Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44498 del 17/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 44498 Anno 2013
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Stirparo Alessio n. il 14.4.1989
nei confronti di:
Ministero dell’Economia e delle Finanze
avverso l’ordinanza n. 18/2009 pronunciata dalla Corte d’appello di
Lecce, sezione distaccata di Taranto, il 20.12.2010;
sentita nella camera di consiglio del 17.10.2013 la relazione fatta dal
Cons. dott. Marco Dell’Utri;
lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. L.
Riello, che ha richiesto il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 17/10/2013

Ritenuto in fatto
i. — Con decisione resa in data 20.12.2010/29.6.2011, la Corte
d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha rigettato l’istanza
di riparazione avanzata da Alessio Stirparo per l’asserita ingiusta detenzione dello stesso sofferta dal 21.12.2007 al 16.7.2008 (dal
24.12.2007 nella forma degli arresti domiciliari), in relazione all’imputazione di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente dalla quale l’istante era stato assolto nel merito.
Avverso tale decisione ha interposto ricorso per cassazione lo
Stirparo, sulla base di un articolato motivo di impugnazione.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente la violazione dell’art. 314
c.p.p. e il vizio di motivazione in cui è incorsa la corte territoriale, per
avere illogicamente, contraddittoriamente e immotivatamente, ritenuto la sussistenza di un comportamento doloso o quantomeno gravemente colposo dello Sirparo, idoneo a dar causa all’emissione del
provvedimento cautelare restrittivo dallo stesso subito.
In particolare, il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia proceduto a un’illegittima rivalutazione in chiave accusatoria degli elementi indiziari emersi nel corso del procedimento penale, ad
esito del quale, viceversa, l’istante era stato assolto non essendo stata
raggiunta la prova che lo stupefacente rinvenuto in suo possesso fosse destinato a fini di spaccio, avendo peraltro lo stesso imputato tempestivamente fornito, in sede di interrogatorio, elementi idonei ad
attestarne l’uso personale.
Sulla base di tali argomentazioni, lo Stirparo ha invocato
l’annullamento dell’impugnata decisione, con l’adozione delle eventuali statuizione consequenziali.
Hanno depositato memoria il Procuratore Generale presso la
Corte di Cassazione e il Ministero dell’Economia entrambi concludendo per il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
2. – Il ricorso è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, al giudice del merito spetta, anzitutto, di verificare se chi l’ha patita vi abbia dato causa, ovvero
vi abbia concorso, con dolo o colpa grave.

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A tal fine, egli deve prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili, relativi alla condotta del soggetto, sia precedente che
successiva alla perdita della libertà, allo scopo di stabilire se tale condotta abbia determinato, ovvero anche solo contribuito a determinare, la formazione di un quadro indiziali() che ha indotto all’adozione o
alla conferma del provvedimento restrittivo.
Tale condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, deve manifestarsi attraverso comportamenti concreti, precisamente individuati, che il giudice di merito è tenuto ad apprezzare,
in modo autonomo e completo, al fine di stabilire, con valutazione ex
ante, non se essi abbiano rilevanza penale, ma solo se si siano posti
come fattore condizionante rispetto all’emissione del provvedimento
di custodia cautelare.
Nulla vieta al giudice della riparazione di prendere in considerazione gli stessi comportamenti oggetto dell’esame del giudice penale, sempre che la valutazione di essi sia eseguita dal primo non rapportandosi ai canoni di giudizio del processo penale, bensì a quelli
propri del procedimento riparatorio, che è diretto non ad accertare
responsabilità penali, bensì solo a verificare se talune condotte abbiano quantomeno concorso a determinare l’adozione del provvedimento restrittivo.
Orbene, nel caso di specie, la corte distrettuale si è attenuta a
tali principi, avendo ritenuto, con motivazione adeguata e coerente
sotto il profilo logico e nel rispetto della normativa di riferimento,
sulla base di quanto desunto dalla lettura della stessa sentenza assolutoria, che la condotta dello Stirparo aveva sostanzialmente contribuito ad ingenerare, sia pur in presenza di errore dell’autorità inquirente, la rappresentazione di una condotta illecita dalla quale è scaturita, con rapporto di causa-effetto, la detenzione ingiustamente sofferta.
È stato, in particolare, ricordato che il richiedente, sorpreso in
luogo pubblico da personale di polizia, era stato trovato in possesso
di sostanza stupefacente eccedente il valore soglia di cui al D.M. n
aprile 2006; aveva cioè tenuto, secondo il coerente argomentare della
stessa corte, una condotta certamente equivoca, tale da giustificare le
accuse formulate a suo carico, essendo stato còlto in possesso di una
quantità pari a 48 gr. circa di hashish dalla quale era possibile ricavare 118 dosi medie singole ovvero 5,9 dosi massime detenibili senza

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neppure fornire tempestivamente elementi di riscontro sufficientemente equivoci e certi al fine di attestare la propria condizione di tossicodipendenza.
Peraltro, il possesso in luogo pubblico di quantità apprezzabilmente rimarchevoli di sostanza stupefacente, seppur ritenuto non
rilevante sotto il profilo penale, costituisce, in ogni caso, illecito amministrativo. Sotto tale profilo, la condotta dello Stirparo, proprio
perché contrastante con precise norme di legge, di per sé costituisce
grave imprudenza e realizza il concetto di ‘colpa grave’, nei termini
indicati dall’art. 314 c.p.p., ostativa al riconoscimento del diritto
all’indennizzo riparatorio, poiché ha quantomeno contribuito alla
formazione di un quadro indiziario significativo, interpretabile ex ante come espressivo di reità e altresì ragionevolmente idoneo a determinare l’intervento degli inquirenti (cfr., in termini, Cass., Sez. 4, n.
10653/2012, Rv. 255276).
3. — Le considerazioni che precedono valgono a giustificare il
riscontro dell’infondatezza dei motivi di doglianza avanzati dal ricorrente, cui segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese in
favore del Ministero resistente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione
delle spese in favore del Ministero resistente che liquida in complessivi euro 750,00.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17.10.2013.

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