Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44279 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 44279 Anno 2013
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: RAMACCI LUCA

Data Udienza: 15/10/2013

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MARGHERITIS MARIO N. IL 06/06/1942
avverso la sentenza n. 5207/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del
05/12/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/10/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per ,ectivoilkdax,..,6, ee v.. A N kr< - - - Udito, per la parte civile, l'Avv Udit i difensor Avv. (3r( M( <0;13.."..0 RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 5.12.2012 ha confermato la decisione con la quale, in data 5.2.2008, il Tribunale di Como aveva riconosciuto Mario MARGHERITIS responsabile del reato di cui all'art. 171-bis legge 633\1941, per avere detenuto ed utilizzato, a scopo commerciale, sui duplicati privi del contrassegno S.I.A.E. (in Como 28.6.2006). Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione. 2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, rilevando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto come rientrante nell'attività di impresa contemplata dall'art. 171-bis legge 633\1941 anche l'attività libero professionale, senza tenere conto del contrasto della disposizione penale applicata con la disciplina comunitaria. 3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta il vizio di motivazione, rilevando che l'imputazione contiene riferimenti alla sola detenzione per scopo commerciale del software, mentre la sentenza impugnata avrebbe considerato il diverso scopo imprenditoriale. Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso CONSIDERATO IN DIRITTO 4. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati. Occorre preliminarmente rilevare che, per quanto è dato rilevare dall'imputazione e dal tenore del provvedimento impugnato, il ricorrente è stato chiamato a rispondere della illecita detenzione ed utilizzazione per scopo commerciale di software privo di «licenza SIA E.'>, rinvenuto installato su alcuni
computer in uso presso il suo studio professionale di architetto.
Va poi osservato che il ricorrente formula le sue censure sulla base di una
pronuncia di questa Corte (Sez. III n. 49385, 22 dicembre 2009) che il Collegio
condivide pienamente.

5. Ciò premesso, appare opportuno richiamare sommariamente i principi

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computer in uso presso il proprio studio professionale, software abusivamente

stabiliti con la richiamata decisione.
La sentenza ha, in primo luogo, chiaramente delimitato l’ambito di
operatività dell’articolo 171-bis legge 633\1941, rilevando come esso preveda,
nel primo periodo, due distinte ipotesi di reato, la prima delle quali concerne la
abusiva duplicazione, per fine di profitto, di programmi per elaboratore, mentre
la seconda riguarda le attività, poste in essere sempre per fine di profitto, di
importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale o
imprenditoriale o concessione in locazione di programmi contenuti in supporti

Viene poi precisato che il richiamo, contenuto nell’attuale formulazione della
norma, allo scopo «commerciale o imprenditoriale» cui deve essere indirizzata la
condotta prevista dalla seconda ipotesi della prima parte del comma 1, deve
ritenersi riferito non soltanto alla finalità di futura rivendita a terzi, ma anche
all’utilizzo dei programmi abusivi per le finalità proprie di una attività di impresa
e ciò sul presupposto che il legislatore abbia appositamente considerato che
l’utilizzo dei programmi, da parte di un imprenditore, per finalità riconducibili
all’attività d’impresa, abbia caratteri tali da giustificare una disciplina diversa da
quella di tutti gli altri utilizzi, meritevole di sanzione penale ed equiparabile alla
detenzione per la commercializzazione.
Sulla base di tali premesse, la richiamata pronuncia rileva che l’utilizzo dei
programmi abusivi nell’ambito della attività di uno studio di un libero
professionista non possa farsi rientrare nella nozione di attività di impresa, in
primo luogo perché non sarebbe ragionevole sostenere la previsione, da parte
del legislatore, di solo tre categorie di utilizzi: commerciale, imprenditoriale e
privato, ritenendo conseguentemente riconducibili tutti gli utilizzi diversi da
quello privato nelle altre due categorie, poiché, dal tenore letterale della norma e
dalla sua ratio emerge il contrario e, cioè, che gli usi individuati dal legislatore
(commerciale e imprenditoriale) siano i soli ritenuti penalmente rilevanti.
In secondo luogo, l’irrilevanza penale dell’utilizzazione in un’attività libero
professionale viene esclusa sul presupposto che, avuto riguardo anche al più
ampio significato del termine «imprenditoriale», in esso non potrebbe comunque
rientrare l’attività di un libero professionista che non sia esercitata nell’ambito di
una attività organizzata nella forma di impresa, stante anche la evidente
distinzione tra le diverse attività nelle disposizioni del codice civile e nella
giurisprudenza civile di questa Corte.

6. Tali considerazioni, come si è detto, sono state poste a sostegno del
ricorso. Esse sono pienamente condivisibili ma, con riferimento alla fattispecie
esaminata dalla Corte territoriale, non paiono pertinenti, perché i giudici del

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privi di contrassegno S.I.A.E.

gravame hanno esplicitamente valorizzato un dato fattuale trascurato dal
ricorrente ma decisamente rilevante e concernente la circostanza che lo studio
professionale era anche sede di una società a responsabilità limitata (Ma.Vi s.r.I.)
della quale l’imputato è socio unico ed amministratore ed attraverso la quale
venivano gestite e controllate altre società aventi sedi nei medesimi locali, ove
prestavano la propria attività altri architetti che utilizzavano le strutture presenti
e, per la remunerazione del loro operato, emettevano fatture alla suddetta
società.

uso degli stessi mezzi rappresentano un accertamento in fatto sull’assetto
imprenditoriale o commerciale dell’attività svolta dal ricorrente che consentiva ai
giudici di merito di superare, in quanto estranee alla fattispecie esaminata, le
opzioni ermeneutiche suggerite dalla sentenza 49385\2009 per la detenzione di
programmi privi del contrassegno SIAE nell’ambito di un’attività libero
professionale e rendeva superflua anche la distinzione, considerata in ricorso, tra
la contestazione, riferita all’utilizzo commerciale dei programmi e la motivazione,
che si assume richiamare l’utilizzo imprenditoriale.

7. Nondimeno, vi è un altro aspetto che la richiamata pronuncia prende in
esame e che invece assume rilievo determinante anche nella fattispecie.
La sentenza 49385\2009 ha anche chiarito che il reato di illecita
importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di
programmi per elaboratore di cui alla seconda ipotesi della prima parte del
comma 1 dell’art. 171-bis legge 633\1941 ha ad oggetto esclusivamente
programmi contenuti su supporti privi del contrassegno SIAE e non anche quelli
abusivamente duplicati, di cui tratta la prima ipotesi.
Viene dunque punita la violazione dell’obbligo di apporre il contrassegno
S.I.A.E. sui supporti nel caso di detenzione degli stessi a fine commerciale o
imprenditoriale (o di importazione, distribuzione, vendita, concessione in
locazione) e tale evenienza, si ricorda, impone di prendere in considerazione la
nota «sentenza Schwibbert» della Corte di giustizia europea, ritenuta applicabile
anche al reato in esame.

8. Occorre ricordare, a tale proposito, che, in tema di diritto d’autore,
relativamente ai reati di detenzione per la vendita di supporti privi del
contrassegno S.I.A.E., secondo la giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia
europea 8 novembre 2007, Schwibbert), dopo l’entrata in vigore della direttiva
europea 83/189/CEE, la quale ha previsto una procedura di informazione
comunitaria nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, l’obbligo

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Dunque, la compresenza di più società commerciali negli stessi locali con

di apporre sui compact disk contenenti opere d’arte figurativa il contrassegno
SIAE in vista della loro commercializzazione nello Stato membro interessato,
costituisce una “regola tecnica” che, qualora non sia stata notificata alla
Commissione della Comunità europea, non può essere fatta valere nei confronti
di un privato.
L’obbligo di apposizione del contrassegno sui supporti è stato introdotto
successivamente all’entrata in vigore della menzionata direttiva comunitaria,
senza che ne sia stata fatta comunicazione alla Commissione.

l’inopponibilità nei confronti dei privati dell’obbligo di apposizione del predetto
contrassegno quale effetto dalla mancata comunicazione alla Commissione
dell’Unione Europea di tale “regola tecnica” in adempimento della direttiva
europea 83/179/CE (cfr. Sez. Il n. 30493, 22 luglio 2009; Sez. III n. 34553, 3
settembre 2008; Sez. III n. 13816, 2 aprile 2008).
La successiva entrata in vigore del d.P.C.M. 23 febbraio 2009, n. 31, di
approvazione della regola tecnica oggetto del procedimento di notifica alla
Commissione VE n. 2008/0162/I, ha reso nuovamente perseguibili penalmente le
condotte successive al 21 aprile 2009.

9. Nella fattispecie, tuttavia, la condotta oggetto di contestazione risulta
accertata il 28.6.2006, quindi antecedentemente a tale data.
Ne consegue che in adesione ai richiamati principi ed in accoglimento del
ricorso la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con la formula
«perché il fatto non sussiste», secondo l’indirizzo maggioritario espresso dalla
giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. III n. 1073, 13 gennaio 2010).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in data 15.10.2013

Sulla base di tale presupposto, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto

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