Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44247 del 17/07/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 44247 Anno 2013
Presidente: BRUNO PAOLO ANTONIO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sui ricorsi proposti dai difensori di:
Squitieri Tobia
Di Paolo Vincenzo
Gallo Francesco
Vitiello Carmine
Pagano Aldo Franco
Staiano Sandro
Annunziata Giuseppe
Vito Gaetano
Tafuro Giacomo

avverso la sentenza del 15/12/2010 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;

Data Udienza: 17/07/2013

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Roberto
Aniello, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza in riferimento al
primo motivo del Tafuro e per il Vito e lo Staiano e per il rigetto di tutti gli altri ricorsi;
udito per la parte civile l’avv. , che ha concluso chiedendo ;
uditi per gli imputati l’avv. , che ha concluso chiedendo.
RITENUTO IN FATTO

delle pronunzie di primo grado emesse dal Tribunale della stessa città il 25 gennaio e
I’ll febbraio 2008, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Squitieri Tobia, Di
Paolo Vincenzo, Gallo Francesco, Vitiello Carmine, Pagano Aldo Franco, Staiano
Sandro, Annunziata Giuseppe, Vito Gaetano e Tafuro Giacomo per i reati di peculato e
falso in atto pubblico loro rispettivamente ascritti per l’intervenuta prescrizione dei
medesimi, confermando al contempo le statuizioni civili assunte nei loro confronti dai
giudici di prime cure salvo, in accoglimento dell’appello del Comune di Terzigno,
condannare l’Annunziata, il Vito e il Pagano al risarcimento dei danni nei confronti di
tale ente locale.
I fatti in contestazione concernevano l’appropriazione da parte dei rappresentanti della
Italgest s.p.a. (Chiacchio Umberto e Chiacchio Eduardo), società cui era stato
appaltato il servizio di tesoreria da alcuni comuni del napoletano e successivamente
fallita, di ingenti somme di danaro gestite dalla medesima e per i quali erano stati
condannati (ovvero già prosciolti per l’intervenuta prescrizione) anche gli odierni
imputati, accusati, nelle rispettive qualità di amministratori, funzionari o revisori dei
conti dei suddetti enti locali, di aver omesso i controlli di legge sull’attività della
menzionata Italgest ovvero di averli svolti in maniera solo formale attestando
falsamente la regolarità del servizio di tesoreria, consentendo in tal modo di non far
emergere gli ammanchi di cassa e di agevolare conseguentemente le menzionate
malversazioni.
In particolare i responsabili della Italgest gestivano la cassa dei diversi comuni che
avevano appaltato alla società il servizio di tesoreria attraverso un unico conto
corrente operante in stanza di compensazione con la Tesoreria Provinciale di Napoli,
presso cui ogni ente locale era intestatario di un conto sul quale erano depositati i
propri fondi. Dalla verifica svolta dai consulenti tecnici del pubblico ministero
emergeva che i Chiacchio avevano governato per lungo tempo in maniera impropria i
flussi di cassa di ognuno degli enti locali, poichè la situazione contabile determinata dal
complesso delle reversali d’incasso e dei mandati di pagamento di ciascuno era
risultata non corrispondere per difetto al volume delle operazioni di cassa
effettivamente poste in essere dalla Italgest utilizzando le risorse finanziarie dei

1.Con sentenza del 15 dicembre 2010 la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma

medesimi. Ancora emergeva che, al fine di garantire l’apparente adesione della
situazione di fatto a quella contabile in occasione delle periodiche verifiche di cassa
eseguite dalle amministrazioni comunali, il tesoriere, sfruttando la commistione
generata dalla presenza di un unico conto di compensazione, provvedeva a trasferire
temporaneamente (ed ingiustificatamente) le risorse di un comune sul conto di un
altro, garantendo così la coerenza formale dei saldi di cassa.
Nella prospettazione accusatoria accolta dalla Corte territoriale, tali verifiche (che fino

segretario e dal ragioniere comunali, e, successivamente, a quest’ultimo ed ai revisori
dei conti) venivano condotte dagli apparati comunali in maniera volutamente
superficiale, al fine di agevolare le condotte criminose dei gestori della Italgest, come
provato dal fatto che le stesse si limitavano al confronto tra la contabilità di cassa
presentata dal tesoriere e quella dell’ente locale, omettendo di estenderlo ai periodici
estratti (modelli 56T) inviati dalla Banca d’Italia sull’effettiva movimentazione dei conti
presenti presso la Tesoreria Provinciale, i quali avrebbero invece consentito di rivelare
l’effettiva consistenza di cassa e, conseguentemente, i relativi ammanchi.
La prova del coinvolgimento “attivo” nella consumazione del reato di amministratori e
funzionari dei diversi enti locali veniva altresì tratta dai giudici del merito dalle
dichiarazioni rese da Chiacchio Umberto nel corso delle indagini preliminari (ed
utilizzate ai sensi dell’art. 512 c.p.p. in ragione del successivo decesso del medesimo),
il quale, nell’ammettere le appropriazioni, rivelava però come le stesse fossero in larga
parte funzionali alla “remunerazione” degli stessi amministratori dei comuni ovvero al
pagamento di debiti fuori bilancio.

2. Avverso la sentenza ricorrono tutti gli imputati elencati in epigrafe a mezzo dei
rispettivi difensori.
2.1 II ricorso proposto nell’interesse di Squitieri (ragioniere del Comune di Pompei), Di
Paolo, Vitiello (componenti del Collegio dei Revisori dei Conti del Comune di Pompei) e
Gallo (assessore dello stesso e delegato del sindaco alle verifiche) articola quattro
motivi. Con il primo si deduce la violazione dell’art. 192 c.p.p., rilevandosi in proposito
come la consistenza indiziaria della presunta mancata verifica comparativa della
contabilità del tesoriere con i modelli 56T relativi alla movimentazione dei conti dei
singoli comuni presso la Tesoreria Provinciale della Banca d’Italia non sarebbe stata
valutata dalla Corte territoriale alla luce delle obiezioni difensive sulla parzialità dei dati
contenuti nei suddetti modelli e sull’effettività dei controlli eseguiti dagli imputati. Con il
secondo i ricorrenti lamentano carenze motivazionali della sentenza in ordine alla
ricostruzione dei conti del comune di Pompei, effettuata dai giudici di merito travisando
sostanzialmente i dati contabili i quali evidenzierebbero la correttezza del
comportamento dell’ufficio di ragioneria e l’ascrivibilità alla sola Italgest degli

all’entrata in vigore del d. Igs. n. 77/1995 spettavano al sindaco, assistito all’uopo dal

ammanchi, conseguiti agli indebiti prelevamenti effettuati dal tesoriere presso la Banca
d’Italia peraltro non rilevabili dai funzionari comunali per l’insufficienza della
documentazione in loro possesso all’atto delle verifiche. Con il terzo motivo viene
eccepita l’inosservanza dell’art. 110 c.p., in quanto la Corte territoriale avrebbe
apoditticamente attribuito agli imputati una responsabilità concorsuale nel delitto di
peculato senza dimostrare la loro consapevolezza di concorrere con altri alla sua
consumazione. Con il quarto motivo, infine, i ricorrenti deducono il travisamento del

gestita da uno dei figli del titolare della Italgest, la cui ritenuta rilevanza è viziata
dall’errata ricostruzione del periodo in cui la stessa avrebbe prestato la propria opera,
invece pacificamente successivo alle dimissioni del padre. Con lo stesso motivo si
lamenta altresì la carenza assoluta di motivazione in ordine all’effettivo contributo
prestato da ogni singolo imputato alla causazione del danno subito dal comune di
Pompei ed altresì in merito all’individuazione del motivo per cui i ricorrenti avrebbero
dovuto voler occultare gli indebiti prelievi del tesoriere. Argomenti tutti ripresi poi nella
memoria depositata dal difensore dei ricorrenti il 2 ottobre 2012.

3. Con il ricorso presentato nell’interesse del Pagano (già ragioniere capo del comune di
Terzigno) vengono proposti cinque motivi.
3.1 Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 601 comma 5 c.p.p.
per l’omessa notifica ad uno dei due difensori di fiducia dell’imputato dell’avviso di
fissazione dell’udienza del giudizio d’appello, rilevando come all’udienza del 27 aprile
2009 la stessa Corte territoriale aveva dato atto del difetto di notifica, dovuto al
trasferimento del difensore, disponendone la rinnovazione per l’udienza del 3 giugno
2009, in vista della quale la cancelleria si limitava ad assumere invano informazioni
presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati circa il nuovo recapito dell’avv. Arcella, con
la conseguenza che la notifica non veniva rinnovata. In tal senso dunque, secondo il
ricorrente, la notifica deve ritenersi omessa, atteso che l’attività informativa svolta
sarebbe insufficiente ai sensi dell’art. 157 c.p.p. così come richiamato dal successivo
art. 167 dello stesso codice. Ne conseguirebbe la nullità del giudizio d’appello per
difetto di assistenza dell’imputato, nullità peraltro tempestivamente eccepita all’udienza
del 3 giugno 2009 e ribadita con memoria a quella del 12 ottobre 2009, ma
irragionevolmente disattesa dalla Corte territoriale.
3.2 Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 578 c.p.p. in relazione alla
condanna al risarcimento del danno in favore del Comune di Terzigno. Osserva infatti il
ricorrente che il Tribunale, all’esito del giudizio di primo grado, aveva dichiarato
inammissibile la costituzione di parte civile del suddetto comune e che dunque la Corte
territoriale non aveva il potere di pronunziare condanna ai fini civili nei confronti del
Pagano, atteso che la disposizione menzionata attribuisce al giudice dell’impugnazione

fatto in merito all’episodio dell’assunzione della figlia dello Squitieri presso la società

il potere di decidere sulla pretesa risarcitoria in caso di declaratoria di estinzione del
reato soltanto qualora la sentenza impugnata abbia a sua volta condannato l’imputato
alle restituzioni o al risarcimento del danno e non anche quando, come nel caso di
specie, nel precedente grado di giudizio la pretese della parte civile siano state
disattese.
3.3 Con il terzo motivo il ricorrente eccepisce la violazione dell’art. 568 c.p.p. in merito
all’accoglimento dell’appello proposto dal Comune di Terzigno avverso la declaratoria di

di primo grado, in quanto tale decisione, ancorchè non adottata nei tempi prescritti
dall’art. 81 c.p.p., non può qualificarsi abnorme, come invece ritenuto dai giudici
d’appello, avendo il giudice di prime cure esercitato il potere di controllo sulla
legittimazione della parte civile comunque attribuitogli dalla legge processuale. Poichè il
provvedimento con cui quest’ultima viene espunta dal processo non è impugnabile, la
Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’appello del suddetto
comune e conseguentemente avrebbe dovuto astenersi dal decidere sulla pretesa
risarcitoria avanzata dal medesimo.
3.4 Con il quarto motivo si deduce l’errata applicazione dell’art. 40 c.p. e correlati vizi
motivazionali del provvedimento impugnato, evidenziandosi in proposito come nel
ritenere l’imputato responsabile, attribuendo valore causale nella consumazione del
reato di peculato alle condotte omissive contestategli, la motivazione della sentenza
appare contraddirsi in merito alla sussistenza del necessario dolo concorsuale, laddove
riconosce come il Pagano in realtà nel 1994 avesse rilevato nella relazione al bilancio
consuntivo la mancata coincidenza tra il fondo cassa del comune presso la Tesoreria
provinciale e quello risultante dalle scritture contabili dell’ente locale e come tale
relazione fosse stata successivamente falsificata per non far apparire proprio tale
rilievo. Ciò non di meno i giudici napoletani hanno tratto proprio da tale circostanza la
prova della consapevolezza del Pagano delle appropriazioni del tesoriere. E sempre la
sentenza ammette come nelle successive verifiche non fossero disponibili i modelli 56T
relativi alla movimentazione del conto del comune, senza però spiegare come il
Pagano, in assenza di tali documenti, avrebbe potuto accorgersi in sede di verifica degli
ammanchi di cassa e, quindi, senza individuare quale sarebbe stata in concreto l’azione
doverosa dolosamente omessa di cui l’imputato dovrebbe rispondere. Ciò infine a
tacere del fatto che, una volta accertato l’espediente utilizzato dal tesoriere per far
apparire al momento dei controlli l’effettiva corrispondenza tra la valuta disponibile e i
saldi contabili, la Corte territoriale non ha spiegato per quale ragione egli avrebbe
avuto la necessità che il ragioniere del comune svolgesse tali controlli in maniera
compiacente.
3.5 Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza dell’art. 479 c.p.
in relazione all’art. 166 r.d n. 297/1911 e correlati vizi della motivazione della

inammissibilità della sua costituzione di parte civile resa dal Tribunale con la sentenza

sentenza, evidenziando come, in forza della norma speciale menzionata (ancora
vigente all’epoca dei fatti) il potere/dovere di procedere alle verifiche di tesoreria
spettasse al sindaco, solo assistito a tal fine dal ragioniere comunale, il quale dunque
non poteva ritenersi investito direttamente della responsabilità delle medesime. Al
Pagano dunque non poteva contestarsi la falsità dei verbali di controllo per la semplice
ragione che egli non era giuridicamente il titolare del potere di verifica. Non di meno la
Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere ideologicamente falsi i suddetti verbali,

riguardava esclusivamente la corrispondenza tra la giacenza di cassa evidenziata dal
tesoriere tesoriere e quella contabile risultante dalle scritture dell’amministrazione e
che pertanto, in assenza dei modelli 56T ovvero in presenza dei soli saldi del conto del
comune presso la Tesoreria provinciale della Banca d’Italia, non era possibile effettuare
controlli ulteriori rispetto a quelli certificati dai verbali ritenuti inveritieri.

4. Il ricorso del Tafuro (già sindaco del comune di Boscoreale) articola tre motivi.
4.1 Con il primo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 578 e 597 c.p.p. in merito
alla condanna del Tafuro, in solido con i coimputati, alla refusione delle spese sostenute
nel grado dalla parte civile Italgest, rilevando come il Tribunale avesse dichiarato
prescritti i reati contestati all’imputato (seppure erroneamente non essendo all’epoca
ancora maturata la causa estintiva) e come dunque non si fosse coerentemente
pronunziato sulla pretesa risarcitoria avanzata dalla sunnominata Italgest nei confronti
dell’imputato. Posto che la sentenza era stata appellata dal solo imputato in relazione
alla sua posizione (?), la pronunzia sulle spese di parte civile nei confronti del Tafuro
costituirebbe dunque una illegittima reformatio in peius della sentenza di primo grado,
peraltro in assenza di condanna del Tafuro al risarcimento del danno in favore della
stessa parte civile.
4.2 Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 129 c.p.p. e correlati vizi
motivazionali della sentenza impugnata in merito al mancato accoglimento del motivo
d’appello sulla inconfigurabilità del concorso del Tafuro ex art. 40 cpv. c.p. nel reato di
peculato e sull’illogicità della tesi accusatoria che lo vorrebbe concorrente con la
moltitudine di funzionari comunali succedutisi nel corso del suo mandato.
4.3 Con il terzo motivo il ricorrente censura ulteriormente la motivazione della sentenza
sotto diversi profili:
– innanzi tutto la Corte territoriale avrebbe omesso qualsiasi vaglio critico sulle
dichiarazioni del Chiacchio poste a fondamento della decisione del Tribunale,
nonostante l’inattendibilità del dichiarante fosse stata certificata dalla sentenza
assolutoria pronunziata dal G.i.p. di Torre Annunziata – acquisita agli atti tanto che i
giudici napoletani vi avrebbero attinto per inferirne alcune circostanze fattuali – nel
procedimento nato dalle sue dichiarazioni;

atteso che, ai sensi del menzionato art. 166, l’oggetto delle verifiche bimestrali

- in secondo luogo la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nella misura in cui
per un verso ha riconosciuto la confusione e l’incompletezza della contabilità comunale
e per l’altro da tale circostanza non ha tratto dubbio alcuno sull’attendibilità della
consulenza tecnica svolta su tali dati contabili, peraltro non considerando che le
doglianze difensive sul punto riguardavano il fatto che i consulenti del pubblico
ministero avessero restituito la suddetta contabilità agli uffici comunali perché
provvedessero a completarla – il che di per sé sarebbe un’anomalia in grado di inficiare

ebbero poi a testimoniare nel corso del dibattimento di primo grado di aver ricostruito
in maniera approssimativa i dati contabili per il cattivo stato di conservazione dei
registri e dei documenti di appoggio;
– la Corte napoletana avrebbe poi travisato la lettera – costituente prova a discarico con cui il sindaco di Boscoreale aveva contestato al tesoriere le irregolarità della sua
gestione, erroneamente attribuendola non già al Tafuro – che invece ne era stato
l’effettivo autore – bensì al suo successore;
– ulteriore doglianza riguarda l’omessa valutazione del meccanismo ordito dal Chiacchio
per far sempre risultare in sede di verifica la corrispondenza tra il suo saldo di cassa e
quello contabile calcolato dalla ragioneria comunale e della difficoltà per il Tafuro docente di educazione fisica – di accorgersi della mera apparenza di tale
corrispondenza, tanto più in ragione del fatto che i modelli 56T – contenenti gli estratti
conto giornalieri dell’effettiva consistenza del fondo cassa del comune nel proprio conto
presso la Tesoreria Provinciale – attraverso i quali le manipolazioni del tesoriere
potevano essere svelate venivano trasmessi non al sindaco, ma alla ragioneria;
– infine il ricorrente lamenta che sarebbe stato travisato o ignorato l’effettivo contenuto
della verifica straordinaria del 13 dicembre 1993, la quale, secondo quanto confermato
dal consulente di parte e dal ragioniere comunale, costituiva il “passaggio di cassa” dal
Tafuro al suo successore alla data del 30 giugno dello stesso anno ( e cioè al momento
della successione), talchè tale verifica non poteva riguardare la gestione del secondo
semestre di quell’anno, cui pure si riferisce la contestazione mossa all’imputato, il quale
sarebbe intervenuto alla sua esecuzione solo per sottoscrivere il passaggio di consegne
con il suo successore, ma senza essere più titolare di alcun potere di controllo sui conti.

5. Con il ricorso presentato nell’interesse dello Staiano (sindaco del Comune di Pompei)
vengono proposti tre motivi.
5.1 Con il primo il ricorrente deduce l’errata applicazione della legge penale sostanziale
e correlati vizi motivazionali della sentenza impugnata. In proposito si lamenta che la
Corte territoriale, pur non ricostruendo la responsabilità dell’imputato ai sensi del
capoverso dell’art. 40 c.p. (come aveva invece fatto il giudice di primo grado), ha
configurato il concorso morale dello Staiano nel reato di peculato commesso dal

il risultato della prova tecnica – e che i funzionari i quali provvidero in conseguenza

tesoriere sulla base di argomentazioni generiche e prive di consequenzialità logica,
finendo, nel nome di una valutazione complessiva del compendio probatorio, per
utilizzare anche elementi palesemente a discarico ed omettendo sostanzialmente di
indicare la prova dell’effettiva causalità sul piano concorsuale delle condotte attribuite
allo Staiano, nonché della sussistenza della sua consapevole partecipazione alla
consumazione del reato. In tal senso la sentenza, pur dandone atto, non avrebbe
valutato alcune circostanze che contraddicono le conclusioni assunte e cioè che

di aver mai corrisposto denaro allo Staiano e che il comune di Pompei, durante il suo
mandato, non aveva mai pagato debiti fuori bilancio. Non di meno la Corte territoriale
avrebbe omesso anche solo di considerare che non appena eletto l’imputato aveva
insediato una commissione d’inchiesta sulla corretta gestione del servizio di tesoreria,
la quale non ha poi mai segnalato alcuna irregolarità e che tale commissione, su
proposta dello stesso Staiano, ha nominato come consulente un legale esterno
all’amministrazione al fine di evitare possibili interferenze con la sua attività da parte
dell’apparato comunale. Tutti elementi, secondo il ricorrente, logicamente incompatibili
con l’affermata adesione psicologica dello Staiano alla commissione del reato e che
invece rivelano un atteggiamento ostile del medesimo nei confronti della gestione
operata dalla Italgest. Né il dolo concorsuale dell’imputato potrebbe farsi discendere,
come invece sostenuto dai giudici d’appello, dal mancato raffronto della contabilità del
tesoriere con i modelli 56T o dalla durata dell’incarico dello Staiano. Quanto ai primi il
ricorrente sottolinea che essi venivano comunicati – e in ogni caso non al sindaco – con
ritardo rispetto all’esecuzione delle verifiche di cassa, tant’è che in occasione della
verifica del 20 marzo 1995 (l’unica il cui verbale risulti sottoscritto dallo Staiano) il
modello in questione venne trasmesso al comune solo il successivo 16 maggio. E sul
punto la Corte territoriale avrebbe altresì omesso di valutare la dichiarazione dei
consulenti tecnici (riportata nella sentenza di primo grado) per cui dall’esame dei
suddetti modelli nulla avrebbero potuto rilevare gli amministratori dei diversi comuni in
ordine alle reali movimentazioni bancarie del tesoriere; dichiarazione in palese
contraddizione con l’affermazione, peraltro apodittica, contenuta in sentenza per cui i
modelli sarebbero stati invece di agevole lettura e funzionali all’intercettazione delle
irregolarità commesse dalla Italgest. Quanto invece alla rilevanza attribuita al tempo
per cui lo Staiano ha guidato il comune di Pompei, il ricorso contesta che i giudici
d’appello avrebbero travisato i dati processuali, atteso che l’imputato, prima che le
modifiche della normativa previgente sollevassero il sindaco dalla responsabilità del
controllo sulla consistenza della cassa, aveva ricoperto la carica per meno di due anni
e, come accennato, aveva partecipato ad una sola verifica, talchè non avrebbe avuto
motivo alcuno di procedere ad un riscontro di tutti i modelli 56T pervenuti nel biennio.
Infine frutto di travisamento sarebbe altresì l’ulteriore argomento su cui è stata fondata

l’imputato aveva dimezzato il compenso del Chiacchio, che quest’ultimo aveva escluso

la responsabilità dell’imputato e cioè l’apposizione da parte della ragioneria comunale a
margine della verifica del 20 marzo 1995 dell’annotazione “somme accantonate e non
contabilizzate”, giacchè, come confermato dal suo autore in dibattimento, il suo
significato non era quello di rilevare un ammanco di cassa, bensì di contestare
l’abitudine del tesoriere di appostare anche somme relative a pagamenti per cui non
era stato ancora emesso il relativo mandato.
5.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamenta ulteriori violazioni della legge

competenza del sindaco in sede di verifica del servizio di tesoreria, evidenziando come
la disposizione contenuta nell’art. 166 r.d. n. 297/1911 (come già ricordato ancora
vigente all’epoca dei fatti in contestazione) dovesse essere interpretata alla luce degli
artt. 53 e 57 della I. n. 142/1990 e del d. Igs. n. 29/1993, norme che hanno
progressivamente marginalizzato il ruolo istituzionale del primo cittadino
nell’esecuzione dei controlli contabili ampliando contestualmente quello degli organi
tecnici comunali. Peraltro nemmeno il citato art. 166 da solo considerato avrebbe
attribuito al sindaco oneri di controllo eccedenti l’attestazione della presentazione dei
conti da parte del tesoriere e del compimento da parte degli uffici comunali delle
verifiche sulla corrispondenza tra questi e la contabilità dell’amministrazione,
inevitabilmente e per l’appunto di naturale competenza di questi ultimi. In tal senso la
Corte territoriale, ignorando l’evoluzione del quadro normativo di riferimento, avrebbe
accolto una lettura asistematica ed anacronistica dell’art. 166 menzionato, facendo così
erroneamente discendere dalla sottoscrizione del verbale di verifica l’assunzione da
parte del sindaco della responsabilità tecnico-giuridica del suo contenuto.
5.3 Con il terzo motivo il ricorrente deduce invece l’inosservanza dell’art. 185 c.p.,
contestando, in assenza della prova del concorso dell’imputato nei reati attribuitogli, la
sua condanna al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Pompei e di
Italgest. In proposito il ricorso rileva altresì, quanto al primo, che arbitrariamente i
giudici d’appello avrebbero affermato l’irrilevanza del pronunziamento della Corte dei
Conti sulla vicenda in oggetto, la quale ha escluso la responsabilità degli amministratori
e dei funzionari dell’ente locale per i danni erariali conseguenti agli ammanchi causati
da Italgest. Quanto alla seconda sottolinea invece come il patrimonio della fallita si sia
invero indebitamente arricchito in ragione degli illeciti prelievi effettuati dai suoi
responsabili, talchè alcun danno risarcibile sarebbe configurabile.
5.4 La difesa dello Staiano ha altresì depositato il 5 novembre 2012 motivi aggiunti e
memoria attraverso i quali ha provveduto all’allegazione degli atti processuali e dei
documenti menzionati nel ricorso e con i quali ha inoltre lamentato:
– con riferimento al primo motivo di ricorso, ulteriore difetto di motivazione della
sentenza in ordine alla qualificazione delle condotte contestate all’imputato, la cui
ritenuta valenza concorsuale, posto che si tratterebbe di comportamenti consumati

sostanziale e vizi motivazionali della sentenza in merito alla ricostruzione della

post delictum, avrebbe richiesto espressa dimostrazione di un preventivo accordo tra lo
Staiano e il tesoriere coerente con tali comportamenti invece omessa dalla Corte
territoriale;
– con riferimento al secondo motivo di ricorso, che la sentenza non avrebbe tenuto in
conto, nemmeno al fine di confutarla, la consulenza dell’avv. Abbamonte e la
deposizione del medesimo in ordine all’interpretazione evolutiva dell’art. 166 r.d. n.

6. Il ricorso proposto nell’interesse dell’Annunziata (sindaco del Comune di Terzigno)
articola due motivi.
6.1 Con il primo deduce plurime violazioni della legge processuale e correlati vizi della
motivazione della sentenza. In tal senso il ricorrente innanzi tutto eccepisce come la
Corte territoriale abbia, in palese violazione dell’art. 526 comma 1 bis c.p.p., posto a
fondamento del ritenuto coinvolgimento dell’imputato nel reato di peculato anche le
dichiarazioni rese dal coimputato Pagano e dall’imputato in procedimento connesso
Ranieri in fase predibattimentale, acquisite ai sensi dell’art. 513 comma 1 c.p.p. (e per
quanto riguarda quelle del Ranieri invero sine titulo) in quanto gli stessi si erano
sottratti all’esame dibattimentale, ma non per questo utilizzabili anche nei confronti
dell’Annunziata, che a tale acquisizione non aveva prestato il proprio consenso.
L’indebita utilizzazione delle menzionate dichiarazioni sarebbe stata peraltro
determinante nell’economia della decisione, posto che la prova a carico dell’imputato,
secondo la sentenza, si completerebbe attraverso le dichiarazioni del Chiacchio e gli
esiti delle consulenze tecniche svolte dal pubblico ministero, nonché in forza di ulteriori,
quanto imprecisate, “risultanze processuali”. Ma le prime in realtà – al di là
dell’interpretazione distorta che ne hanno fornito i giudici d’appello – pacificamente
escludono qualsiasi collusione del tesoriere con il sindaco di Terzigno o qualsivoglia
tentativo di corruzione del medesimo e comunque, una volta private dal riscontro delle
affermazioni del Pagano e del Ranieri, non sarebbero più valutabili ai sensi del terzo
comma dell’art. 192 c.p.p. Per quanto riguarda le conclusioni dei consulenti tecnici,
invece, il ricorrente evidenzia come le stesse non contengano alcuno specifico
riferimento alla posizione dell’Annunziata, né la Corte territoriale, al di là di apodittiche
affermazioni, ha saputo spiegare perché le stesse smentirebbero le doglianze difensive
in merito al raggiungimento della prova del coinvolgimento dell’imputato nel reato.
Doglianze che invero la sentenza nemmeno prenderebbe in considerazione, omettendo
di confrontarsi soprattutto con quelle prove indicate nei motivi di gravame ed indicative
del fatto che i modelli 56T non venissero esaminati dal sindaco, ma dalla ragioneria.
6.2 Con il secondo motivo il ricorrente eccepisce la carenza assoluta di motivazione
della sentenza in merito alla prova del concorso dell’Annunziata nella causazione del
danno oggetto delle statuizioni civili, atteso che l’apparato giustificativo sul punto si

297/1911.

esaurisce in un generico rinvio agli atti di causa e agli esiti delle consulenze. Difetto
motivazionale ancor più evidente con riguardo all’accoglimento della pretesa risarcitoria
di Italgest, atteso che questa si sarebbe invero arricchita grazie alle appropriazioni
oggetto della contestazione di peculato. Il ricorrente lamenta inoltre la violazione degli
artt. 576, 578 e 591 c.p.p., proponendo doglianze in tutto identiche a quelle contenute
nel secondo e terzo motivo del ricorso del Pagano e relative all’inammissibilità
dell’appello del Comune di Terzigno ed alla conseguente illegittimità dell’accoglimento

situazione di vera e propria carenza di legittimazione della parte civile appellante.

7. Il ricorso presentato nell’interesse del Vito (segretario del Comune di Terzigno),
infine, articola a sua volta due motivi.
7.1 Con il primo si deduce la carenza assoluta di motivazione della sentenza sulla
posizione dell’imputato, essendosi in tal senso la Corte territoriale limitata a rinviare
alle argomentazioni svolte affrontando quella dell’Annunziata con l’unica precisazione
che egli avrebbe trattenuto indebitamente i modelli 56T che avrebbe invece dovuto
consegnare all’ufficio di ragioneria. In proposito osserva il ricorrente come la condotta
imputata al Vito fosse invero diversa da quella attribuita al menzionato Annunziata,
esaurendosi, dopo che nel primo grado di giudizio il Tribunale aveva provveduto a
ridurre nei suoi confronti l’originaria contestazione, nel citato illecito trattenimento dei
modelli 56T e non anche nell’essere concorso allo svolgimento di verifiche compiacenti,
talchè il rinvio operato dai giudici d’appello non può ritenersi sufficiente ad assolvere
l’onere motivazionale imposto dal tenore dei motivi di gravame, nei quali peraltro si
evidenziava come i suddetti modelli riguardavano i primi tre mesi del 1997 e dunque
risultavano comunque successivi all’ultima delle appropriazioni relative al comune di
Terzigno, con la conseguenza che, a tutto concedere, al Vito poteva contestarsi di aver
impedito l’accertamento del peculato successivamente alla sua perpetrazione, ma non
già di aver offerto un contributo etiologicamente rilevante alla sua consumazione.
Peraltro, eccepisce ulteriormente il ricorrente, il rinvio alla motivazione svolta per la
posizione dell’Annunziata ha inevitabilmente comportato la trasfigurazione del fatto per
cui lo stesso è stato ritenuto responsabile, sebbene ai soli effetti civili, giacchè, come
detto, tale motivazione supportava la ritenuta condotta omissiva addebitata al sindaco,
radicalmente diversa da quella commissiva di cui era imputato il Vito, con la
conseguente violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.
7.2 Con lo stesso motivo il ricorrente eccepisce poi la violazione dell’art. 526 comma 1
bis c.p.p. e correlati difetti motivazionali della sentenza, riproponendo le censure svolte
nel primo motivo del ricorso dell’Annunziata (redatto dai medesimi difensori), mentre
con il secondo riprende le doglianze dedotte nel corrispondente motivo dello stesso
ricorso.

della pretesa risarcitoria del medesimo, precisando altresì come si versasse in una

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Nell’esame delle numerose questioni proposte con i ricorsi appare necessario dare la
precedenza ad alcune delle eccezioni di natura processuale sollevate dai ricorrenti
atteso il loro evidente carattere pregiudiziale.
1.1 Con riguardo alla violazione dell’art. 601 comma 5 c.p.p. eccepita con il primo

dell’avviso della data fissata per il giudizio d’appello ad uno dei due difensori di fiducia
dell’imputato comporta una nullità a regime intermedio che, non attenendo alla fase del
giudizio, bensì a quella degli atti preliminari, deve essere eccepita, in analogia a quanto
previsto per il procedimento di primo grado dall’art. 180 c.p.p., prima della
deliberazione della sentenza (Sez. 2, n. 44363 del 26 novembre 2010, D’Aria, Rv.
249184; Sez. Un., n. 22242 del 27 gennaio 2011, Scibe’, Rv. 249651).
1.2 Risulta dagli atti che, nel caso di specie, la Corte territoriale, avendo rilevato
l’omessa notifica del rituale avviso ad uno dei due difensori del Pagano (l’avv. Ermanno
Pelella) a causa del trasferimento del suo studio professionale, tempestivamente
eccepito già alla prima udienza del 23 febbraio 2009, abbia disposto il rinvio della
successiva udienza del 27 aprile 2009 al 3 giugno, disponendo l’acquisizione di
informazioni sul nuovo recapito del legale. La cancelleria si rivolgeva a tal fine
all’Ordine degli Avvocati di Napoli per ottenere l’indirizzo del difensore, ma senza
successo, giacchè agli atti dello stesso risultava ancora il precedente recapito presso
cui era stata tentata invano la notifica. A questo punto i giudici d’appello decidevano di
procedere oltre, ritenendo in definitiva sufficiente il tentativo di notifica effettuato e non
necessario disporre ulteriori ricerche del difensore o reiterare il tentativo di notifica in
altri luoghi, nonostante la difesa dell’imputato avesse ribadito l’eccezione sull’omessa
notifica ora riproposta con il primo motivo di ricorso.
1.3 La doglianza del ricorrente deve ritenersi fondata. Principio generale in materia di

motivo del ricorso del Pagano, deve innanzi tutto rammentarsi che l’omessa notifica

notificazione di atti ed avvisi al difensore è, infatti, che la stessa sia effettuata, ai sensi
degli artt. 167 e 157 c.p.p., mediante consegna di copia alla persona e, nei casi di
urgenza, ai sensi dell’art. 149 stesso codice. Ed in tal senso è stato ad esempio e per
l’appunto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che, prescrivendo l’art. 167
c.p.p. che per le notificazioni a soggetti diversi da quelli indicati negli articoli precedenti
si osservino le disposizioni dell’art. 157 stesso codice, le notifiche al difensore
dell’imputato non debbano essere obbligatoriamente effettuate presso lo studio del
7
difensore stesso (Sez. 4, n. 11792 del 3 novembre 1993, Palladino ed altro,4
Rv.
196605).

1.4 Il tentativo di notifica effettuato presso quello che dagli atti risultava il recapito
professionale, ancorchè integrato dall’assunzione di informazioni presso l’Ordine di
appartenenza del difensore, non può pertanto ritenersi abbia assolto l’obbligo
informativo imposto dalla legge processuale, giacchè era compito del giudice tentare la
notifica negli altri luoghi indicati nel primi due commi dell’art. 157, disponendo gli
eventuali accertamenti del caso, che certo non possono ritenersi esauriti con l’interpello
all’Ordine di cui si è detto.

notificazioni al difensore, rileva il comportamento negligente del professionista, in
quanto egli ha l’obbligo di assicurare con l’ordinaria diligenza, in costanza di mandato
difensivo, la ricevibilità delle notifiche a lui dirette, talchè l’eventuale nullità
conseguente alla loro omissione risulta sanata ai sensi dell’art. 182 comma 1 c.p.p. (ex
multis Sez. 4, n. 21734 del 11 marzo 2004, Costanzo, Rv. 228581), ma tale principio è
stato costantemente affermato da questa Corte in relazione alle notifiche/ad oggetto gli
avvisi attinenti l’incidente cautelare ovvero quelli concernenti l’udienza di convalida
dell’arresto o del fermo ed in ragione della ristrettezza e della perentorietà dei relativi
termini, stabiliti dal legislatore in ragione della sollecita tutela dello status libertatis
(Sez. 6, n. 2669 del 8 luglio 1999, Zemazka ABM, Rv. 214531; Sez. 3, n. 21401/06 del
15 febbraio 2005, Serafini, Rv. 231978; Sez. 3, n. 2893/09 del 18 dicembre 2008,
Capasso, Rv. 242171; Sez. 5, n. 37283 del 1 luglio 2010, Visone, Rv. 248637) e con
riguardo a fattispecie in cui non era in dubbio quale fosse il recapito del difensore,
bensì rilevavano gli ostacoli frapposti dallo stesso – volontariamente o per mera
negligenza – alla ricezione dell’atto. Non di meno la mancata notifica al recapito del
difensore di un avviso, anche se non addebitabile all’ufficio, non integra di per sè una
negligenza del difensore, valutabile ai fini della sanatoria della notifica, tanto più
laddove la legge processuale disciplini i rimedi per ovviare all’inefficacia del tentativo di
notifica (basterebbe peraltro, nel caso di specie, evidenziare che la Corte territoriale
nemmeno ha accertato da quanto tempo l’avv. Pelella avesse trasferito ad altro
indirizzo il suo studio professionale, né se la mancata registrazione del tramutamento
presso l’Ordine degli Avvocati di Napoli fosse o meno effettivamente addebitabile ad
una sua negligenza). Non è infatti accettabile, razionalmente e legittimamente, un
automatico giudizio di equiparazione tra inefficace tentativo di notifica al difensore-suo
comportamento negligente-sua delegittimazione ad eccepire l’omessa notifica, in
difetto di qualsiasi accertamento da parte del giudice di merito finalizzato alla
dimostrazione che la tempestività e la diligenza dell’ufficio procedente siano state
vanificate dalla insuperabile prevalenza della negligenza della difesa (Sez. 5, n. 40451
del 19 ottobre 2010, D. e altro, Rv. 248644).
1.6 Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con riguardo alla
posizione del Pagano con rinvio alla Corte di appello di Napoli per la celebrazione di un

1.5 E’ sì vero che è principio consolidato quello per cui, in tema di validità delle

nuovo giudizio di appello nei suoi confronti; atteso che l’imputato è stato condannato
anche al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituitesi nei suoi confronti,
infatti, nel caso di specie non trova applicazione il principio per cui, in presenza di una
causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità nullità di ordine
generale, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere
immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. Un., n. 35490 del 28
maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244275). Gli ulteriori motivi del ricorso del Pagano

2. Con il secondo motivo dei ricorsi dell’Annunziata e del Vito è stata eccepita
l’inammissibilità dell’appello del Comune di Terzigno e l’illegittimità della conseguente
condanna dei suindicati imputati al risarcimento dei danni in favore del medesimo.
Eccezione analoga è stata invero sollevata con il secondo e terzo motivo del ricorso del
Pagano, che, come si è detto, rimangono assorbiti dall’accoglimento del primo
pregiudiziale motivo avanzato dal ricorrente. Ciò non toglie che il giudice del rinvio
dovrà comunque attenersi ai principi di seguito affermati in relazione alla posizione dei
menzionati Annunziata e Vito in quanto refluenti anche su quella dello stesso Pagano.
2.1 Va ricordato sul punto che il giudice di prime cure aveva dichiarato “inammissibile”
con la sentenza la costituzione del menzionato Comune, in precedenza invece
ammessa, rilevandone la carenza di legittimazione ai sensi dell’art. 240 legge fall. in
ragione dell’avvenuta costituzione del curatore del fallimento della Italgest, società di
cui l’ente locale era creditore per le somme sottratte dai Chiacchio. Avverso tale
decisione proponeva appello lo stesso comune, in accoglimento del quale la Corte
territoriale, per l’appunto, condannava i ricorrenti ai fini civili ritenendo l’esclusione
della parte civile operata dal Tribunale per un verso tardiva – giacchè disposta oltre i
termini di cui all’art. 81 c.p.p. – e per l’altro illegittima, in quanto frutto di un’erronea
interpretazione della citata norma della legge fallimentare, in quanto la stessa
impedirebbe la costituzione del creditore ove vi sia stata quella della curatela
esclusivamente qualora si proceda per il reato di bancarotta fraudolenta.
2.2 In proposito va innanzi tutto ribadito che – come ritenuto nella sentenza impugnata
– effettivamente il Tribunale non avrebbe dovuto escludere il Comune di Terzigno a
causa dell’intervento nel processo della curatela fallimentare, atteso che il limite in tal
senso posto dall’art. 240 legge fall. presuppone che il procedimento abbia ad oggetto
reati fallimentari e dunque non opera quando invece si proceda per illeciti penali di
diversa natura (Sez. 2, n. 14088 del 21 marzo 2007, Tonasso e altro, Rv. 236464).
2.3 Ciò detto non può ritenersi corretto nemmeno quanto sostenuto dalla Corte
territoriale in merito alla presunta “tardività” del provvedimento di esclusione e
dunque, sostanzialmente, alla carenza di potere del Tribunale ad assumere siffatta
decisione. Infatti, corna già sottolineato da questa Corte, ai sensi dell’art. 81 c.p.p. la

rimangono dunque assorbiti, pur con le precisazioni che verranno fatte in seguito.

parte civile può essere esclusa con ordinanza solo prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento, ma, giacchè il termine ivi previsto non preclude alcuna delle possibili
pronunce sull’azione civile, l’inammissibilità della domanda proposta dalla stessa parte
può essere dichiarata anche con la sentenza che definisce il giudizio (Sez. 5, n. 14575
del 16 marzo 2005, Berretta ed altro, Rv. 231778; Sez. 3, n. 25133 del 15 aprile 2009,
Greco, in motivazione) e ciò in quanto la stabilità decisoria dell’ordinanza
dibattimentale che ammette la parte civile deve ritenersi in ogni caso provvisoria, “allo

la cui ratio è esclusivamente quella di garantire, in base ad intuitive esigenze di
economia processuale, l’ordinato e progressivo svolgimento del giudizio in presenza di
una parte eventuale, senza l’instaurazione di fasi incidentali produttive di stasi nel
processo penale. È viceversa consentito, con la sentenza di merito, il controllo da parte
del giudice dei presupposti di legittimità formale e sostanziale per l’esercizio dell’azione
civile nel processo penale – sia la

legitimatio ad causam,

sia la legitimatio ad

processum, sia l’osservanza delle formalità e dei termini prescritti dalla legge a pena
d’inammissibilità – e per il conseguente riconoscimento del “diritto” della parte civile al
risarcimento del danno (così in particolare Sez. 4, n. 6633 del 28 gennaio 2009,
Mezzino e altri, in motivazione). Né in tal modo l’esclusione posticipata della parte civile
può ritenersi ne pregiudichi i relativi diritti, atteso che alcuna statuizione viene assunta
dal giudice sul merito della sua pretesa risarcitoria e la stessa conserva intatta la
facoltà di cotivare quest’ultima dinanzi al giudice civile, come stabilito dall’art. 88 c.p.p.
2.4 Chiariti i profili illustrati, deve ritenersi che la prima delle doglianze avanzate dai
ricorrenti – e cioè quella relativa all’inammissibilità dell’appello del Comune di Terzigno
– sia fondata ed assorbente rispetto agli ulteriori profili eccepiti con i menzionati motivi
di ricorso.
2.5 Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, l’ordinanza dibattimentale di
esclusione della parte civile è sempre e definitivamente inoppugnabile, non essendone
consentita né l’impugnazione immediata ed autonoma, perché non espressamente
prevista da alcuna disposizione, né quella differita e “conglobata” con la sentenza ai
sensi dell’art. 586 c.p.p., poiché il soggetto danneggiato, una volta estromesso dal
processo, perde la qualità di parte e non è dunque legittimato ad impugnare la
sentenza che non contiene alcuna statuizione decisoria che lo riguardi in connessione
con il provvedimento dibattimentale di esclusione – il quale dunque chiude
definitivamente il rapporto processuale civile davanti al giudice penale esaurendone gli
effetti – nè l’esclusione pregiudica l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile, come
stabilito dall’art. 88 comma 2 c.p.p. (Sez. Un., n. 12 del 19 maggio 1999, Pediconi, Rv.
213858; Sez. 1, n. 4060/08 del 8 novembre 2007, Sommer e altri, Rv. 239188; Sez. 3,
n. 14332 del 4 marzo 2010, PC in proc. c/ignoti, Rv. 246609; Sez. 7, n. 10880/13 del
11 ottobre 2012, p.c. in proc. Restivo, Rv. 255150).

stato degli atti”, idonea perciò a giustificare una limitata preclusione endoprocessuale,

2.6 E’ sì vero che nel caso di specie l’esclusione della parte civile è stata disposta con la
sentenza e non con ordinanza dibattimentale, ma, una volta richiamati i principi sopra
illustrati in merito alla persistenza del potere di verifica del giudice sulla sussistenza dei
presupposti di ammissibilità della costituzione, non è ragionevole ritenere che solo per
questo la stessa acquisti il potere di impugnare, fuori dai casi espressamente previsti
dall’art. 576 c.p.p., un provvedimento che, in parte qua, ha il medesimo contenuto e
funzione dell’ordinanza avverso la quale non gli è attribuito alcun mezzo di gravame.

orientamento secondo cui dovrebbe ritenersi ammissibile il ricorso per cassazione della
parte civile avverso il capo della sentenza d’appello con il quale, in accoglimento di
specifico gravame proposto dall’imputato, sia stata disposta l’esclusione della
medesima dal processo e l’eliminazione delle statuizioni disposte in suo favore con la
decisione di primo grado (Sez. 1, n. 11925 del 26 febbraio 2003, Addesi, Rv. 223680;
Sez. 4, n. 4101/13 del 6 dicembre 2012, P.C. in proc. Picozza e altro, Rv. 255264).
Orientamento secondo il quale, nella fattispecie descritta, non potrebbe trovare, infatti,
applicazione il principio della inoppugnabilità delle ordinanze che escludono o
ammettono la costituzione di parte civile e, nel caso della esclusione, anche della
sentenza emessa all’esito del relativo procedimento, dal momento che detto principio
non potrebbe operare se non nel presupposto che l’esclusione sia stata disposta,
appunto, con un’ordinanza e non invece con la sentenza, così come necessariamente
avviene quando, sulla presenza della parte civile nel processo, ammessa nel giudizio di
primo grado conclusosi con la condanna dell’imputato, sia stata da quest’ultimo
formulata apposita doglianza al giudice d’appello. Ma tale interpretazione non può
essere estesa alla fattispecie in discussione, come invece sostanzialmente suggerito dal
PG in sede di discussione, in ragione della radicale differenza della situazione
processuale a cui si riferisce. Infatti nel caso in decisione, a causa dell’estromissione dal
processo disposta dal Tribunale già nel primo grado di giudizio, il Comune di Terzignano
aveva perduto la sua qualità di parte – e, conseguentemente, qualsiasi legittimazione
all’impugnazione della sentenza che ha concluso il primo grado di giudizio – senza che
venisse decisa la richiesta risarcitoria avanzata nel processo penale, al contrario di
quanto avvenuto in quello oggetto delle ricordate pronunzie, dove la parte civile era
legittimata all’appello avverso la sentenza di primo grado che invece su tale richiesta si
era pronunziata.
2.8 Conclusivamente sul punto deve dunque ritenersi che, come eccepito dai ricorrenti,
l’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva estromesso il
Comune di Terzignano fosse inammissibile e che pertanto l’impugnazione non avesse
devoluto alla Corte territoriale alcuna cognizione sulla pretesa risarcitoria avanzata nei
confronti degli imputati, con la conseguente illegittimità delle statuizioni assunte in
proposito dai giudici d’appello. La sentenza oggetto di ricorso deve essere pertanto

2.7 II Collegio non ignora che esiste nella giurisprudenza della Corte anche un

annullata senza rinvio limitatamente alla condanna generica dell’Annunziata e del Vito
al risarcimento del danno in favore del sunnominato &mune, nonchè a quella della
rifusione delle spese sostenute dal medesimo nei due gradi del giudizio di merito.

3. Venendo alle altre censure avanzate dai ricorrenti, fondate risultano, nei limiti di
seguito esposti, le censurqhosse con il primo motivo del ricorso dello Staiano alla
ivazione della sentenza in punto di responsabilità dell’imputato.
e territoriale ha assunto come prova dell’addomesticamento delle verifiche

di tesoreria d. sarte di tutti gli imputati indistintamente, anche il fatto che essi abbiano
dolosamente tras rato di svolgere i controlli sulla corrispondenza tra la contabilità dei
rispettivi comuni e ‘ uella del tesoriere alla luce delle risultanze dei modelli 56T e cioè
dei documenti trasm ssi agli enti locali dalla Banca d’Italia e riepilogativi dei saldi del
periodo di riferimento delle contabilità speciali dei singoli comuni aperte presso la
sezione di tesoreria pro ciale dello Stato di Napoli ai sensi dell’art. 1 della I. n.
ne accolta dai giudici di merito, è sì vero che tali
documenti non avrebbero consen o l’accertamento dell’effettiva movimentazione delle
citate “contabilità” – atteso che all’uo o sarebbe stato necessario disporre altresì dei
modelli Tesun (il modello sintetico inviato

Ila Banca d’Italia al ragioniere comunale e

ad oggetto i movimenti giornalieri), nonché de

odelli 62C (il modello finalizzato alla

compensazione giornaliera delle operazione in dare

avere compiute dal tesoriere a

seguito delle reversali di incasso e dei mandati di pagamen 6 messi dai comuni) – ma
ciononostante la loro “lettura” permetteva di evidenziare come il’ -toale contabile non
corrispondesse storicamente a quanto realmente in cassa, circostanz-che doveva
impedire di concludere le verifiche positivamente, come invece avvenuto (pp. 29 – 31,
43 e 57 della sentenza).
3.2 I giudici napoletani hanno altresì precisato la rilevanza dei modelli 56T anche a
fronte dell’obiezione sollevata dalle difese circa il fatto che gli stessi, di frequente,
venivano trasmessi in ritardo, non risultando dunque disponibili all’atto della verifica sul
segmento di gestione cui i medesimi si riferivano. Obiezione che la sentenza ha ritenuto
non decisiva, osservando come in ogni caso la lettura anche tardiva dei modelli
avrebbe normalmente allarmato gli amministratori in ordine alla condotta del tesoriere,
provocando un’incisiva reazione in occasione delle successive verifiche. L’assenza di
tale reazione nella consapevolezza del contenuto dei modelli ricevuti in precedenza (e
quindi della reale situazione della cassa dei singoli comuni) è dunque per la Corte
territoriale prova indiretta della volontà degli imputati di agevolare le condotte
criminose consumate dai Chiacchio (p. 30 della sentenza).
3.3 II ragionamento seguito dai giudici d’appello è tutt’altro che illogico nel contesto
probatorio che caratterizza la posizione di alcuni degli imputati, ma si fonda su
premesse che collidono con la particolare vicenda dello Staiano, così come accertata

3.1 La

dalla stessa sentenza. Ed infatti è pacifico che egli sia stato ritenuto responsabile del
concorso nel reato di peculato commesso ai danni del Amune di Pompei in ragione
della sua esclusiva partecipazione alla verifica del 20 marzo 1995, circostanza che
appare palesemente in contraddizione con il significato probatorio attribuito ai modelli
56T dalla Corte territoriale, che pure li ha richiamati a sostegno del giudizio sulla
sussistenza in capo all’imputato del dolo del reato contestatogli. E ciò a maggior
ragione nel difetto di qualsiasi chiarimento sulla effettiva disponibilità dei suddetti

consapevolezza da parte dell’imputato del contenuto di quelli in precedenza inviati al
comune di Pompei e sulla divergenza dei dati in essi contenuti rispetto alle risultanze
contabili del tesoriere.
3.4 Invero i giudici di prime cure avevano collegato il giudizio di responsabilità dello
Staiano al fatto che egli, dopo aver assunto all’inizio del suo mandato un atteggiamento
rigoroso nei confronti della gestione della tesoreria, non avesse poi dato seguito ai
sospetti che evidentemente coltivava, limitandosi ad una approvazione fin troppo
formale della verifica cui aveva partecipato. Tale linea argomentativa denunziava palesi
limiti, atteso l’elevato coefficiente congetturale che la caratterizzava, ed infatti la Corte
territoriale l’ha parzialmente sostituita, valorizzando la circostanza che, nella costanza
del mandato dello Staiano, il Comune di Pompei ottenne una anticipazione dal tesoriere
per far fronte al pagamento di un debito contratto con la Cassa Depositi e Prestiti non
avendo risorse finanziarie sufficienti all’uopo. Ancora i giudici d’appello hanno
sottolineato come proprio la verifica del 20 marzo 1995 avesse evidenziato come in
realtà il fondo cassa fosse composto da somme accantonate e non ancora
contabilizzate (sembrerebbe di comprendere perché non ancora intervenuti i relativi
mandati di pagamento) e da depositi provvisori presso la tesoreria comunale. Ma la
sentenza non ha poi spiegato perché tali elementi convergerebbero inequivocabilmente
nel comprovare la consapevolezza dell’imputato della falsità degli esiti della verifica.
3.5 E la sentenza impugnata difetta altresì di specifica e doverosa motivazione sulle
circostanze indicate dal ricorrente e comprovanti un atteggiamento in qualche modo

modelli all’atto della verifica (peraltro negata dal ricorrente) ovvero sull’effettiva

z

ostile dell’imputato nei confronti del tesoriere, come del resto rivelato anche da
quest’ultimo. E’ sì vero – come pure ricordato dalla Corte territoriale – che a fronte

della prova del dolo del reato è irrilevante la mancanza di quella del movente, ma ciò

non toglie che le circostanze menzionate non appaiono neutre proprio ai fini
dell’accertamento del dolo, posto che, come detto, oggetto di contestazione è la

partecipazione dello Staiano ad una sola verifica. E’ possibile che, come

apoditticamente affermato in origine dal Tribunale, l’imputato avesse “ammorbidito” la

sua posizione verso la gestione della tesoreria, ma che ciò sia stato dolosamente
preordinato a garantire copertura alle malefatte della Italgest, piuttosto che il frutto di

un comportamento negligente, è esattamente ciò che i giudici di merito dovevano

dimostrare e che invece non hanno fatto: il Tribunale limitandosi a trasformare l’ipotesi
nella sua stessa prova, la Corte territoriale omettendo di motivare sulle ragioni perché
gli elementi fattuali selezionati consentirebbero razionalmente di scartare conclusioni
diverse da quelle raggiunte nel contesto probatorio dato e complessivamente
considerato. Ma, come eccepito nel primo dei motivi aggiunti dello Staiano, le due
sentenze di merito hanno anche omesso di motivare sulla effettiva iscrivibilità della
condotta attribuita all’imputato nel paradigma concorsuale del reato di peculato

necessario stabilire in che momento avrebbe poi deciso di aderire al reato,
“evidentemente prima della sua realizzazione” (per come ricordato da Sez. 6, n. 10813
del 22 settembre 1994, Di Giovanni, Rv. 199925, pure richiamata nella sentenza
impugnata), atteso che la verifica del 20 marzo 1995 è intervenuta invece solo dopo la
sottrazione delle somme contestate dalla cassa comunale ed era quindi compito dei
giudici dell’appello chiarire come e perché l’eventuale volontarietà di omettere i
doverosi controlli fosse dimostrativo dell’originario intento di concorrere con gli altri
responsabili.
Anche con riguardo alla posizione dello Staiano la sentenza deve dunque essere
annullata con rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuovo esame, rimanendo in tal
modo assorbite le ulteriori doglianze avanzate con il suo ricorso, salvo quanto si dirà
nel prosieguo con riguardo alle statuizioni civili adottate in favore del fallimento Italgest
s.p.a.

4. Parimenti fondati sono il primo motivo del ricorso del Vito, nei limiti in cui lamenta il
difetto di motivazione sulla effettiva valenza concorsuale della condotta attribuita
all’imputato, nonché le doglianze avanzate con il ricorso dello Squitieri, del Vitiello, del
Gallo e del Di Paolo in merito al difetto di motivazione della sentenza sul significato
delle appostazioni degli accantonamenti non contabilizzati.
4.1 All’esito della sensibile riduzione operata dal giudice di primo grado dell’originaria
contestazione mossa nei confronti del Vito, questi è stato infatti ritenuto responsabile
del concorso nel reato di peculato in ragione dell’illecito occultamento dei modelli 56T
pervenuti al comune di Terzigno nei primi tre mesi del 1997 e relativi ai saldi della
contabilità speciale dell’ente locale fino al dicembre dei 1996. In proposito la
motivazione della sentenza rinvia sostanzialmente a quanto illustrato in precedenza per
la posizione dell’Annunziata. Soluzione con la quale la Corte territoriale non ha certo
inteso addebitare all’imputato il medesimo fatto contestato a quest’ultimo in violazione
del principio di correlazione – come frettolosamente (e infondatamente) eccepito dalla
difesa – ma che in ogni caso non consente di comprendere per quale motivo il
comportamento dell’imputato (pacificamente posto in essere dopo la consumazione del
peculato) possa ritenersi un contributo causalmente rilevante alla commissione del

contestatogli. Infatti se egli, almeno inizialmente, aveva osteggiato il Chiacchio, era

reato o sia indicativo della volontà del Vito di concorrere nello stesso già prima della
sua commissione, replicando in tal modo l’evidente vizio che affliggeva sul punto la
pronunzia di primo grado (v. p. 70 della sentenza del Tribunale). Infatti le pagine della
sentenza dedicate all’Annunziata non chiariscono tale profilo, limitandosi a descrivere le
condotte tenute dal Vito successivamente all’ultima verifica di cassa oggetto di
imputazione, senza per l’appunto specificare la loro rilevanza ai fini della configurabilità
della fattispecie concorsuale contestata all’imputato.

Corte territoriale (p. 57 della sentenza) ha in maniera apodittica affermato
(richiamando in maniera eccessivamente generica le conclusioni dei consulenti
dell’accusa) che le appostazioni degli accantonamenti non contabilizzati risultavano
funzionali all’occultamento degli indebiti prelievi del tesoriere, senza invero spiegare
effettivamente le ragioni di tale conclusione e soprattutto quelle per cui
necessariamente gli imputati avrebbero dovuto rilevare la circostanza, con la
conseguente rilevanza ai fini della configurabilità del dolo concorsuale in capo ai
medesimi dell’omesso rilievo.
4.3 L’accoglimento delle illustrate doglianze comporta, nei limiti esposti, l’annullamento
della sentenza con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Napoli e
l’assorbimento delle ulteriore censure avanzate dai suindicati imputati con i rispettivi
ricorsi, salvo quanto subito si dirà, con riguardo a quanto dedotto dal Vito in merito alle
statuizioni civili relative alle pretese avanzate dalla curatela Italgest.

5. Fondata è altresì la specifica doglianza dedicata nel primo motivo del ricorso
dell’Annunziata all’interpretazione delle dichiarazioni rese su quest’ultimo da Chiacchio
Umberto assunta dalla Corte territoriale. Per stessa ammissione dei giudici d’appello il
Chiacchio, interrogato sui suoi rapporti con l’imputato aveva sostanzialmente evitato di
rispondere invocando il risalente legame personale che lo univa al medesimo.
Certamente il dichiarante non ha escluso – come invece fatto ad esempio a proposito
dello Staiano – rapporti illeciti con l’imputato, ma nemmeno li ha esplicitamente
ammessi, risultando del tutto arbitrario inferire dalle sue ambigue e generiche parole
(riportate in sentenza) la prova di un accordo con l’imputato ad oggetto la gestione
disinvolta del servizio di tesoreria, come invece hanno fatto i giudici d’appello.
La manifesta illogicità della motivazione sul punto comporta anche in questo caso il suo
annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuovo esame della posizione
dell’imputato. Rimangono conseguentemente assorbite le ulteriori doglianze sollevate
con il suo ricorso (salvo sempre quanto si dirà in merito alle statuizioni civili relative a
Italgest), ma nel valutare l’eventuale sufficienza degli altri elementi posti a carico
dell’Annunziata il giudice di rinvio – qualora ritenga di fondarvi la prova di
responsabilità – dovrà altresì verificare l’effettiva utilizzabilità nei suoi confronti (invero

4.2 Quanto alla posizione degli altri imputati indicati sub 4 deve evidenziarsi che la

contestata dal ricorrente ed altresì dal Vito) delle dichiarazioni rese dal Pagano e dal
Ranieri menzionate dalla sentenza impugnata.

6. Fondata è infine la doglianza avanzata con il terzo motivo del ricorso dello Staiano in
merito all’inconfigurabilità del danno lamentato dalla parte civile Italgest e al correlato
difetto di motivazione della sentenza impugnata, con la quale è stata confermata la
condanna generica degli imputati al suo risarcimento, questione che è stata sollevata

censura dedotta dai suddetti ricorrenti deve peraltro ritenersi giovi, ai sensi dell’art.
587 c.p.p., altresì allo Squitieri, al Vitiello, al Gallo e al Di Paolo e comunque il giudice
del rinvio è chiamato a tenerne conto anche nel nuovo giudizio d’appello disposto nei
confronti del Pagano.
6.1 In proposito deve rammentarsi che, ai fini della pronuncia di condanna generica al
risarcimento dei danni in favore della parte civile non è necessario che il danneggiato
provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione
dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente
produttivo di conseguenze dannose, atteso che la suddetta pronuncia costituisce una
mera declaratoria juris da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla
stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (Sez. 6, n.
12199 del 11 marzo 2005, Molisso, Rv. 231044; Sez. 6, n. 14377 del 26 febbraio 2009,
Giorgio e altri, Rv. 243310).
6.2 Sebbene entro questi limiti è comunque onere del giudice del merito spiegare le
ragioni della prospettabilità in concreto – e non già meramente in astratto come
affermato dalla Corte territoriale e come invece sufficiente ai fini della valutazione della
legittimazione della parte civile a costituirsi nel processo penale – del danno cui la
condanna si riferisce, alla luce dell’ulteriore e consolidato principio per cui
l’affermazione della penale responsabilità comporta per l’imputato la responsabilità
civile per il danno ex delicto che è conseguenza necessaria dell’evento stesso (Sez. 5,
n. 43363 del 21 ottobre 2010, Mameli, Rv. 248952).
6.3 In tal senso allora la laconica motivazione offerta in proposito dalla Corte
territoriale a p. 57 della sentenza non può ritenersi sufficiente, atteso che la stessa si
risolve nella apodittica imputazione del fallimento di Italgest alle conseguenze del
reato, senza chiarire perché le illecite appropriazioni effettuate dai Chiacchio non si
siano risolte invece in un arricchimento, seppure illecito, per la società. In particolare
ciò che non è stato chiarito è se il fallimento sia stato causato dalla perdita degli appalti
di tesoreria ovvero se ne sia stata la causa e ciò anche alla luce dell’ambiguo
riferimento all’altra voce di danno individuata dai giudici d’appello e cioè la perdita del
“prestigio” della società, la cui genericità, anche nell’ottica della potenziale
determinazione di un danno, appare fin troppo marcata.

anche con il secondo motivo dei ricorsi dell’Annunziata e del Vito. L’accoglimento della

Anche sotto questo profilo la sentenza impugnata deve dunque essere annullata con
rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuovo esame.

7. Il ricorso del Tafuro è invece infondato al limite dell’inammissibilità, salvo per quanto
si dirà nel prosieguo.
7.1 In proposito deve ricordarsi che la sentenza di primo grado non conteneva
statuizioni civili nei suoi confronti, in quanto il Tribunale aveva prosciolto l’imputato

territoriale era dunque tenuta nel suo caso ad esaminare i motivi d’appello ai limitati
fini segnati dalla regola di giudizio contenuta nell’art. 129 c.p.p., secondo cui – come
insegnato dalle Sezioni Unite – il giudice è legittimato a far prevalere l’assoluzione nel
merito soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la
commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano
dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che lo stesso
giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia
di percezione ictu ocu/i, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con
qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. Un., n. 35490 del 28
maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244274).
7.2 Alla luce dei richiamati principi il secondo ed il terzo motivo del ricorso risultano
dunque e per l’appunto infondati, in quanto evocano difetti della motivazione della
sentenza senza precisare la decisività, nell’ottica sopra descritta, delle circostanze
oggetto di censura e pervero senza nemmeno tenere conto dell’effettivo tenore della
suddetta motivazione, com’è nel caso della lettera ad oggetto i rilievi sulla gestione di
tesoreria, che la Corte territoriale non ha negato essere stata sottoscritta dal Tafuro,
ma semplicemente ne ha attribuito la redazione non ad una sua spontanea iniziativa,
ma all’impegno del nuovo ragioniere comunale. Peraltro il contenuto delle dichiarazioni
del Chiacchio riportato in sentenza e le considerazioni svolte dalla stessa sull’omessa
utilizzazione dei modelli 56T in sede di verifica appaiono elementi logicamente
sufficienti a sostenere la valutazione effettuata dai giudici d’appello sul difetto di
evidenza dell’innocenza dell’imputato.
7.3 Fondato è invece il primo motivo del ricorso del Tafuro, atteso che erroneamente e probabilmente per mera svista – gli è stata imposta dalla Corte territoriale la
refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Italgest, nonostante egli non
sia stato condannato nel primo grado di giudizio al risarcimento del danno in favore di
quest’ultima, avendo, come già ricordato, il Tribunale dichiarato l’estinzione per
prescrizione dei reati che gli erano stati contestati.
La sentenza deve essere dunque annullata senza rinvio limitatamente a tale condanna.

rilevando l’intervenuta estinzione per prescrizione dei reati contestatigli. La Corte

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Pagano Aldo Franco con rinvio ad altra
sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo giudizio.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di Annunziata Giuseppe e Vito
Gaetano, limitatamente alle statuizioni civili relative alla parte civile Comune di Terzigno
che elimina, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli nel resto per

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di Tafuro Giacomo
limitatamente alla condanna del medesimo in solido alla refusione delle spese di grado
d’appello della parte civile Italgest s.p.a. che elimina e rigetta nel resto il ricorso dello
stesso.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Staiano Sandro, Squitieri Tobia, Di Paolo
Vincenzo, Gallo Francesco e Vitiello Carmine con rinvio ad altra sezione della Corte
d’appello di Napoli per nuovo esame.
Così deciso il 17/7/ 013

nuovo esame.

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