Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44446 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 44446 Anno 2013
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Runco Adolfo Francesco, nato a San Vincenzo La
Costa il 23.10.1936;
avverso la sentenza emessa il 22 giugno 2012 dalla corte d’appello di Catanzaro;
udita nella pubblica udienza del 15 ottobre 2013 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Aldo Policastro, che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente alla confisca e rigetto nel resto;
udito il difensore avv. Vittoria Bossio;
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Catanzaro confermò la
sentenza emessa il 4.3.2011 dal Gip del tribunale di Cosenza che aveva dichiarato Runco Adolfo Francesco colpevole del reato di cui all’art. 640 bis cod.
pen. per avere – in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della sede italiana della società Elen’s Beer s.a. beneficiaria di
un finanziamento pubblico ai sensi della legge 488/92, concesso in via provvisoria con decreto del Ministero delle Attività Produttive n. 124994 del 23.6.03
pari ad euro 6.236.049,00, in vista della realizzazione di un impianto industriale
volto alla produzione di birra – ottenuto la prima rata a titolo di anticipazione
pari ad euro 2.078.683,00 accreditata in data 1.6.04, inducendo in errore l’ente
concessionario con artifizi e raggiri e procurandosi un ingiusto profitto con corrispondente danno per la PA; nonché dei reati di falso ex art. 483 cod. pen. e di
due reati di false dichiarazioni dei redditi mediante fatture per operazioni mesi-

Data Udienza: 15/10/2013

stenti di cui all’art. 2 del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e lo aveva condannato alla pena di anni 1 di reclusione ed € 500,00 di multa, con i doppi benefici e la
confisca per equivalente di quanto in sequestro fino all’ammontare di €
2.078.663,00.
2. L’imputato, a mezzo dell’avv. Vittoria Bossio, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza di norme processuali e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Ricorda che la corte d’appello aveva accolto
la richiesta di riapertura della istruttoria dibattimentale ed acquisito due memorie della difesa con allegate le trascrizione delle udienze del 30.1.2012 e del
13.2.2012 del processo proseguito col rito ordinario a carico di altri coimputati.
La difesa aveva poi depositato altra memoria con allegata documentazione. Nella sentenza impugnata però non vi è alcuna traccia in ordine all’esame di tali
memorie e delle relative allegazioni. Si è perciò verificata una mancanza di motivazione e una nullità ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. Invero nella
sentenza non si fa alcun cenno alla deposizione del mar. Fullone e del CTU
Vergallo ed alla documentazione attestante che le somme spese erano ben maggiori di quelle percepite, con conseguente assenza di un danno patrimoniale. Inoltre dalla deposizione del consulente del PM dott. Vergallo emergeva che le
conclusioni da lui prese nella relazioni non potevano considerarsi in alcun modo
congrue ed attendibili, essendo emerso che era un perito agrario e che non aveva alcuna nozione sul funzionamento di un impianto per la produzione della birra.
2) inosservanza di norme processuali e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Osserva che ancor prima di accedere al rito
abbreviato la difesa aveva eccepito dinanzi al Gup la inutilizzabilità degli atti
compiuti successivamente al decorso del termine ordinario di durata delle indagini preliminari, dal momento che non le erano state notificate richieste di proroga delle indagini. L’eccezione, rigettata dal Gup, è stata riproposta con
l’appello. La corte d’appello la ha respinta per il motivo che nessuna doglianza
in proposito può essere mossa da chi ha chiesto il giudizio abbreviato. Sennonché nella specie l’imputato ha eccepito l’inutilizzabilità degli atti di indagine
prima di chiedere il giudizio abbreviato e non nel corso del rito speciale. Si trattava inoltre di prove acquisite in violazione o con modalità lesive dei diritti fondamentali costituzionali della persona e quindi di inutilizzabilità patologica, ossia di atti che non erano stati acquisiti legittimamente al fascicolo del PM. Invero, la durata delle indagini preliminari e la notifica della richiesta di proroga costituiscono, come più volte rilevato dalla Corte costituzionale, esplicazione di
un principio costituzionale, e precisamente del principio del contraddittorio e di
quello della ragionevole durata del processo. La mancanza di notifica della richiesta di proroga ha violato il principio del contraddittorio e determinato una
nullità del provvedimento di autorizzazione. Il motivo per il quale la corte d’appello ha rigettato l’eccezione è errato sia perché l’eccezione stessa era stata
formulata prima della scelta del giudizio abbreviato, sia perché si trattava di una
inutilizzabilità patologica.

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3) inosservanza di norme processuali e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Ricorda che con l’appello aveva eccepito
che il PM gli aveva contestato solo il reato di cui all’art. 640 bis cod. pen. mentre il Gup lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 640, osservando che la
truffa prevista dall’art. 640 bis costituisce una aggravante di quella di cui all’art.
640. La corte d’appello ha ritenuto che non vi era stata riqualificazione. Sennonché resta il fatto che con il capo di imputazione non era stato contestato
l’art. 640 ed il Gup non aveva il potere di integrare la contestazione, così come
non lo aveva neppure il PM in sede di giudizio abbreviato.
4) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale. Ricorda che
con l’appello era stata eccepita l’insussistenza del danno per la PA sia perché vi
era stata l’erogazione di una sola anticipazione garantita da fideiussione bancaria, sia perché la società aveva sostenuto spese ben maggiori delle somme ricevute come anticipazione. Del resto anche una decisione della Corte dei conti aveva escluso nella specie la sussistenza di un danno per la PA. Inoltre, la fideiussione è stata incassata dal ministero che ha ricevuto somme maggiori di quelle erogate per anticipazione. La corte d’appello non ha risposto a questi rilievi.
Deduce poi che il reato di truffa si è perfezionato con la percezione della
somma, avvenuta in data 1° giugno 2004. Ne deriva che detto reato si è estinto
per prescrizione. Non è infatti ravvisabile un reato a condotta prolungata che si
ha quando si sono avuti successivi eventi di danno corrispondenti a indebite e
molteplici percezioni economiche. Nella specie i fatti successivi non hanno
spiegato alcuna efficienza causale sull’unica percezione.
In ogni caso il ministero non ha ricevuto alcun danno patrimoniale sicché è
insussistente il reato di truffa.
Inoltre è erronea la confisca per equivalente in quanto la somma erogata è
stata per intero restituita.
3. Con memoria depositata il 30.9.2013 la difesa propone motivi aggiunti
illustrando ulteriormente in particolare il primo motivo di ricorso.
4. In prossimità dell’udienza il difensore ha fatto pervenire altra memoria
ribadendo che non vi erano stati artifici o raggiri perché vi era stato un unico
pagamento a titolo di anticipazione, garantito da fideiussione bancaria, la cui riscossione esclude poi anche la presenza di un danno. Deduce poi che è illegittimo il provvedimento di confisca per equivalente dal momento che tutte le
somme erogate sono state restituite in forza della fideiussione, così determinandosi una sproporzione tra presunto profitto e prezzo del reato e la somma restituita e il valore dei beni confiscati. La polizza fideiussoria è stata prestata da lui
e la banca ha già posto a suo carico le somme anticipate. In via subordinata eccepisce la illegittimità costituzionale dell’art. 322 ter cod. pen., come richiamato
dall’art. 640 quater, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui consentono la confisca per equivalente anche quando il profitto o il prezzo siano
stati comunque restituiti.
Motivi della decisione

P

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1. Va preliminarmente esaminato il terzo motivo, che è fondato e va accolto nei termini che seguono.
Secondo la costante giurisprudenza il reato di truffa si consuma nel momento del conseguimento, da parte dell’agente, del profitto della propria attività
criminosa (Sez. II, 9.3.2011, n. 12795, Beleniuc, m. 249861), ossia nel momento dell’effettivo conseguimento dell’ingiusto profitto, con correlativo danno della persona offesa, identificato in quello dell’effettiva prestazione del bene economico da parte della vittima, con conseguente passaggio nella sfera di disponibilità del reo (Sez. II, 18.11.2010, n. 42958, Gentile, m. 249282).
Nel caso di specie è pacifico che l’ingiusto profitto è stato conseguito con
la percezione dell’unica erogazione effettivamente ricevuta, ossia con la prima
rata a titolo di anticipazione di € 2.078.683,00, accreditata sul conto corrente
della società beneficiaria il 10 giugno 2004. La data di consumazione del reato
contestato e per il quale è intervenuta condanna deve quindi fissarsi appunto a
quella del 10 giugno 2004, in cui è stato realizzato l’ingiusto profitto con il passaggio del denaro nella sfera di effettiva disponibilità del reo.
Essendo questa la data di consumazione del reato, ne deriva, da un lato,
che è irrilevante, sotto questo aspetto, il fatto che successivamente la PA sia rientrata integralmente nel possesso della somma erogata mediante la riscossione
della fideiussione bancaria, non potendo ciò far venire meno il reato già consumato, e, da un altro lato, che sono parimenti irrilevanti le successive attività poste in essere dall’imputato e di cui si parla nella sentenza impugnata.
2. Va invero ricordato che con il capo 1) di imputazione le condotte contestate a Runco Francesco Adolfo come costituenti gli artifici ed i raggiri mediante i quali ha indotto in errore l’ente concessionario ottenendo il suddetto ingiusto profitto patrimoniale, sono consistite nel presentare nell’ambito della procedura di finanziamento fatture false o, comunque, notevolmente gonfiate nell’indicazione dell’importo, relative all’acquisto dell’impianto industriale volto alla
produzione di birra, del capannone, dei relativi brevetti industriali nonché delle
opere di progettazione ammesse al finanziamento; nel presentare nell’ambito
della procedura di finanziamento documentazione bancaria falsificata nonché
un contratto falso apparentemente concluso, in data 3.12.01, tra la Munich Oktoberfest Consulting Gmbh e la ditta Esau & Huber Gmbh; nell’asportare, dai
beni e macchinari oggetto del finanziamento, le targhette identificative originarie del costruttore o, comunque, nel tentare di occultarle; nel dichiarare falsamente (in apposite autocertificazioni) di aver sostenuto, per l’acquisto dei beni,
macchinari, opere murarie e servizi di progettazione, oggetto dell’investimento,
costi e spese per importi superiori a quelli effettivamente sopportati e che i beni
ed i macchinari acquistati erano nuovi di fabbrica. Si tratta di condotte poste in
essere prima della erogazione del finanziamento e dell’effettivo conseguimento
dell’ingiusto profitto.
In ogni modo, sul punto della data di consumazione del reato, la sentenza
impugnata si è limitata a riportare pedissequamente le argomentazioni del giudice di primo grado, richiamando l’orientamento giurisprudenziale citato nella ii

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prima sentenza ed affermando testualmente che «il momento consumativo del
delitto di truffa *aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna anche la fine dell’aggravamento del danno, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata; infatti, nella fattispecie di truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi la cui erogazione sia rateizzata
periodicamente nel tempo, non si verte, infatti, in terna di reato permanente, né
di reato istantaneo ad effetti permanenti – ricostruzioni che postulano la unitarietà della condotta dell’agente – bensì di reato a consumazione prolungata:
giacché il soggetto palesa la volontà fin dall’inizio di realizzare un evento destinato a durare nel tempo. Tale principio, se vale nell’ipotesi in cui il soggetto beneficiario del finanziamento ha percepito tutte le rate del medesimo, non di meno vale nel caso in esame in cui, essendo stata erogata la prima rata di finanziamento, assume comunque rilievo penale la successiva condotta fraudolenta &tgli indagati che consentiva, mediante gli artifici e raggiri indicati in imputazione, di dimostrare l’avvenuta realizzazione di quanto relativo alla prima rata di
finanziamento e quindi di trattenere le somme di finanziamento già erogate con
riferimento alla prima quota del finanziamento, protraendosi inoltre la consumazione del reato anche al fine di ottenere le ulteriori rate di finanziamento e
determinandosi un aggravamento del danno fino al provvedimento di revoca del
contributo ovvero fino all’avvio del procedimento di revoca del contributo o
comunque, come appunto nel caso in questione, fino alla richiesta in data
27.4.2007 di restituzione delle somme già ricevute a titolo di finanziamento».
Deve però rilevarsi che la giurisprudenza citata (ed indicata dal solo giudice di primo grado) appare riferirsi a situazioni diverse da quella in esame. In
particolare, la sentenza Sez. II, 24.4.2007, n. 26256, Cornelio, m. 237299, posta
a fondamento della sua decisione dalla sentenza di primo grado, afferma il principio che «Il momento consumativo del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna anche la fine dell’aggravamento del danno, in ragione della
natura di reato a consumazione prolungata». Il medesimo principio è stato ribadito in altre decisioni (delle quali nemmeno vi è indicazione nella sentenza
impugnata) essendosi affermato che «La truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi, erogati in ratei periodici, è reato a consumazione prolungata, perché il soggetto agente manifesta
sin dall’inizio la volontà di realizzare un evento destinato a durare nel tempo, e
quindi il momento consumativo del reato coincide con quello della cessazione
dei pagamenti, che segna la fine dell’aggravamento del danno» (Sez. II,
20.12.2005, n. 3615 del 2006, D’Azzo, m. 232956); che «Il reato di truffa in
danno degli enti previdenziali per ricezione di indebite prestazioni di emolumenti e previdenze maturate periodicamente non è un reato permanente né un
reato istantaneo ad effetti permanenti, bensì un reato a consumazione prolungata, giacché il soggetto agente sin dall’inizio ha la volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo. (Con riferimento alla prescrizione la
Corte ha precisato che il momento consumativo, e il “dies a quo” del termine,
coincidono con la cessazione dei pagamenti, perdurando il reato – ed il danno

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3. La data di consumazione del reato deve dunque essere fissata in quella
del 1° giugno 2004. Va quindi applicata la precedente disciplina sulla prescrizione.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la fattispecie di cui all’art. 640
bis cod. pen. di truffa per erogazioni pubbliche costituisce una aggravante del
delitto di truffa di cui all’art. 640 codice e non figura autonoma di reato, con la
conseguenza che al fine di determinare il tempo occorrente per il decorso della
prescrizione bisogna tener conto delle attenuanti concesse e del loro bilanciamento con la suddetta aggravante (Sez. Un., 26.6.2002, n. 26351, Fedi, m.
221663). Nella specie, il giudice di primo grado ha concesso le attenuanti gene-

-6 addirittura incrementandosi – fino a quando non vengano interrotte le riscossioni)» (Sez. II, 3.3.2005, n. 11026, Becchiglia, m. 231157).
Il principio affermato da tutte queste decisioni è dunque che il reato perdura fino a quando vengano effettuati i pagamenti e si consuma nel momento della
cessazione delle riscossioni, che segna la fine dell’aggravamento del danno.
Nel caso in esame, appunto, il primo ed ultimo pagamento avvenne il 1°
giugno 2004 e con esso cessarono le riscossioni, con la fine dell’aggravamento
del reato già integralmente consumato.
La corte d’appello si è invece limitata a richiamare operazioni bancarie,
successive anche di molto tempo rispetto alla percezione dell’unica rata, che costituirebbero operazioni di ritorno. Fondatamente, però, il ricorrente osserva che
si tratta di condotte successive temporalmente alla percezione dell’unica somma
da parte della Elen’s Beer che potrebbero costituire un post factum non punibile,
dal momento che il reato di truffa si era già consumato con la percezione integrale della somma erogata e che non vi sono state ulteriori erogazioni. Invero, la
sentenza impugnata non ha in alcun modo indicato quali successivi eventi di
danno o di aggravamento del danno, corrispondenti ad indebite e molteplici
percezioni economiche, si siano verificati dopo l’erogazione dell’intera somma
e dunque quali ulteriori danni patrimoniali abbia subito la PA. Né ha spiegato
perché avrebbero determinato un ulteriore (rispetto a quello già verificatosi)
danno patrimoniale per la PA, ossia un ulteriore ingiusto profitto per l’imputato
ed un ulteriore esborso di denaro pubblico, le circostanze successive indicate
nella sentenza impugnata che si riferivano tutte all’unica già avvenuta erogazione del 1° giugno 2004, ed erano dirette, secondo la corte d’appello, non a ricevere ulteriori prestazioni patrimoniali ma a rendere difficoltosa la scoperta del reato già consumato.
Sembrerebbe che la sentenza impugnata faccia anche un (peraltro fugace)
accenno alla circostanza che le condotte dell’imputato posteriori alla consumazione del reato avrebbero avuto anche la finalità di ottenere le successive rate di
finanziamento. Si tratterebbe, quindi, in tale ipotesi, di atti costituenti un tentativo di truffa. Sennonché, non solo questa ipotesi di tentativo di un successivo
reato di truffa non è stata contestata e per essa non è intervenuta condanna con
la sentenza di primo grado, ma su di essa nella sentenza impugnata manca totalmente ogni motivazione, se non altro circa la idoneità e non equivocità degli
atti.

riche ritenute prevalenti rispetto alle aggravanti. Pertanto, dovendosi appunto
applicare, in considerazione della data di consumazione del reato di truffa, la
precedente normativa più favorevole, bisogna tenere conto, ai fini della prescrizione, della pena prevista dall’art. 640, comma 1, cod. pen., così come del resto
ha correttamente fatto il giudice di primo grado.
Ne consegue che, non risultando sospensioni, il reato di cui all’art. 640 bis
iscritto al capo 1) si è estinto per prescrizione il 1° dicembre 2011. Dagli atti
non risultano in modo evidente cause di proscioglimento nel merito
4. Da ciò consegue anche che restano assorbiti tutti gli altri motivi che investono il detto reato di cui all’art. 640 bis. Invero, non potrebbe essere pronunciato un annullamento con rinvio della sentenza impugnata relativamente a questo reato, stante l’obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione del
reato.
5. E’ anche fondato — conformemente alle richieste del Procuratore generale — il motivo con cui si censura la statuizione che dispone la confisca
dell’intera somma percepita a titolo di finanziamento, sebbene la stessa sia stata
integralmente già restituita all’ente erogante, il quale ha azionato la fideiussione
bancaria prestata dall’imputato.
6. La corte d’appello anche su questo punto si è pedissequamente riportata
alla sentenza di primo grado, la quale a sua volta aveva richiamato giurisprudenza relativa esclusivamente a provvedimenti cautelari di sequestro preventivo
per equivalente finalizzati a garantire una futura confisca del profitto del reato e
non a sentenze con le quali viene effettivamente imposta la confisca per equivalente. Nel medesimo equivoco sembra caduta la corte d’appello la quale si è limitata a richiamare le massime secondo cui «In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter cod. pen., le somme di denaro costituenti oggetto del vincolo cautelare quale profitto del reato
di corruzione non sono suscettibili di sostituzione attraverso una fideiussione
da costituire presso un istituto di credito, trattandosi di una garanzia personale
di pagamento non equipollente rispetto al bene in sequestro» (Sez. VI,
1.7.2009, n. 36095, Fezia, m. 244870); e «In tema di sequestro preventivo, il
prezzo del reato, oggetto della confisca obbligatoria ex art. 322 ter. cod. pen.,
non è suscettibile di essere sostituito dal tandundem offerto da un terzo o da un
coimputato, posto che il carattere sanzionatorio della suddetta confisca impedisce che l’autore del reato possa in alcun modo avvantaggiarsi o, comunque
beneficiare del “pretium sceleris” approfittando del fatto che altri abbia offerto
una somma equivalente. (Nella specie, la Corte ha ritenuto ininfluente, ai fini
del sequestro preventivo del prezzo del reato di cui all’art. 319 cod. pen. che il
coindagato di corruzione attiva avesse versato su un c/c vincolato a favore
dell’Erario una somma diretta a coprire, per l’ipotesi dell’eventuale confisca,
oltre al profitto del reato anche il suddetto prezzo)» (Sez. VI, 19.3.2009, n.
16725, Fitto, m. 243672); e «Le somme di denaro oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente non sono suscettibili di sostituzio-

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1),. .

-8 ne mediante rilascio di garanzia fideiussoria per un ammontare corrispondente
al profitto del reato, atteso che, altrimenti, verrebbe frustrata la finalità della
misura cautelare, diretta a sottrarre all’indagato la disponibilità del patrimonio, che invece risulterebbe invariata per lo spostamento del vincolo sul denaro
del garante» (Sez. III, 19.6.2012, n. 33587, Paulin, m. 253135).
E’ chiaro l’equivoco della sentenza impugnata che ha applicato massime
inconferenti, relative al diverso tema dei presupposti per concedere la misura
cautelare reale del sequestro preventivo, e non alla applicazione della confisca,
senza considerare le fattispecie concrete alle quali le massime si riferivano e
nemmeno le relative motivazioni. Ed invero, la sentenza relativa alla massima
da ultimo ricordata (Sez. III, 19.6.2012, n. 33587, Paulin, m. 253135) ha espressamente affermato (richiamando anche Sez. 2, n. 45054 del 2011, Rv. 251070)
come «la confisca sia strumentale a colpire l’accrescimento patrimoniale frutto
dell’illecito e non una parte del patrimonio in quanto tale, dandosi altrimenti
vita ad un effetto sanzionatorio illegittimo, in quanto non previsto dalla legge»
e soprattutto evidenziato «che il sequestro per equivalente non possa ricomprendere le somme che abbiano già formato oggetto di restituzione», e che proprio sulla base di questo principio si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 322 ter cod. pen. ed 1, comma 143,
della legge 24 dicembre 2007, n. 244 per la parte in cui, nel prevedere la confisca per equivalente anche per i reati tributari previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000,
n. 74, contrasterebbero, nel caso di sanatoria della posizione debitoria con
l’Amministrazione finanziaria, con gli artt. 23 e 25 Cost.. La medesima sentenza
ha anche osservato che «la restituzione all’Erario de/profitto del reato fa venir
meno lo scopo principale perseguito con la confisca, escludendo la temuta duplicazione sanzionatoria (Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010 Rv. 249752). E tale
indirizzo va certamente condiviso in quanto lo scopo del sequestro per equivalente in funzione della successiva confisca non può che essere quello di colpire
l’accrescimento patrimoniale nei casi in cui non sia possibile apprendere direttamente i beni che rappresentano il profitto del reato».
Va quindi anche in questa sede confermato che «la restituzione all’erario
de/profitto derivante dal reato elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca. In caso contrario si avrebbe appunto una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato dal
reato» (Sez. 3, 01/12/2010 n. 10120, Provenzale, in motivazione).
Non può dunque condividersi l’assunto della corte d’appello secondo cui,
nonostante vi sia stata la totale restituzione delle somme per conto della società
beneficiaria del finanziamento, Elen’ s Beer s.a. e dell’odierno ricorrente, dovrebbe comunque operare a titolo sanzionatorio la confisca per equivalente dei
beni intestati a Runco Adolfo. Se così fosse, infatti, si incorrerebbe in una duplicazione della restituzione, con una sostanziale sproporzione tra il presunto
profitto e prezzo del reato e la somma restituita ed il valore dei beni confiscati.
Nella specie è pacifico che è comunque avvenuta la restituzione integrale
delle somme percepite e che dunque non residua alcun danno erariale a carico
dello Stato per come riconosciuto anche dalla Procura della Corte dei Conti.

Appare inoltre irrilevante la circostanza che la restituzione sia avvenuta mediante l’escussione della polizza fideiussoria bancaria, dal momento che, in ogni caso, la polizza fideiussoria è stata comunque prestata dall’odierno ricorrente e le
somme anticipate dalla banca sono state poste a suo carico. Ciò che conta, infatti, è l’avvenuto pagamento, per conto ed in nome dell’odierno ricorrente, della
somma inizialmente erogata dallo Stato a titolo di anticipazione, pagamento che
ha eliminato radicalmente il possibile configurarsi di un danno erariale a carico
dello Stato ed ha fatto venire meno l’eventuale profitto derivante dal reato al
medesimo ricorrente. Questa conclusione è confermata anche dalla necessità di
dare alle disposizioni che vengono in rilievo una interpretazione adeguatrice,
che eviti una possibile non conformità con i principi di cui agli artt. 3, 23 e 25
Cost., qualora imponessero la confisca per equivalente anche allorché il profitto
conseguito o il prezzo del reato siano stati comunque oggetto di restituzione.

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7. Gli altri motivi vanno esaminati nella parte in cui possono incidere sui
residui reati di cui agli artt. 483 cod. pen. e 2 d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
Il secondo motivo è infondato. Innanzitutto, perché il ricorrente non ha
specificato quali sarebbero le prove la cui inutilizzabilità deriverebbe dalla
mancata notifica della richiesta di proroga delle indagini preliminari, sicché non
è possibile valutare la rilevanza dell’eccezione in relazione ai reati residui.
In ogni caso, il Collegio ritiene che non siano stati proposti motivi sufficienti per superare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui
«l ‘inutilizzabilità degli atti d’indagine prevista per il caso in cui tali atti siano
stati effettuati dopo la scadenza dei termini prescritti, non essendo equiparabile
alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge, di cui all’art. 191 cod. proc.
pen., non è rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte, sicché essa non
opera nel giudizio abbreviato» (Sez. VI, 24.2.2009, n. 16986, Abis, m.
243257); «Gli atti d’investigazione compiuti dopo la scadenza dei termini di indagine preliminare sono utilizzabili nel giudizio abbreviato» (Sez. V,
12.7.2010, n. 38420, La Rosa, m. 248506); «La scelta del giudizio abbreviato
preclude all’imputato la possibilità di eccepire l’inutilizzabilità degli atti di investigazione compiuti dopo la scadenza dei termini delle indagini preliminari»
(Sez. VI, 19.12.2011, n. 12085, Inzitari, m. 252580).
8. E’ invece fondato il primo motivo. Il ricorrente ricorda che la difesa, dinanzi alla corte d’appello, che le aveva poi acquisite, aveva depositato memorie
difensive cui erano allegate le deposizioni rese nel processo proseguito con il rito ordinario a carico di altri coimputati dal mar. Fullone e dal CT del PM Dott.
Giovanni Vergallo, nonché altra documentazione relativa alle spese effettivamente sostenute da Runco Adolfo Francesco e dalla società Elen’s Beer, mai
confutate e contestate e che sarebbero state in realtà ben superiori rispetto a
quanto ricevuto dalla Elen’s Beer a titolo di anticipazione. Lamenta ora fondatamente il ricorrente che la corte d’appello ha totalmente omesso di motivare
sulle argomentazioni svolte con le suddette memorie difensive, col che si è determinata una mancanza di motivazione. In particolare, nella sentenza non si fa
alcun cenno sull’esame del CT del PM dott. Vergallo, il che rileva anche ai fini

ki

9. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio
limitatamente al reato di cui all’art. 640 bis cod. pen. di cui al capo 1) perché estinto per prescrizione, nonché in ordine alla statuizione sulla confisca che va
eliminata. Sulle residue imputazioni la sentenza impugnata va annullata con
rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Catanzaro.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato previsto
dall’art. 640 bis cod. pen. perché estinto per prescrizione ed alla statuizione sulla confisca.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Catanzaro per le residue imputazioni.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 15
ottobre 2013.

– Iodella congruità della valutazione compiuta in questo processo sulla attendibilità
delle risultanze della consulenza dell’accusa. Aveva infatti eccepito la difesa
che alla luce del controesame del consulente, sarebbero risultate non documentate e non corrette le modalità di esame dei beni strumentali e non congrue le
sue conclusioni, in quanto il consulente avrebbe ammesso di avere solo il titolo
di perito agrario e di non avere messo in funzione alcuna parte dell’impianto per
la produzione della birra; avrebbe altresì dimostrato di non conoscere il funzionamento dell’impianto stesso; avrebbe ammesso di non avere condotto alcun
particolare accertamento tecnico al fine della stima del capannone e di non avere mai esaminato impianti e capannoni di quella tipologia, né il computo metrico e gli elaborati progettuali, di non avere valutato la congruità dei prezzi e di
avere chiesto informazioni a soggetti non identificati incontrati negli uffici pubblici. Fondatamente quindi il ricorrente lamenta che appare non sorretta da adeguata motivazione l’affermazione della corte d’appello che «le modalità di esame dei beni strumentali seguite dal consulente del PM appaiono del tutto accurate e debitamente documentate; mentre congrue sotto il profilo della logicità
appaiono le sue conclusioni. Né detta valutazione può essere inficiata
dall’errore in cui il consulente è incorso nella valutazione dell’immobile per cui
è processo, atteso che non vi sono ragioni per non operare una distinzione tra i
risultati peritali in relazione al giudizio sulla metodologia seguita e sulla comparazione con parametri esterni di riferimento» (pag. 32). Non è però spiegato
perché la metodologia seguita in caso di accertamento tecnico sia irrilevante al
fine di valutare la validità e l’affidabilità dei risultati, né perché, sempre al fine
di tale valutazione, sarebbe irrilevante l’errore commesso dal consulente e riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata.

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