale l’assenza di comportamenti del ricorrente successivi all’anno 2004non veniva conseguentemente rilevata la ostatività ad un secondo giudizio nella sentenza, prodotta
in atti, con la quale il G.I.P. di Napoli, in data 21 dicembre 2005 (data alla quale deve, ex lege,
ricondursi la cessazione della permanenza, salva la emersione di elementi fattuali in grado di
retrodatare il termine), aveva condannato l’odierno ricorrente per identica contestazione; vizio di
motivazione, anche sub specie del travisamento della prova (segnatamente della sentenza G.I.P. 21
dicembre 2005, con riserva di successiva produzione in copia), in ordine alla censura ritualmente
dedotta in sede di gravame”;
3) “violazione/erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art.2 c.p., in relazione
alla ritenuta applicabilità del regime sanzionatorio inasprito ex arti legge 5 dicembre 2005 n.251,
nonostante la sentenza non evidenzi alcuna espressione comportamentale sintomatica della
persistenza del vincolo in epoca successiva al 2004; nullità della sentenza ex art.178 lett.c) c.p.p.
per elusione del contraddittorio in ragione della mancata rilevazione della censura ritualmente
proposta, in argomento, in occasione della predisposizione dei motivi di appello, ed aggirata
attraverso il rinvio alle osservazioni del primo giudice, del tutto ignorando che esse erano state
oggetto di puntuale critica; carenza di motivazione sul punto”
Con riferimento al capo B
4) “violazione della legge processuale prevista a pena di inammissibilità con riferimento alla
disposizione di cui all’art.591 co.4 c.p.p. in rapporto agli artt.581 co.1 lett.c) e 591 co.1 lett.c)

riferimento alla prova a carico del ricorrente, desunta dalle espressioni al plurale colte in sede di

c.p.p. per mancata declaratoria di inammissibilità -in parte qua- del gravame interposto dal
pubblico ministero (per il quale è riserva di successivo deposito) per assoluta genericità e mancata
indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta;
nullità della sentenza ex art.178 lett.c) c.p.p. per totale obliterazione delle note difensive -riprese
peraltro in sede di discussione- depositate all’attenzione della Corte territoriale sul punto e
nemmeno menzionate in sentenza”;

all’art.74 D.P.R.309/90., ritenuta pur in carenza dei requisiti di tipicità; violazione della legge
processuale con riferimento agli artt.192 co.1 e 546 c.p.p. per mancata valorizzazione in decisione
di tutti gli elementi probatori (anche di segno negativo), acquisiti in atti e per la dichiarata
utilizzazione (f.342) della regola probatoria secondo la quale -stante la presenza in atti di sentenze
inerenti periodi pregressi e contributi dichiarativi di collaboratori di giustizia che riferiscono su
fatti passati e pacificamente fuori contestazione (ff.341-342 sentenza)- sarebbe sufficiente alla
statuizione di colpevolezza il “desumere la perduranza di accordi simili a quelli stabiliti in
precedenza”, anche qui trasferendosi la massima secondo cui id quod plerumque accidit dal piano
causale a quello fattuale, per inferirne (non la prova del nesso eziologico, ma) la prova
dell’esistenza del fatto illecito in contestazione; vizio di motivazione sub specie della carenza,
illogicità manifesta e contraddittorietà, per aver omesso di registrare la significatività probatoria
della totale assenza di prova di contatti e relazioni tra il ricorrente, ritenuto capo e promotore
dell’associazione, ed alcuno dei numerosi associati (trattandosi di elemento assurto a paradigma
sintomatica della sussistenza del vincolo tipico), e per la vistosa incongruenza rappresentata dal
mancato coinvolgimento ex art.110 c.p. del ricorrente nelle pur numerose ipotesi di reati ex art.73
D.P.R.309/90 (trattandosi di elemento anch’esso assurto a paradigma probatorio sintomatico della
fattispecie in contestazione) invece contestate e ritenute in sentenza, nonché sub specie del
travisamento della prova (segnatamente della trascrizione della conversazione ambientale progr.
n.8 del 28 ottobre 2003) in ordine alla ricorrenza degli elementi di tipicità della fattispecie
contestata, con riferimento alla estensione della prova in danno dell’odierno ricorrente in ragione
della interpretazione di espressioni colte in sede di captazione tra soggetti terzi, omettendo peraltro
la motivazione rafforzata che pure si imponeva in ragione della necessità di superare e ribaltare
precedente decisione, adeguatamente motivata, assolutoria del primo giudice”.
Sono stati depositati in data 6 giugno 2013 nell’interesse del ricorrente note difensive e motivi
aggiunti cui è allegata copia delle note difensive depositate in appello, si ribadisce la censura
relativa alla mancata declaratoria di inammissibilità dell’appello del pubblico ministero e al

5) “violazione/erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla fattispecie di cui

travisamento della prova quanto alla condanna in appello in ordine al reato associativo, dal quale il
Verde era stato assolto in primo grado; si deduce, infine, la violazione del principio di legalità
della pena che, benché non dedotto con i motivi del ricorso principale, la Corte avrebbe potuto
rilevare di ufficio; si sostiene, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe fatto erronea
applicazione dell’art.78 comma 1 n.1 c.p. e dell” art.442 co.2 c.p.p. per aver effettuato la riduzione
di un terzo per il rito abbreviato prima di determinare l’aumento di pena per la continuazione

irrevocabile il 30 gennaio 2007, mentre la riduzione ex art.442 c.op.p. avrebbe dovuto essere
effettuata sulla pena per il reato più grave, con gli aumenti di pena per la continuazione che, ai
sensi dell’art.78, comma 1 n.1, c.p. non avrebbero potuto superarela pena complessiva di tranta
anni di reclusione.
Il ricorso è fondato unicamente in relazione alla censura, formulata nei motivi aggiunti, che
riguarda la determinazione della pena, la quale va ridotta ad anni venti di reclusione, e va rigettato
nel resto.
Quanto ai motivi relativi al capo A la Corte osserva quanto segue.
Il primo e il quinto motivo sono infondati avendo la Corte territoriale adeguatamente motivato
il ritenuto coinvolgimento dell’imputato nei reati associativi contestati ai capi A e B, con ruolo di
organizzatore, anche a far data dall’anno 2003 e quindi oltre il periodo (fino a novembre 2002,
risultante dalla contestazione) oggetto della sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in
data 15 dicembre 2006, irrevocabile il 30 gennaio 2007, con la quale il Verde era stato condannato
quale promotore e organizzatore del clan Verde. Il giudice di appello ha legittimamente richiamato
la motivazione del giudice di primo grado che a ff.792 ss. aveva specificamente esaminato la
posizione del ricorrente con riferimento alla sua perdurante appartenenza al clan Verde, emergente
dalle intercettazioni in cui venivano accomunati il ricorrente e ‘o tornar° quali soggetti, tra loro
interscambiabili e aventi posizione paritaria, ai vertici del sodalizio camorristico (conversazione
25 novembre 2003 tra Spenuso Marta e Di Nardo Franco; conversazioni 6 e 11 gennaio 2004 tra
De Lucia Giuseppe e Vitale Domenico; conversazione n.8 del 28 ottobre 2003 tra Spenuso Maria
e il padre, in cui si parla specificamente di Capuzzella come soggetto che doveva intervenire a
seguito della scarcerazione del Di Nardo). Pur riconoscendo che gli episodi narrati dal
collaboratore di giustizia Masella si riferivano a periodi fuori contestazione, la Corte territoriale ha
evidenziato, a confutazione delle censure difensive, che il contributo conoscitivo dei collaboratori
relativo all’attività delinquenziale svolta da Capuzzella, identificato come soggetto posto al vertice
del gruppo indicato come “i Verde di SantAntimo – , era valido per il periodo contestato nel

“esterna” con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 15 dicembre 2006,

40
presente procedimento (in particolare nella motivazione si citano le conversazioni in data 17
febbraio 2004 e in data 8 marzo 2004, in cui lo stesso collaboratore Masella era uno degli
interlocutori) e trovava conferma nelle conversazioni n.444 e n.330, rispettivamente del 10 e del
6 gennaio 2004, tra De Lucia Giuseppe e Vitale Domenico i quali espressamente si erano riferiti
all’allora attuale posizione paritaria nella spartizione dei proventi da parte dei dirigenti del clan
Verde (tra cui Capuzzella). Nella motivazione della sentenza impugnata sono state quindi

un’interpretazione coordinata e logicamente coerente con specifico e inequivocabile riferimento al
dato temporale contenuto nella contestazione. Quanto, in particolare, alla partecipazione
all’associazione contestata al capo B, da cui il ricorrente in primo grado era stato assolto, il
giudice di appello ha efficacemente contrastato la conclusione cui era pervenuto il giudice di
primo grado, mettendo in luce le conversazioni da cui risultava l’effettivo coinvolgimento, anche
nell’associazione dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti nella piazza di Grumo Nevano, di
Capuzzella, indicato nella conversazione n.8 del 28 ottobre 2003 come colui che doveva ricevere
la “quota” della piazza e doveva intervenire manu militari in caso di attacchi. Quanto all’assenza
di contatti e relazioni tra il ricorrente, ritenuto capo e promotore dell’associazione, e i numerosi
associati e all’incongruenza rappresentata dal mancato coinvolgimento del ricorrente nei reati
scopo contestati ai presunti sodali, la Corte osserva che, in tema di associazione finalizzata al
traffico illecito di sostanze stupefacenti, la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo
associativo, può essere data anche per mezzo dell’accertamento di “facta concludentia (Cass.
sez.V 15 novembre 2012 n.8033, Barbetta), quali, come nel caso di specie, l’autorizzazione al
reclutamento dei gestori della piazza di spaccio, le forme organizzative utilizzate per la
riscossione degli introiti, la “protezione – offerta a coloro che in prima persona svolgevano attività
di spaccio.
Il secondo motivo è infondato.
Nella motivazione della sentenza impugnata non si è lapidariamente affermato, come
sostenuto dal ricorrente, che la condotta oggetto della sentenza del giudice dell’udienza
preliminare si era protratta fino all’anno 2002. La Corte territoriale ha invece puntualizzato che la
sentenza passata in giudicato riguarda un periodo diverso da quello in contestazione, essendosi la
condotta ivi giudicata protrattasi fino al 2002. Nella motivazione della sentenza di primo grado è
inoltre specificato (f.800) che la sentenza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Napoli in data 21 dicembre 2005 era relativa a fatti commessi “fino al novembre 2002 – . La Corte
osserva che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’identità del fatto che rileva ai

(À,

riesaminate le conversazioni intercettate oggetto dei rilievi difensivi, di cui è stata data

fini dell’operatività del principio del “ne bis in idem”, non sussiste con riguardo ad uno stesso reato
permanente contestato in relazione a periodi diversi, anche se parzialmente sovrapposti, poiché in
tal caso il fatto, pur essendo naturalisticamente unico, risulta giuridicamente scomponibile in due
fatti diversi in considerazione delle diverse circostanze di tempo (Cass. sez.II 12 luglio 2011
n.33838, Blandina; sez.V 9 dicembre 2010 n.4554, Cambria Scimone; sez. V 1° luglio 2010
n.28548, Carbognasi; Sez.Un. 28 giugno 2005 n.34655, P.G. in proc. Donati).

Nella motivazione della sentenza impugnata è legittimamente richiamata -quanto alla dedotta
mancanza di elementi che consentano di ravvisare la persistenza del vincolo associativo in epoca
successiva al gennaio 2004 e alla conseguente necessità di adottare il trattamento sanzionatorio
più favorevole previsto dalla disciplina anteriore all’entrata in vigore della legge n.251/2005 e
della legge n.125/2008- la motivazione emessa dal giudice di primo grado in cui (ff.800-802) si
esclude che le conversazioni allegate dalla difesa (del 3 gennaio 2008 e in data successiva) fossero
idonee a provare la dissociazione del ricorrente o, comunque, la cessazione della permanenza. In
particolare, con argomentazione del tutto logica, il giudice di primo grado faceva rilevare che il
Verde in occasione dei colloqui in carcere parlava a bassa voce per evitare di essere intercettato, si
avvicinava al vetro di protezione e parlava nell’orecchio alla moglie, aveva tentato in
un’occasione di consegnare un bigliettino ai parenti, impartiva direttive ai familiari e si informava
dei parenti detenuti e comunque affiliati, mantenendo un atteggiamento che induceva ad escludere
la decisione di dissociarsi, al di là dei maldestri tentativi di dichiararsi ormai estraneo al sodalizio
criminoso. Si tratta di una valutazione del giudice di merito che non può essere sindacata in questa
sede essendo stata fornita una motivazione, in ordine all’esclusione dell’addotta cessazione della
permanenza del vincolo associativo, dettagliata e immune da vizi logici. Nel delitto di
partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si
instaura infatti nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si
protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del
carattere permanente del reato soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi
di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato caso per caso in virtù di condotta
esplicita, coerente e univoca. Ne consegue che in relazione al reato permanente contestato
legittimamente si è ritenuta applicabile nei confronti del ricorrente la disciplina sanzionatoria
vigente alla data della pronuncia della sentenza di primo grado.
Anche il quarto motivo è infondato.

Il terzo motivo è del pari infondato.

4z
La Corte rileva che, nonostante qualche isolata pronuncia lo abbia sostenuto, dalla omessa
considerazione di una memoria difensiva non consegue di per sé alcuna nullità, non trattandosi di
ipotesi prevista dalla legge e le conseguenze di una mancata considerazione possono riverberarsi
sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione della decisione che chiude la fase
o il grado nel cui ambito le ragioni difensive siano stati espresse (Cass. sez.VI 28 febbraio 2012
n.18453, Cataldo). Peraltro gli argomenti esposti in una memoria presentata ai sensi dell’art. 121

Gangemi), in quanto non necessariamente ad ogni argomento prospettato in una memoria (e non,
nel caso del giudizio di appello e di cassazione, nei motivi di impugnazione) deve corrispondere
un’espressa statuizione del giudice. Nel caso in esame deve quindi ritenersi che l’appello del
pubblico ministero sia stato ritenuto implicitamente ammissibile, al di là delle valutazioni espresse
dal ricorrente nelle note difensive apparentemente predisposte per l’udienza del 13 giugno 2011
svoltasi dinanzi alla VI sezione penale della Corte di appello di Napoli, che sono state allegate
dalla difesa alle note difensive e motivi aggiunti depositati nella cancelleria di questa Corte in
data 6 giugno 2013. Peraltro le censure difensive sul punto non risultano corredate dall’atto di
appello del pubblico ministero, asseritamente inammissibile per genericità, il cui contenuto risulta
comunque delineato con precisione nella sintesi fatta dal giudice di appello a f.31 della sentenza
impugnata.
Quanto ai motivi aggiunti, la Corte rileva che la dedotta violazione del principio di legalità
della pena, pur non costituendo oggetto del ricorso principale che riguarda capi e punti della
decisione non aventi ad oggetto il trattamento sanzionatorio, è rilevabile d’ufficio anche
nell’ambito del giudizio di Cassazione, non essendo il ricorso inammissibile e non comportando
l’esame della questione rappresentata accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili
con i limiti del giudizio di legittimità (Cass. sez.I 14 aprile 1994 n.1711, P.M. in proc. Marchese;
sez.V 13 novembre 2002 n.3945, De Salvo; sez.V. 13 novembre 2002 n.3945, De Salvo; sez.V. 3
dicembre 2003 n.24926, Marullo; sez.V 9 luglio 2004 n.36293, Raimo).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha affermato, in riforma della sentenza di primo grado, la
responsabilità del Verde anche in ordine al reato associativo contestato al capo B e, ritenuta la
continuazione con il reato contestato al capo A e con i fatti di cui alla pregressa sentenza di
condanna della Corte di appello di Napoli in data 15 dicembre 2006, divenuta irrevocabile il 30
gennaio 2007, ha rideterminato la pena complessiva in anni ventidue di reclusione sulla base del
seguente calcolo: pena base per il più grave reato ascritto al capo B anni ventiquattro di reclusione,
aumentata ex art.7 D.L.152/91 nei limiti dell’art.63 n.4 c.p. ad anni ventinove, ulteriormente

c.p.p.. possono essere disattesi anche per implicito dal giudice (Cass. sez.I 6 luglio 2007 n.34531,

4g
aumentata per la continuazione per il reato al capo A ad anni trenta, ridotta per il rito ad anni venti
e aumentata per la continuazione esterna di due anni, mesi tre, ridotta infine di un terzo per il
rito). La Corte ritiene che il giudice di appello abbia errato nell’applicare la riduzione per il rito
abbreviato sulla pena di anni trenta di reclusione risultante dall’applicazione dell’aumento per la
sola continuazione interna, tra i capi A e B, applicando un ulteriore aumento (ridotto anch’esso di
un terzo per il rito) per effetto della continuazione con i reati oggetto della sentenza passata in

prevista dall’art. 442, comma 2 c.p.p. in caso di condanna nel giudizio abbreviato, deve essere
effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso
di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78,
limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere
superiore ad anni trenta (Cass. sez.V 9 dicembre 2003 n.18368, Bajtrami; Sez. Un.25 ottobre 2007
n.45583, Volpe) . La riduzione finale di un terzo opera, quindi, sulla pena determinata in
concreto per tutti i reati che hanno formato oggetto del giudizio abbreviato e che hanno dato luogo
alla configurazione del reato continuato. Ne consegue che la sentenza impugnata va annullata
senza rinvio nei confronti di Verde Antonio c1.1960 limitatamente alla determinazione della pena,
che riduce ad anni venti di reclusione.

Alla inammissibilità dei ricorsi di Aversano Andrea, Aversano Aniello, Cento Gianluca,
D’Anna Salvatore, Falzarano Geremia, Marchese Salvatore, Masella Giannantonio, Moscato
Maria, Russo Virginia, Salemme Domenico, Salvatore Luisa Carmen, Sica Gerardo, Spenuso
Marta consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali
e di ciascuno al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione
delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro 1.000,00.
Al rigetto dei ricorsi di Regina Vincenzo e Verde Antonio c1.1952 consegue la condanna al
pagamento delle spese processuali
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Russo Domenico per essere i reati a lui
ascritti estinti per morte dell’imputato;
annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Verde Antonio c1.1960 in ordine alla
determinazione della pena, che riduce ad anni venti di reclusione; rigetta nel resto il ricorso del

giudicato. Questa Corte ha più volte affermato il principio che la riduzione di pena, nella misura

44predetto Verde Antonio;
dichiara inammissibili i ricorsi di Aversano Andrea, Aversano Aniello, Cento Gianluca, D’Anna
Salvatore, Falzarano Geremia, Marchese Salvatore, Masella Giannantonio, Moscato Maria, Russo
Virginia, Salemme Domenico, Salvatore Luisa Carmen, Sica Gerardo,Spenuso Marta e li
condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro
1.000,00 alla Cassa delle ammende;
rigetta i ricorsi di Regina Vincenzo e Verde Antonio c1.1952 e li condanna al pagamento delle
spese processuali.

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