Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44569 del 04/06/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 44569 Anno 2015
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Vilella Domenico, nato ad Andria il 14/06/1940

avverso la sentenza emessa il 30/09/2013 dalla Corte di appello di Bari

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Francesco Salzano, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito per la parte civile Cassa Edile della Provincia di Bari l’Avv. Arnaldo Del
Vecchio, il quale ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso
dell’imputato

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 04/06/2015

Il difensore di Domenico Vilella ricorre av verso la pronuncia indicata in
epigrafe, recante la conferma della sentenza emessa nei confronti del suo
assistito, in data 06/10/2010, dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di
Andria. Il ricorrente risulta essere stato condannato a pena ritenuta di giustizia
per il delitto di cui agli artt. 110, 477 e 482 cod. pen., in ipotesi commesso
formando – in concorso con tale Gianfranco Zinfollino, assolto già in primo grado
– un falso certificato DURC ricavato da un documento rilasciato dalla Cassa Edile
della Provincia di Bari: l’atto originale certificava l’irregolarità contributiva

risultasse l’esatto contrario.
Con l’odierno ricorso, la difesa lamenta mancanza e contraddittorietà della
motivazione della sentenza impugnata, nonché violazione dell’art. 482 cod. pen.
Nell’interesse del ricorrente si sostiene che un certificato DURC deve
intendersi mera scrittura privata, non provenendo da un soggetto pubblico: ne
deriva che il reato effettivamente configurabile risulta procedibile a querela, nella
fattispecie presentata tardivamente il 12/12/2007, in quanto presso la Cassa
Edile la circostanza dell’esistenza del falso certificato era nota già a far data dal
09/07/2006 (quando il Comune di Andria aveva trasmesso a quell’ente la copia
dell’atto de quo).
In ogni caso, nulla autorizza a ricondurre alla mano del Vilella – come pure a
quella dello Zinfollino, vale a dire il tecnico, nominato per i lavori di
manutenzione affidati all’impresa del ricorrente, che aveva depositato l’atto
presso il Comune di Andria – la falsificazione materiale del documento,
dovendosi al più ritenere che l’imputato si rese responsabile dell’uso dell’atto
falso. Né, ancora a monte, risultano acquisite certezze di sorta circa l’effettiva
contraffazione, non essendo mai stato rinvenuto l’atto originale da cui il presunto
corpo del reato sarebbe stato ricavato.
A tale ultimo riguardo, la difesa fa osservare che

– dovendosi

ragionevolmente supporre, in assenza del documento originale, che la
falsificazione abbia riguardato una fotocopia di questo – la giurisprudenza di
legittimità esclude la rilevanza penale del falso che abbia ad oggetto una copia
fotostatica; si legge nel ricorso che «la riproduzione fotostatica di un documento
originale integra il reato di falsità materiale solo quando si presenta con
l’apparenza di un documento originale […], mentre nel caso di specie non vi è
neppure la dichiarazione che la fotocopia presentata fosse conforme
all’originale». Infatti il timbro ivi risultante e recante la dicitura “copia
conforme” non riguarda le circostanze in cui avvenne la presentazione dell’atto,
ma venne apposto direttamente presso il Comune di Andria, al momento
dell’inoltro di una copia ulteriore alla Cassa Edile per le necessarie verifiche.

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dell’impresa edile facente capo al Vilella, ed era stato contraffatto affinché vi

Con atto depositato il 13/05/2015, il difensore della Cassa Edile della
Provincia di Bari, già costituitasi parte civile, ha fatto pervenire una memoria con
la quale contesta le ragioni poste a sostegno dell’impugnazione, sollecitandone la
declaratoria di inammissibilità.
Nello scritto si evidenzia che:

le ragioni di doglianza mosse nell’interesse dell’imputato costituiscono
mera riproposizione di censure già disattese dalla Corte di appello;

il DURC, come più volte affermato dalla giurisprudenza amministrativa,

sicché la relativa falsificazione risulta sanzionata dall’art. 477 cod. pen.
(con il necessario richiamo all’art. 482 cod. pen., laddove la condotta
debba ascriversi ad un soggetto privato);

i giudici di merito hanno ragionevolmente chiarito che il documento
alterato era stato presentato a supporto di una pratica edilizia al vaglio
del Comune di Andria, pratica cui era interessata l’impresa facente capo
al Vilella (ergo, l’imputato era l’unica persona che poteva nutrire un
concreto interesse alla produzione del certificato contraffatto);

la falsificazione di una fotocopia rimane penalmente irrilevante solo
laddove la copia in questione riproduca fedelmente il documento
originale, il che non può dirsi nel caso di specie (atteso che risultava
«fraudolentemente eliminata la dicitura che evidenziava come la ditta non
fosse in una situazione di regolarità contributiva»).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve qualificarsi inammissibile.
Come correttamente rilevato dalla difesa di parte civile, le doglianze mosse
nell’interesse dell’imputato riproducono ragioni già discusse e ritenute infondate
dal giudice del gravame, e per costante giurisprudenza il difetto di specificità del
motivo – rilevante ai sensi dell’art. 581, lett. c), cod. proc. pen. – va apprezzato
non solo in termini di indeterminatezza, ma anche «per la mancanza di
correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste
a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può
ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di
aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc.
pen., all’inammissibilità dell’impugnazione» (Cass., Sez. II, n. 29108 del
15/07/2011, Cannavacciuolo). Già in precedenza, e nello stesso senso, si era
rilevato che «è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si

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deve intendersi atto avente i caratteri di una pubblica certificazione,

risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e
puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non
specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica
funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso»
(Cass., Sez. VI, n. 20377 dell’11/03/2009, Arnone, Rv 243838).
Deve infatti osservarsi che la Corte barese risulta avere già
abbondantemente argomentato circa la natura peculiare del certificato DURC
descritto in rubrica, visto che nell’atto in questione si dava contezza dell’esito di

Vilella nei versamenti di contributi, premi ed accessori: un atto, in definitiva,
costituente riproduzione del contenuto di un atto pubblico presupposto e dei
risultati dell’attività pubblicistica a questo correlata. A nulla rileva, pertanto, la
dedotta tardività della querela, essendosi al cospetto di una ipotesi criminosa
procedibile ex officio.
Parimenti analizzato, con dovizia e completezza di esposizione, risulta il
tema della riferibilità al Vilella del falso de quo: egli era non solo il titolare
dell’impresa nel cui interesse il documento originale (che attestava una
situazione del tutto opposta a quanto fraudolentemente rappresentato) era stato
rilasciato, ma anche l’unico soggetto che avesse avuto la materiale disponibilità
di quell’originale.
Osserva ancora la Corte di appello che «nella presente fattispecie è di tutta
evidenza l’idoneità del DURC falsificato, sia pure consistente in una mera
fotocopia dell’originale, ma di quest’ultimo avente tutta l’apparenza, a trarre in
inganno il Comune ove lo stesso venne depositato, e tanto indipendentemente
dalla rilevata mancanza di una attestazione di autenticità». L’argomentazione
appena riportata è del tutto in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza
di legittimità, secondo cui «integra il reato di falsità materiale commessa dal
privato (art. 477 e 482 cod. pen.) la condotta di colui che alteri, inserendovi un
capo bovino e modificando la data, la fotocopia di un certificato del servizio
veterinario USL, considerato che il delitto di falsità materiale può avere per
oggetto anche una fotocopia allorché essa sia presentata, non come tale, ma con
l’apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi di buona
fede» (Cass., Sez. V, n. 35165 dell’11/07/2005, Di Croce, Rv 232590);
analogamente, sempre in tema di certificazione ed autorizzazioni amministrative,
si è precisato che integra il reato di cui agli artt. 477 e 482 cod. pen. «la
condotta di colui che alteri la copia fotostatica di un’attestazione sanitaria
attraverso la cancellazione di alcune parole, e la produca in un giudizio civile di
risarcimento dei danni, assumendo tale atto una potenzialità decettiva autonoma

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pregressi accertamenti svolti presso le competenti sedi INPS sulla regolarità del

e rilevante, perché idoneo a trarre in inganno la pubblica fede» (Cass., Sez. V, n.
24012 del 12/05/2010, Pezone, Rv 247399).

2. Non è pertanto possibile rilevare l’intervenuta prescrizione del delitto
addebitato al ricorrente. La causa estintiva, in vero, risulta essersi perfezionata
il 04/11/2013, dopo la pronuncia di secondo grado (non risultando cause di
sospensione dei relativi termini); tuttavia, per consolidata giurisprudenza di
questa Corte, un ricorso per cassazione inammissibile, per manifesta

rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e
dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.»
(Cass., Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv 217266, relativa appunto ad
una fattispecie in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla
sentenza impugnata con il ricorso; v. anche, in termini, Cass., Sez. IV, n. 18641
del 20/01/2004, Tricomi).

3. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del Vilella al
pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla
volontà del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al
versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di C 1.000,00,
così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.
L’imputato deve essere altresì condannato a rifondere alla parte civile le
spese sostenute nel grado, che il collegio reputa congruo liquidare – in ragione
dell’impegno professionale richiesto – nella misura di cui al dispositivo.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende, nonché al rimborso di quelle sostenute nel grado dalla parte civile,
che liquida in complessivi euro 1.500,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso il 04/06/2015.

infondatezza dei motivi o per altra ragione, «non consente il formarsi di un valido

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