Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44259 del 18/06/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 44259 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: PAOLONI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da CELLAMARE Luca, nato a Roma il 29/09/1983, avverso
la sentenza emessa il 17/06/2011 dalla Corte di Appello di Torino;
letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata;
udita in udienza pubblica la relazione del consigliere dott. Giacomo Paoloni;
udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore Generale dott.
Antonio Mura, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore del ricorrente, avv. Valerio D’Atri (in sostituzione processuale
dell’avv. Maria Grazia Cavallo), che si è riportato ai motivi di impugnazione e alla
memoria in atti, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

t. Con sentenza resa il 10.4.2009, all’esito di giudizio abbreviato, il G.U.P. del
Tribunale di Torino ha riconosciuto l’agente di polizia Luca Cellamare colpevole dei reati
di abuso di ufficio in danno di Domenico Pisano, di uso illegittimo della pistola di
ordinanza, di falsità ideologica dell’annotazione di servizio a sua firma redatta sui fatti di
causa. Fatti avvenuti il 7.5.2007 in Grugliasco, allorché l’agente della Pol.Fer. di Novara
Cellamare, libero dal servizio, mentre era alla guida della sua autovettura veniva a
diverbio con altro automobilista, il tecnico di caldaie a gas Domenico Pisano, che dopo un
sorpasso a suo giudizio irregolare del Cellamare lo aveva raggiunto, minacciandolo da
bordo della sua vettura con un cacciavite e poi fermandosi sulla carreggiata, così
impedendo al Cellamare di proseguire la marcia. Situazione che induceva l’agente di
polizia, asseritamente ritenutosi vittima di grave minaccia, ad uscire dalla sua auto, ad
esplodere uno o due colpi di pistola in aria a scopo intimidatorio e ad intervenire
energicamente nei confronti del Pisano, “dapprima percuotendolo con schiaffi e pugni
senza cagionargli lesioni e poi immobilizzandolo con veemenza e applicandogli le
manette ai polsi dietro la schiena, quantunque il Pisano non avesse opposto alcuna
reazione fisica” (così l’imputazione ex art. 323 c.p.). In base alle emergenze delle indagini
sottoposte ad articolata analisi ricostruttiva storica e logica il g.u.p., che con la stessa
sentenza ha riconosciuto il Pisano responsabile del reato di minaccia ex art. 612 c.p. (ha
ammesso il proprio gesto, attribuendolo all’iniziale gesto offensivo rivoltogli dall’agente

Data Udienza: 18/06/2013

2. Adìta dalle impugnazioni del Cellamare e del Pisano, la Corte di Appello di
Torino, nella sostanziale condivisione della vicenda quale ricostruita dal primo giudice,
con la sentenza indicata in epigrafe: a) ha concesso al Pisano le attenuanti generiche,
rideterminando la pena inflittagli in euro 34,00 di multa; b) ha prosciolto, in parziale
riforma della prima decisione, il Cellamare dai reati di falso e di abusivo impiego della
pistola in sua dotazione, confermandone la responsabilità per il reato di abuso di ufficio,
per il quale ha determinato la pena -in concorso delle già riconosciute attenuanti
generiche e dei concessi doppi benefici di legge- in otto mesi di reclusione, altresì
confermando la condanna al risarcimento dei danni in favore del Pisano, costituitosi
parte civile, già fissato in euro 6.000,00.
In particolare i giudici di secondo grado, da un lato, hanno ritenuto non esservi
dubbio sulla configurabilità nell’illecito comportamento del Cellamare del reato di abuso
di ufficio, poiché questi ha agito dopo essersi previamente qualificato al Pisano come
agente di polizia e, quindi, come pubblico ufficiale (“rivestendo permanentemente gli
agenti di polizia la qualifica di agenti di polizia giudiziaria”) ed ha compiuto atti propri
delle funzioni di appartenenti alle forze dell’ordine, sparando in aria, arrestando il Pisano
e ammanettandolo, sorvegliandolo fino all’arrivo sul posto di una pattuglia di carabinieri.
Atti caratterizzati dalla doppia ingiustizia connotante il reato ex art. 323 c.p. Sia per
l’illegittimità degli atti compiuti, in difetto di un contegno del Pisano giustificante il
ricorso ai mezzi coercitivi adottati dal Cellamare, e -per ciò- in violazione del disposto
della citata norma di legge (art. 42 bis 0.P.), sia per la natura del danno inferto al Pisano.
Da un altro lato la sentenza di appello ha ribadito l’attendibilità della versione dei
fatti resa dal Pisano segnalata dal giudice di primo grado, “apparendo in vari punti non
marginali assurda e inverosimile la versione del poliziotto” con peculiare riguardo al
contegno gravemente minaccioso assunto dal Pisano e al perdurare della sua pretesa
aggressività dopo che Cellamare si era qualificato, aveva esploso dei colpi di pistola in
aria e lo aveva privato del cacciavite gettandolo lontano (avendolo posto, quindi, in
condizione di non nuocere), non essendovi spazio alcuno per ipotizzare il contegno
tenuto dal Cellamare come l’unico idoneo a “salvargli la vita”, secondo la ridondante tesi
della difesa dell’imputato. Al riguardo la sentenza di appello rimarca come non vi sia
reale discrepanza tra la versione dell’episodio resa dalla p.o. Pisano nell’immediatezza
dello stesso (spontanee dichiarazioni del 7.5.2007, con cui riconosce di aver brandito il
cacciavite all’indirizzo dell’agente) e quella offerta con una memoria difensiva al
procedente p.m. (1.6.2007) e nel successivo interrogatorio davanti alla p.g. (6.12.2007),
con cui ha spiegato il suo iniziale atteggiamento conciliante e remissivo con “l’inevitabile
soggezione di trovarsi in presenza dei colleghi del suo antagonista”, chiarendo -tra
l’altro- alcuni profili di ritenuta inverosimiglianza della versione del Cellamare già
aliunde venuti in rilievo (segnatamente sulla addotta inarrestabile pericolosità del
Pisano).

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di p.s.), ha ritenuto provata la condotta di abuso dei poteri funzionali e della sua qualità
(oltre che dei connessi reati ex artt. 479 e 703 c.p.) ascritta al Cellamare, evidenziando
come questi in occasione del descritto episodio (diverbio per motivi di viabilità) abbia
fatto indebito ricorso a forme di coazione fisica verso il suo contraddittore per mera
rivalsa e in palese violazione -come da accusa contestata- delle norme di legge (art. 42bis, co. 4-5, ord. penit.) regolanti il comportamento dei pubblici ufficiali nei confronti di
persone fermate o sottoposte a controlli (sentenza, p. 11: “…in ogni caso è stata
arbitraria la scelta di ammanettare il Pisano, non essendovi equivoco possibile da parte
di un agente che già aveva largamente intimidito il suo antagonista, sparando con la
pistola d’ordinanza.. .producendo, quindi, intenzionalmente un danno alla persona
offesa”).

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3. Contro la sentenza di appello ha proposto un primo ricorso il difensore di Luca
Cellamare, deducendo -con ampio compendio censorio- violazioni di legge (artt. 323, 51,
52 c.p., 192 c.p.p.) in riferimento all’erronea applicazione della norma incriminatrice e
alla elusiva valutazione delle fonti di prova e di mancanza, contraddittorietà e illogicità
manifesta della motivazione. Censure che si rassumono come di seguito.
3.1. La Corte di Appello non è fatta carico dei rilievi espressi con l’atto di
impugnazione, proponendo una motivazione allineata alla sentenza di primo grado e
incentrata su un incompleto raffronto tra le dichiarazioni del Pisano e quelle del
Cellamare, che non chiarisce le ragioni della maggiore credibilità attribuita al Pisano.
3.2. L’attendibilità riconosciuta al Pisano stride, facendo emergere la discrasia
della decisione impugnata, con l’avvenuta assoluzione del ricorrente dal reato di falso
ideologico e dalla contravvenzione di uso illegittimo di un’arma deliberata dalla Corte
territoriale. Se ciò equivale a riconoscere innanzitutto la veridicità della relazione di
servizio con cui l’imputato descrive le sequenze del suo intervento di p.g. a fronte
dell’aggressiva minaccia patita ad opera del Pisano, non è dato comprendere su quali basi
i giudici di appello abbiano ritenuto abusiva, per gli effetti di cui all’art. 323 c.p., la
condotta del Cellamare, se non appunto attraverso un evidente travisamento delle prove.
3.3. Posto che lo stesso Pisano ha ammesso di aver brandito il cacciavite nei
confronti del Cellamare, gli atti tipici di un appartenente alle forze dell’ordine, la cui
indebita esecuzione si contesta al ricorrente, si inscrivono, quanto meno, nell’ambito di
un corretto esercizio di legittima difesa a fronte della “escalation di violenza” ascrivibile
al Pisano, che con il cacciavite in mano ha costretto il Cellamare a fermare l’auto e lo
pressa da vicino pronto ad assalirlo. Sicché, avvertendo tale stato di pericolo, l’imputato non avendo alcuna via di fuga- ha deciso di agire come poliziotto che esegue
correttamente il proprio servizio per cercare di mettersi in salvo, con una “condotta
necessaria e necessitata, posta in essere al solo fine di evitare una più grave azione
criminosa”.
3.4. Il percorso argomentativo della Corte di Appello disapplica il canone
valutativo del ragionevole dubbio che deve scandire ogni affermazione di colpevolezza
(art. 533 co. i c.p.p.), tralasciando di prendere in considerazione le doglianze espresse
dalla difesa anche in ordine agli apporti conoscitivi offerti dalle testimonianze raccolte
nelle indagini preliminari e alla loro limitata attendibilità (testimoni Antonio Pagnano,
Marcello Candellero, datore di lavoro del Pisano, Vincenzo Milone, che lavora nello
stesso settore delle caldaie a gas del Pisano).
3.5. Con un secondo ricorso del difensore del Cellamare, integrativo del
precedente, sono ripresi i già delineati motivi di censura, evidenziandosi in particolare la
deficitaria analisi dell’elemento soggettivo del reato di abuso ascritto all’imputato
(“Cellamare si è visto minacciato nella propria incolumità dall’energumeno che, per
futili motivi di sorpasso, gli ha in pochi attimi prima esibito il cacciavite, poi lo ha
costretto ad accostare, poi è sceso dalla propria auto brandendo il cacciavite e
avvicinandosi pericolosamente al poliziotto, avvinghiato al sedile dalla cintura di
sicurezza e al contempo pericolosamente esposto dall’apertura del finestrino a quella
aggressività”). A fronte di tale grave minaccia a mano armata l’imputato legittimamente
ha agito nell’esercizio delle sue funzioni per contrastare l’imminente pericolo, ben
dovendo temere -anche putativamente- per la propria incolumità. Nessuna seria analisi è
stata svolta dalla Corte di Appello sulla ravvisabilità nell’azione dell’imputato della
scriminante della legittima difesa o di quella dell’adempimento di un dovere, essendosi i
giudici del gravame limitati a confermare, in termini apodittici, la presunta maggiore
credibilità della versione del Pisano.

4. Il ricorso articolato nell’interesse di Luca Cellamare va dichiarato inammissibile
per genericità (id est aspecificità: sono ripresi argomenti censori già esposti con i motivi
di appello e tutti presi in considerazione dalla sentenza impugnata, che li ha con corretta
motivazione disattesi), indeducibilità e palese infondatezza dei motivi di impugnazione.
Ad onta della estensione degli atti di ricorso, le doglianze elaborate a sostegno
dell’incolpevolezza dell’imputato paiono esprimersi al di fuori di una effettiva lettura
critica dei passaggi della motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto la condotta
del Cellamare integrativa dell’ascritto reato di abuso di ufficio per la condotta attuata
contestualmente alla discussione o lite per banali motivi di circolazione stradale insorta
con il Pisano. Condotta reattiva che, come dimostrano le due conformi decisioni di
merito, esula da qualsiasi profilo scriminante, ancorché putativo, ovvero da eventuali
colposi eccessi nella supposta operatività delle cause esimenti ex artt. 51 e 52 c.p.
4.1. Giova precisare in limine che -per quanto si desume dalla lettura della
impugnata sentenza di appello- i giudici di secondo grado non si sono affatto appagati
(come si sostiene in ricorso) di condividere e fare proprie le conclusioni della decisione
del g.u.p. del Tribunale, avendo proceduto ad una rinnovata considerazione di tutti i dati
di conoscenza e valutazione portati in luce dalle indagini preliminari (giudizio allo stato
degli atti ex art. 438 c.p.p.), sviluppandone una autonoma valutazione probatoria. La
riprova più evidente è offerta, non a caso e diversamente da quanto addotto dal
ricorrente, proprio dalla disposta assoluzione del Cellamare dai connessi reati di cui agli
artt. 479 e 703 c.p., per i quali era stato condannato in primo grado. Né risponde al vero
che la Corte torinese non abbia illustrato le ragioni della ribadita credibilità della
versione dell’episodio oggetto di regiudicanda offerta dalla p.o. Pisano rispetto a quella,
inverosimile e non priva di ingiustificata enfasi, proveniente dal Cellamare. In vero i
rilievi enunciati con i due atti di ricorso delineano una rilettura e una reinterpretazione
puramente fattuali delle fonti di prova, di certo non ripercorribile nell’odierno giudizio di
legittimità. Segnatamente se si abbia riguardo alla completezza, linearità e logicità
argomentative con cui la sentenza di appello ha illustrato le ragioni della confermata
responsabilità dell’imputato per il reato di abuso di ufficio. Donde l’indeducibilità di gran
parte dei profili di censura, di puro merito, esposti dal ricorrente.
4.2. L’attendibilità della narrazione dei fatti resa dal Pisano nasce da una meditata
disamina comparativa delle dichiarazioni rilasciate da costui e dall’imputato dal loro
logico raffronto con la sequenza della dinamica del diverbio per motivi di traffico insorto
tra i due protagonisti, che incongruamente il Cellamare ha creduto di risolvere in proprio
definitivo favore, facendo illegittimo uso dei suoi poteri coercitivi di agente di polizia
giudiziaria.
La sentenza di appello (come già la sentenza del g.u.p.) ha messo ampiamente in
risalto come, all’atto della sua decisione di aggredire e ammanettare il Pisano, il
Cellamare non abbia corso alcun effettivo pericolo per la sua personale incolumità. Vuoi
perché appena fermata la sua auto ha fatto uso della pistola (sparando in aria a scopo
intimidatorio), sì da rendere implausibile che il già “intimidito” Pisano potesse persistere
in qualsiasi intento aggressivo nei suoi confronti (Pisano asserisce di essersi subito
rifugiato nella sua vettura, da cui l’imputato lo ha fatto perentoriamente uscire). Vuoi
perché, a tutto concedere, appena venuto a contatto fisico con il Pisano il Cellamare lo ha
subito “disarmato”, impadronendosi del cacciavite e scagliandolo lontano, così rendendo
inoffensivo il suo presunto aggressore. Aggressore che, per quel che si legge nella
sentenza di primo grado, non sembra aver avuto il piglio e la corporatura del minaccioso
“energumeno” raffigurato nel ricorso (sentenza g.u.p., p. 6: “…un comune operaio di una
4

3.6. Con memoria “riassuntiva” (depositata il 10.6.2013) la difesa del ricorrente ha
proposto una sinossi dei motivi di doglianza enunciati nei due ricorsi.

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ditta di manutenzione di caldaie, non particolarmente robusto, né palestrato a
differenza del Cellamare”). Né può sottacersi -come puntualmente osserva la sentenza
impugnata- che la concreta pericolosità del Pisano percepita al momento dei fatti
dall’imputato, siccome -in tesi- venutosi a trovare in situazione di minorata difesa, si
mostra avulsa da ogni logica comportamentale soprattutto per una persona giovane e
dotata di una qualche agilità (al riguardo si osserva ancora puntualmente nella sentenza
del g.u.p.: “sarebbe stato sufficiente chiudere la portiera e il finestrino della vettura, se come solo Cellamare sostiene- Pisano gli fosse già stato addosso”).
4.3. Nessun travisamento probatorio è ravvisabile nel percorso valutativo della
sentenza impugnata, così come nessuna contraddizione o illogicità può desumersi dalla
deliberata assoluzione dell’imputato dal connesso reato di falsità ideologica nei contenuti
descrittivi dell’annotazione di servizio redatta sull’episodio. La veridicità della relazione
in questione non equivale, come erroneamente suppone il ricorso, ad avvalorare la
veridicità della versione dei fatti resa dal Cellamare e ad infirmare l’affidabilità di quella
proveniente dal Pisano. Per la semplice ragione che la Corte di Appello ha prosciolto
l’imputato dal reato ex art. 479 c.p., non già perché ha ritenuto vera la sua narrazione
dell’episodio nell’interezza dello stesso, ma soltanto perché l’ha ritenuta connotata da
inesattezze, imprecisioni e enfatizzazioni di dettagli privi di effettiva rilevanza ai fini della
ricostruzione della vicenda, che nulla consentono di inferire sulla effettiva fase in cui ha
avuto luogo il contegno antidoveroso dell’imputato. Contegno che costui si è ben
guardato dall’esporre nella annotazione a sua firma (“…Il comportamento antidoveroso
del Cellamare, di cui non vi è menzione nell’annotazione, era consistito nel fare uso dei
mezzi di coazione fisica e nel percuotere il suo antagonista, dopo che questi, privato del
cacciavite, non era più in condizione di nuocere”). La ragione del proscioglimento è tutta
di segno processuale ed è precisata dalla stessa Corte di Appello, che osserva come il
pubblico ufficiale che attui una condotta arbitraria o finanche illecita nei confronti del
privato cittadino non è tenuto a darne conto nei relativi atti di servizio, trattandosi di
contegno dichiarativo da ritenersi, in base al principio nemo tenetur se deteg ere, non
esigibile e che di fatto si tradurrebbe in una formale confessione di un reato già
commesso. Non è certo questa la sede per disquisire, in difetto di impugnazione del p.m.,
della correttezza giuridica di tale assunto assolutorio della Corte di Appello (a fronte di
una relazione di servizio omissiva di fatti comunque ricadenti nella sfera di attività
espletata dal pubblico ufficiale), perché ciò che rileva ai fini della esaustività e linearità
logica della disamina della posizione del Cellamare svolta dai giudici di appello, è che la
Corte territoriale ha compiutamente valutato ed esposto, in base a corrette regole di
giudizio non censurabili in questa sede, le ragioni della confermata non veridicità o
inverosimiglianza della versione dell’episodio (con speciale riferimento all’aggressione
fisica architettata in suo danno dal Pisano) offerta dal Cellamare, attestandone -anzi- la
consistenza mistificatoria in termini ancor più radicali di quelli segnalati dalla sentenza
di primo grado.
Ed è appena il caso di aggiungere, che è proprio sulla base del descritto esame
della omissione narrativa (nella relazione di servizio) che la Corte territoriale incardina
l’apprezzamento della volontà colpevole dell’imputato in rapporto al reato di abuso di
ufficio per violazione dei doveri funzionali previsti dall’art. 42 bis 0.P., intesa come
duplice “intenzionale” disegno di eludere le proprie responsabilità per il commesso abuso
e di procurare uno speculare ingiusto danno (non patrimoniale) al Pisano.
4.4. Nel descritto contesto valutativo si inscrive la dettagliata analisi della
credibilità del racconto offerto dalla persona offesa Pisano con specifico riguardo alle
discrasie rilevate dal ricorrente per le dissonanze delle dichiarazioni rese dal Pisano dopo
quelle rilasciate alla p.g. nell’immediatezza dell’episodio. Discrasie stimate non dirimenti
(e prese già in esame dalla sentenza di primo grado), che la Corte territoriale ha

Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione segue per legge la condanna
del Cellamare alla rifusione delle spese processuali del grado e al versamento di una
somma in favore della cassa delle ammende, che si reputa conforme a giustizia
determinare in misura di euro 1.000,00 (mille).
P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
Roma, 18 giugno 2013

ampiamente giustificato con la peculiarità della situazione di condizionamento
psicologico vissuta dal Pisano all’atto del suo presunto “arresto” ad opera del Cellamare,
sì da indurlo ad assecondare -almeno in parte- la versione del suo accusatore (con il
significativo effetto, come osserva la sentenza impugnata, che non appare casuale che il
Pisano in concreto non sia stato arrestato, venendo denunciato dalla Squadra Mobile
della Questura torinese in stato di libertà per il reato di minaccia di cui all’art. 336 c.p.).
Versione per altro ben presto corretta, ancor prima del formale interrogatorio sostenuto
davanti alla p.g. il 6.12.2007, con una memoria difensiva dell’1.6.2007 fatta pervenire al
procedente pubblico ministero. Né può trascurarsi che la Corte di Appello, anche avendo
ben presenti i rilievi espressi nell’atto di gravame dell’imputato, ha rimarcato come le
discrasie narrative del Pisano siano in realtà più apparenti che reali, poiché investono
alcuni particolari dell’episodio già di per sé rivelatisi come poco credibili in base alla
iniziale esposizione formulatane dal Cellamare (appunto nella sua relazione di servizio).
4.5. Prive di qualsiasi spessore, infine, vanno giudicate le censure espresse con il
ricorso sulla limitata significatività delle tre testimonianze raccolte dalla p.g. in corso di
indagini (testi Pagnano, Candellero e Milone). In verità la Corte di Appello, pur
escludendo la addotta non genuinità dei tre testimoni, ha sottolineato -sulla scia della
decisione di primo grado- che tali testimonianze, poiché afferenti a fasi successive
all’avvenuto ammanettamento del Pisano e alla sua “messa in sicurezza” da parte
dell’imputato, sono prive di effettive valenze probatorie ai fini della verifica della
sussistenza o meno del reato di abuso di ufficio.

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