Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44499 del 17/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 44499 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Kefi Samia n. il 3.1.1966
avverso l’ordinanza n. 71/2011 pronunciata dalla Corte d’appello di
Palermo, il 17.11.2011;
sentita nella camera di consiglio del 17.10.2013 la relazione fatta dal
Cons. dott. Marco Dell’Utri;
lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. V.
D’Ambrosio, che ha richiesto il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 17/10/2013

Ritenuto in fatto
1. – Con decisione resa in data 17.11/15.12.2011, la Corte d’appello di Palermo ha rigettato l’istanza di riparazione avanzata da Samia Kefi per l’asserita ingiusta detenzione dalla stessa subita (in regime di arresti domiciliari) dal 27.2.2007 al 6.4.2009, in relazione
alle imputazioni di cui agli artt. 73 e 74 d.p.r. n. 309/90 (detenzione a
fini di spaccio di sostanza stupefacente e associazione a delinquere
finalizzata al traffico di stupefacenti), da cui la ricorrente era stata
prosciolta nel merito.
Avverso tale decisione ha interposto ricorso per cassazione il
difensore della Kefi, dolendosi che il provvedimento impugnato avesse erroneamente riconosciuto la colpa grave dell’istante nel dar causa
(o concorrere a dar causa) alla detenzione cautelare alla stessa imposta, per il solo fatto di aver asseritamente consentito al proprio fratello di svolgere la propria attività illecita riguardante il traffico di sostanze stupefacenti al proprio cospetto, essendone pienamente consapevole, ed essendosi altresì adoperata per custodire il denaro ricavato dall’uomo attraverso lo svolgimento della propria attività illecita; circostanze attestate dalla corte palermitana sulla base del contenuto di intercettazioni di conversazioni richiamate dalla sentenza che
pure aveva prosciolto la Kefi dalle imputazioni alla stessa ascritte:
conversazioni malamente ricostruite e interpretate dai giudici del
merito e infedelmente richiamate dal giudice a quo attraverso una
motivazione illogica e contraddittoria.
Sulla base di tali argomentazioni, la ricorrente ha invocato
l’annullamento della decisione impugnata, con l’eventuale adozione
delle statuizioni consequenziali.
Ha depositato memoria il procuratore generale presso la Corte
di Cassazione, concludendo per il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
2. – Il ricorso è infondato.
Con l’impugnazione proposta in questa sede, la Kefi censura il
provvedimento della corte territoriale per violazione di legge e vizio
di motivazione, avendo la corte palermitana erroneamente asserito
che la stessa fosse consapevole dell’illecito traffico gestito dal fratello,
tollerandolo e financo agevolandone la conservazione dei proventi, in
contrasto con il contenuto delle conversazioni intercettate richiamate

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nel provvedimento impugnato, dalle quali nulla di tutto ciò era obiettivamente emerso, non essendo stata peraltro la stessa ricorrente
neppure imputata del reato di favoreggiamento personale (ex art. 379
c.p.) come astrattamente prospettato nella sentenza assolutoria pronunciata nei relativi confronti.
Sul punto, osserva questa Corte come, con l’odierna impugnazione, l’istante si sia limitata a prospettare una diversa interpretazione e ricostruzione – e dunque un’alternativa lettura – del contenuto
delle conversazioni intercettate a suo carico; contenuto di conversazioni già utilizzato in occasione dell’adozione del provvedimento restrittivo della relativa libertà personale e, di seguito, già sottoposto a
interpretazione da parte del tribunale di Palermo che, investito del
giudizio sul merito delle imputazioni sollevate nei confronti della Kefi, ebbe a confermarne l’idoneità ad attestare la piena consapevolezza
della stessa, circa lo svolgimento da parte del fratello di un’evidente
attività illecita riguardante il traffico di sostanze stupefacenti, e la circostanza dell’avvenuta custodia dei relativi proventi presso la propria
abitazione.
Al riguardo, rileva la corte come, secondo l’insegnamento della
giurisprudenza di legittimità, al giudice del procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione non compete il potere di procedere
alla rivalutazione dell’esito del giudizio di merito. Infatti, ove fosse
consentita la valorizzazione di emergenze probatorie confutate dal
giudizio di fatto espresso con sentenza irrevocabile, verrebbe caducato il cardine del vigente sistema di riparazione per l’ingiusta detenzione, costituito appunto dal giudicato sull’incolpazione e sulle circostanze di fatto ad essa pertinenti. Dunque, in breve, non è consentito
al giudice della riparazione di mettere in discussione l’esito del giudizio di merito, esprimendo valutazioni dissonanti. Occorre invece
ponderare circostanze di fatto accertate nel processo e, sulla base di
esse, valutare se sussistano condotte dolose o gravemente colpose
eziologicamente rilevanti, idonee ad escludere il diritto all’indennizzo
(v. Cass., Sez. 4, n. 13096/2010, Rv. 247128).
Ciò posto, deve ritenersi come del tutto correttamente – e sulla
base di una motivazione che appare immune da vizi d’indole logica o
giuridica – la corte territoriale ha ritenuto di muovere, ai fini del giudizio sull’odierna istanza di riparazione, dagli accertamenti in fatto
raggiunti dal tribunale di Palermo in sede di merito (circa l’entità dei

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comportamenti e del ruolo rivestito dalla Kefi nel quadro complessivo
delle vicende sottoposte al suo esame), giudicando non più revocabile
in dubbio le circostanze di fatto costituite, da un lato, dalla consapevolezza della Kefi circa l’attività illecita del fratello e, dall’altro, dalla
custodia, presso la propria abitazione, del denaro provento di detta
attività; una consapevolezza di per sé inidonea a configurarne la partecipazione a titolo di concorso nell’attività criminale del fratello, essendo bensì qualificabile alla stregua di un’ipotesi di connivenza non
punibile, avuto riguardo alla mera passività del ruolo tenuto dalla ricorrente, rispetto allo svolgimento dell’attività criminosa avvenuta al
suo cospetto.
Ciò premesso, è appena il caso di evidenziare, come, secondo il
costante insegnamento di questa corte di legittimità, la connivenza
non punibile costituisce causa ostativa al riconoscimento della riparazione per l’ingiusta detenzione subita, qualora il comportamento
del connivente, di cui sia stata provata la conoscenza dell’attività illecita commessa al suo cospetto (Cass., Sez. 4, n. 6878/2011, Rv.
252725; Cass., Sez. 4, n. 42039/2006, Rv. 235397), abbia in qualche
misura rafforzato la volontà degli autori del reato (Cass., Sez. 4, n.
42039/2006, Rv. 235397; Cass., Sez. 4, n. 8993/2003, Rv. 223688),
pur senza concorrere nello stesso (anche quando il connivente non
abbia perseguito tale obiettivo con il suo comportamento: v. Cass,
Sez. 4, n. 2659/2008, Rv. 242538), o comunque agevolato (Cass.,
Sez. 4, n. 40297/2008, Rv. 241325), non impedito o tollerato che lo
stesso reato si consumasse (Cass., Sez. 4, n. 16369/2003, Rv.
224773), in tal modo assumendo atteggiamenti ambigui e ragionevolmente interpretabili ex ante come espressioni di partecipazione o
di concorso alla commissione del reato, così dando causa, per propria
esclusiva colpa grave, all’adozione dei provvedimenti restrittivi della
libertà personale dell’indagato.
In particolare, in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, costituisce causa impeditiva al riconoscimento del diritto alla
riparazione l’avere l’interessato dato causa all’instaurazione della custodia cautelare per colpa grave, consistita nell’aver tenuto comportamenti improntati a macroscopica leggerezza e imprudenza, idonei
ad essere interpretati, nella fase iniziale delle indagini, non come
semplice connivenza, ma come concorso nel reato (Cass., Sez. 4, n.
37567/2004, Rv. 229142).

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Nel caso di specie, in modo del tutto ragionevole e sulla base di
una motivazione dotata di logica coerenza e consequenzialità argomentativa, la corte territoriale ha ravvisato la colpa grave della ricorrente nell’aver accettato il rischio del proprio coinvolgimento nel
quadro dell’attività criminosa consumata al suo cospetto nella piena
consapevolezza della stessa (ed anzi, agevolando la conservazione e la
custodia dei relativi proventi), dando causa, in forza del proprio
comportamento macroscopicamente imprudente, all’adozione, nei
propri confronti, della misura restrittiva della libertà personale qui
contestata.
3. — Le considerazioni che precedono valgono a giustificare il
riscontro dell’infondatezza dei motivi di doglianza avanzati dalla ricorrente, cui segue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17.10.2013.

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