Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44335 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 44335 Anno 2013
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso proposto dalla parte civile Corsini Giuseppe, nel procedimento penale
a carico di Di Matteo Giuliano, Cancelmo Luigi e Pilolli Michele,
avverso la sentenza 27.2.12 della Corte d’Appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Antonio Manna;
udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. Antonio Mura, che ha
concluso per l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente all’omessa
decisione sulle domande civili con rinvio al giudice civile competente in grado di
appello;
udito il difensore della parte civile – Avv. Andrea Recchi quale sostituto
processuale dell’Avv. Nazario Agostini -, che ha chiesto l’annullamento
dell’impugnata sentenza in virtù dei motivi di cui al ricorso, come da conclusioni
scritte e nota spese che ha depositato;
uditi gli Avv.ti Antonio Valentini (difensore del Pilolli) e Sergio Picarozzi
(difensore del Di Matteo e del Cancelmo), che hanno concluso per il rigetto del
ricorso della parte civile.

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 15/10/2013

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Con sentenza 27.2.12 la Corte d’Appello di Ancona, in accoglimento degli
appelli proposti dal PG presso la stessa Corte territoriale e dalla parte civile
Giuseppe Corsini, in riforma della pronuncia assolutoria emessa in prime cure il
24.2.10 dal Tribunale di Ascoli Piceno nei confronti di Giuliano Di Matteo, Luigi
Cancelmo e Michele Pilolli (il primo e il secondo imputati di estorsioni continuate
consumate e d’una estorsione tentata, il primo e il terzo imputati di usura

loro rispettivamente ascritti perché, esclusa l’aggravante contestata al capo b),
estinti per prescrizione.
Il Corsini ricorre contro la sentenza, di cui chiede l’annullamento per omessa
pronuncia sulle pur richieste e dovute statuizioni civili, visto che la Corte
territoriale ha ritenuto sussistenti (ancorché coperti da prescrizione) i fatti oggetto
di imputazione.
La difesa del Di Matteo ha depositato memoria con cui ha chiesto dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1- Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
In caso di appello della parte civile trova applicazione non già l’art. 578 c.p.p.,
bensì l’art. 576 c.p.p., che in virtù del principio stabilito dal noto arrét costituito
da Cass. S.U. n. 25083 dell’11.7.2006, dep. 19.7.2006, rv. 233918, Negri (seguito
da conforme giurisprudenza di questa S.C.: v. Cass. Sez. III n. 17846 del
19.3.2009, dep. 28.4.2009, rv. 243761, Carli; cfr., più di recente, Cass. Sez. VI n.
9081 del 21.2.13, dep. 25.2.13, rv. 255054, Colucci e altro), consente che il
giudice di appello, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione o per
amnistia, su impugnazione proposta dalla parte civile contro la sentenza di
assoluzione pronunciata in prime cure, può condannare l’imputato al risarcimento
dei danni anche in mancanza di una precedente statuizione sul punto,
contrariamente a quanto avviene, invece, nell’ottica dell’art. 578 c.p.p..
In altre parole, l’art. 576 e l’art. 578 c.p.p. disciplinano situazioni processuali
diversificate, mirando l’art. 578, nonostante la declaratoria della prescrizione, a
mantenere, in assenza di un’impugnazione della parte civile, la cognizione del
giudice dell’impugnazione sulle disposizioni e sui capi della sentenza del
precedente grado che concernono gli interessi civili, mentre l’art. 576 conferisce

continuata), dichiarava non doversi procedere a carico di costoro in ordine ai reati

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al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda di risarcimento
e/o restituzione, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto.
L’art. 578 c.p.p. costituisce una deroga al principio della devoluzione,
stabilendo che la pronunzia di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione,
intervenuta dopo una prima condanna, non comporta effetti automatici sui capi
civili della decisione impugnata (salvo stabilire se questi effetti debbano poi

invece, il giudice dell’impugnazione dal prendere in esame a questi fini il
gravame.
La disposizione non rappresenta l’unica eccezione al principio per cui il giudice
penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga
ad una dichiarazione di penale responsabilità: mentre il vigente codice di rito
esclude che possa essere rivisto l’accertamento penale in mancanza di una
impugnazione da parte del PM, lo stesso codice sottolinea all’art. 576 come, per
effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare
l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare
la sussistenza di una responsabilità per illecito aquiliano e, così, ottenere una
diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per gli interessi civili. In
sintesi, la normativa processuale penale vigente ha scelto l’autonomia dei giudizi
sui due profili di responsabilità, civile e penale, nel senso che l’impugnazione
proposta ai soli effetti civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado
precedente in merito alla responsabilità penale del reo, ma il giudice penale
dell’impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente
dipendente da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità
dell’autore dell’illecito civile, può, seppure in via incidentale, statuire in modo
difforme sul fatto oggetto dell’imputazione, addebitandolo alla responsabilità del
soggetto prosciolto.
L’art. 578 c.p.p. è, invece, inapplicabile al caso in esame, nel senso che il
giudice investito dell’impugnazione proposta dalla parte civile contro una
sentenza di assoluzione ripete per intero le proprie attribuzioni dall’art. 576 c.p.p.
Per la sussistenza di tali attribuzioni è irrilevante un’eventuale simultanea
impugnazione ai fini penali (pur avvenuta nel caso di specie, atteso che
l’assoluzione emessa in prime cure è stata appellata anche dal PG territoriale),

essere di caducazione o di conferma). Simile pronunzia di estinzione non esenta,

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talché una declaratoria di sopravvenuta prescrizione, esito di questa simultanea
impugnazione, non influisce sulla necessità di pronunciarsi sulla domanda civile.
Dunque, il giudice dell’impugnazione, adito ai sensi dell’art. 576 c.p.p., ha – nei
limiti del devoluto – gli stessi poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto
esercitare.
Se si convince che l’imputato non doveva essere assolto, ben può affermarne la

c.p.p.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l’accertamento
incidentale equivale virtualmente – ora per allora – alla condanna di cui all’art. 538
co. 10 c.p.p., che non venne pronunziata per errore.
Ma ciò vale — proprio perché il giudice dell’impugnazione esercita gli stessi
poteri che avrebbe dovuto esercitare quello di prime cure – soltanto in ipotesi di
sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione, non anche quando la
prescrizione si sarebbe dovuta pronunziare fin dal primo grado in luogo della
formula assolutoria: in quest’ultima evenienza il giudice dell’impugnazione,
sebbene adito ai sensi dell’art. 576 c.p.p., non può provvedere agli effetti civili a
causa del disposto dell’art. 538 comma 1° c.p.p.
È quanto accaduto nella fattispecie: dalla sentenza impugnata emerge che la
prescrizione di tutti i reati ascritti al Di Matteo, al Cancelmo e al Pilolli è maturata
anteriormente alla pronuncia di prime cure.
Ciò vale anche per la tentata estorsione (risalente ad epoca compresa fra il 1994
e il 1995) di cui al capo C) e per l’estorsione consumata (risalente al 1993)
rubricata sub B): infatti, avendo la Corte territoriale escluso in entrambi i casi
l’aggravante delle più persone riunite, la prescrizione di tali reati si è compiuta, ai
sensi del nuovo regime introdotto dalla legge n. 251/05 (che nel caso di quella
consumata e non aggravata fissa il termine massimo di prescrizione in anni 12 e
mesi 6) ben prima della sentenza del Tribunale, emessa il 24.2.10.
Ne discende che, nel caso in oggetto, la Corte territoriale non poteva
pronunciarsi sugli interessi civili, di guisa che la sentenza impugnata non merita
la censura rivoltale.

2- In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. Ne consegue ex art.
616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al
versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo

responsabilità ai soli effetti civili e (come indirettamente conferma l’art. 622

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quantificare in euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati
nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 186/2000.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale,
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

Così deciso in Roma, in data 15.10.13.

processuali e della somma di E 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

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