Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 44134 del 25/09/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 4 Num. 44134 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: ZOSO LIANA MARIA TERESA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FALCO FERNANDO N. IL 04/11/1959
nei confronti di:
MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza n. 56/2013 CORTE APPELLO di ROMA, del
26/09/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LIANA MARIA TERESA
ZOSO;
lette/s
le conclusioni del PG Dott. -FL.,-Q o
■itA

p CA-Q.,e,

A.;

_

Data Udienza: 25/09/2014

Ritenuto in fatto

Con istanza depositata il 16 aprile 2013 Falco Fernando, a mezzo del proprio difensore,
chiedeva la riparazione per l’ingiusta detenzione agli arresti domiciliari subita dal 24 maggio al
13 giugno 2005 a seguito dell’ordinanza emessa il 3 maggio 2005 dal gip di Verona in relazione
al delitto di corruzione continuata ed in concorso. All’esito del giudizio di primo grado svoltosi

per insussistenza del fatto e la pronuncia era divenuta irrevocabile il 31 ottobre 2012.
Secondo l’imputazione Fernando Falco, ufficiale dell’esercito in servizio al ministero della
difesa-direzione generale del commissariato e dei servizi generali, aveva ricevuto da Paolo
D’Urso e da Agostino Rossi, rispettivamente direttore generale e dipendente della Gama
S.p.A., la promessa di importi di denaro non quantificati per far ottenere alla medesima ditta
l’aggiudicazione di alcuni lotti della gara d’appalto indetta dalla direzione generale. Si trattava
della gara afferente il servizio di vettovagliamento di enti, distaccamenti e reparti della difesa
che si era svolta con licitazione privata il 12 marzo 2003 con l’aggiudicazione dei lotti da parte
di Gama s.p.a.. L’appalto non era stato, tuttavia, assegnato alla ditta medesima perché essa
era risultata non essere in regola sul piano contributivo e fiscale. A carico del Falco vi era la
parola del D’Urso, imputato di reato connesso, ed alcune intercettazioni telefoniche.
Il tribunale era pervenuto alla pronuncia della sentenza di assoluzione non avendo rinvenuto
specifici riscontri alle accuse di D’Urso e ritenendo che il tenore delle telefonate intercettate
non fosse inequivoco in ordine al fatto che il Falco si fosse effettivamente adoperato per far
vincere l’appalto alla Gama S.p.A. e neppure in ordine alla promessa di somme di denaro.
La Corte d’Appello di Roma, investita dell’istanza di riparazione per ingiusta detenzione, con
ordinanza del 26 settembre 2013 rigettava la domanda proposta rilevando che Fernando Falco
aveva posto in essere comportamenti che concretavano colpa grave ostativa al riconoscimento
dell’equo indennizzo. In particolare, l’istante aveva concorso in modo gravemente colposo alla
emissione della misura cautelare applicata nei suoi confronti poiché aveva svolto assidua
attività di impropria e censurabile consulenza in favore dei dipendenti di un’azienda che era
coinvolta nell’assegnazione di appalti da parte della stessa amministrazione per la quale egli,
all’epoca, svolgeva funzioni che gli permettevano di avere notizie utili e di seguire le tappe
della stessa, mentre avrebbe dovuto evitare ogni tipo di contatto e mantenere la doverosa
distanza nei confronti di tutti i concorrenti. Tale comportamento aveva condizionato il
convincimento del giudice all’atto della valutazione dei presupposti della misura cautelare.
Peraltro l’autonomia tra il procedimento penale principale a quello che aveva portato alla
richiesta d’indennizzo ex articolo 314 c.p.p. permetteva la valutazione distinta degli elementi
oggettivi che avevano condotto alla custodia cautelare agli arresti domiciliari e, se il giudice del

innanzi al tribunale di Roma, il 7 maggio 2012 era stata pronunciata sentenza di assoluzione

merito aveva escluso la sufficienza del quadro probatorio per giungere alla sentenza di
condanna, si ravvisava tuttavia grave colpa nella condotta del Falco che era preclusiva della
riparazione.
Avverso l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione Fernando Falco svolgendo due motivi di
doglianza.
Con il primo motivo deduceva vizio di motivazione ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera

tribunale della libertà aveva revocato la misura custodiale ritenendo insussistenti le esigenze
cautelari di cui all’articolo 274 c.p.p. in quanto, in particolare, aveva ritenuto insussistenti il
concreto pericolo di inquinamento probatorio ed il pericolo di reiterazione del reato. L’ordinanza
del gip di Verona, quindi, era viziata non solo sotto l’aspetto dell’ingiustizia sostanziale di cui al
primo comma dell’articolo 314 c.p.p. ma anche sotto il profilo dell’ingiustizia formale di cui al
secondo comma dell’articolo medesimo. L’ordinanza impugnata, secondo il ricorrente, era
motivata in modo carente in quanto la Corte d’Appello non aveva valutato se la condotta posta
in essere dal Falco fosse stata condizionante dell’adozione della misura custodiale. Inoltre la
Corte d’appello aveva censurato la familiarità dei rapporti del Falco con gli altri imputati
mentre in altra parte della sentenza aveva spiegato che le ragioni dei contatti telefonici
intercorsi con Rossi e D’Urso erano dovuti al fatto che il Rossi era suo compagno di scuola e
d’Urso aveva sposato la di lui sorella. Dunque, proprio in ragione di tali rapporti di amicizia
d’Urso aveva chiesto informazioni circa le modalità di svolgimento della gara. E le notizie date
dal tenente colonnello Falco non erano riservate e potevano essere richieste al competente
ufficio da chiunque fosse interessato alla gara. La corte d’appello avrebbe dovuto accertare
quali fossero gli elementi a disposizione del giudice della cautela nel momento dell’applicazione
della misura e quelli su cui si era basato il tribunale del riesame nel revocarla poiché, secondo
l’orientamento della corte di legittimità, quando il gip era oggettivamente nelle condizioni di
negare o revocare la misura era da escludersi la ravvisabilità dell’efficienza causale da parte
del soggetto. E ciò in quanto la rilevanza della condotta ostativa si misurava non
sull’influenzabilità del singolo giudice bensì sull’idoneità a indurre in errore la struttura
giudiziaria preposta alla trattazione del caso.
Con il secondo motivo di doglianza

il ricorrente deduceva l’inosservanza e l’erronea

applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche ex articolo 606, comma 1, c.p.p. in
relazione agli articoli 2, 13,24 comma quarto, 27 Costituzione e degli articoli 314 e 274 c.p.p..
Invero l’articolo 314 c.p.p., al primo comma, riconosce il diritto alla riparazione collegandolo al
semplice dato del definitivo proscioglimento con ampia formula escludendo il diritto stesso solo
in presenza di una condotta dolosa o gravemente colposa del soggetto causativa della custodia
stessa. La giurisprudenza aveva allargato il concetto di colpa ricomprendendovi qualsiasi
comportamento ambiguo tenuto dall’accusato tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria. Di

e, c.p.p. in relazione all’articolo 546, comma 1,1ettera e c.p.p.. Assumeva il ricorrente che il

tale principio aveva fatto applicazione la corte d’appello rigettando la domanda di riparazione.
Invece, secondo il ricorrente, la colpa grave non poteva coincidere né con gli indizi di
colpevolezza che avevano dato causa al processo né con i gravi indizi di cui all’articolo 273
c.p.p. ed occorreva che il soggetto avesse tenuto una condotta dolosa o gravemente colposa
connotata da negligenza, imprudenza, violazione di norme tale da aver dato luogo alla
detenzione con un rapporto di causa ad effetto.
Il procuratore generale concludeva per il rigetto del ricorso rilevando che i plurimi colloqui

costituivano violazione del dovere di riservatezza ed imparzialità che avevano indotto gli
inquirenti a desumere la sussistenza dei reati contestati.

Considerato in diritto

Occorre rilevare che, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di
riparazione per ingiusta detenzione, al giudice del merito spetta, anzitutto, di verificare se chi
l’ha patita vi abbia dato causa, ovvero vi abbia concorso con dolo o colpa grave. Tale
condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, deve manifestarsi attraverso
comportamenti concreti, precisamente individuati, che il giudice di merito è tenuto ad
apprezzare in modo autonomo e completo al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se
essi abbiano rilevanza penale, ma solo se si siano posti come fattore condizionante rispetto
all’emissione del provvedimento di custodia cautelare.
A tal fine, egli deve prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili, relativi alla
condotta del soggetto, sia precedente che successiva alla perdita della libertà, allo scopo di
stabilire se tale condotta abbia determinato, ovvero anche solo contribuito a determinare, la
formazione di un quadro indiziario che ha indotto all’adozione o alla conferma del
provvedimento restrittivo. In tale operazione il giudice della riparazione, come ripetutamente
precisato da questa Corte, ha certamente il potere/dovere di procedere ad autonoma
valutazione delle risultanze e di pervenire, eventualmente, a conclusioni divergenti da quelle
assunte dal giudice penale, nel senso che circostanze oggettive accertate in sede penale, o le
stesse dichiarazioni difensive dell’imputato, valutate dal giudice della cognizione come semplici
elementi di sospetto, ed in quanto tali insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna,
ben potrebbero essere considerate dal giudice della riparazione idonee ad integrare la colpa
grave ostativa al diritto all’equa riparazione.
Ciò con l’unico limite per cui, in sede di riparazione per ingiusta detenzione, giammai può
essere attribuita decisiva importanza, considerandole ostative al diritto all’indennizzo, a
condotte escluse dal giudice penale o a circostanze relative alla condotta addebitata

intercorsi nell’arco temporale di quattro mesi tra il Falco, D’Urso, Berardi Paolo e Catia Toso

all’imputato con il capo di imputazione in ordine alle quali sia stata riconosciuta l’estraneità
dell’imputato stesso con la sentenza di assoluzione (c.f.r. Sez. 4, n. 1921 del 20.12.2013,
Mannino, e Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, Tinacci ).
La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione
rappresentata dall’aver dato causa, da parte del richiedente, all’ingiusta detenzione deve,
dunque, concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della cognizione e
che possono essere di tipo extra-processuale (comportamenti caratterizzati da spiccata

imputazione) o di tipo processuale (come un’autoincolpazione, un silenzio cosciente su di un
alibi, età); e sugli elementi costitutivi della colpa grave così determinati il giudice è tenuto sia
ad indicare gli specifici comportamenti addebitabili all’interessato, sia a motivare in che modo
tali comportamenti abbiano inciso sull’evento detenzione. Peraltro, mette conto anche
sottolineare che una condotta sinergica all’evento detenzione ben può essere desunta, in via di
principio generale, anche da dichiarazioni testimoniali o fonti di altro tipo descrittive di tale
condotta, purché ritualmente acquisite e ritenute attendibili in relazione alla condotta descritta,
a prescindere poi dall’esito del vaglio del giudice della cognizione ai fini della idoneità della
condotta dell’imputato, così accertata, a legittimare una sentenza di condanna.
Posto, dunque, che il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta
detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano dato causa
all’instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano concorso a darvi causa, è sempre
necessario che il giudice della riparazione pervenga alla sua decisione di escludere il diritto in
questione in base a dati di fatto certi, cioè ad elementi “accertati o non negati” e non sulla
base di elementi congetturali (Sez. U n. 43 del 13/12/1995, Sarnataro, e Sez. 4, n. 10684 del
26/01/2010, Morrà).
La Corte territoriale, venendo con ciò all’esame del primo motivo di ricorso, da dato ampia ed
esaustiva motivazione della condotta gravemente colposa del richiedente che ha dato causa
alla misura cautelare, avendo dato conto dei numerosi colloqui intercorsi tra il Falco e dirigenti
della Gama s.p.a., società interessata all’ottenimento di appalti di consistente valore
economico, nel corso dei quali il Falco medesimo, nella sua qualità di tenente colonnello
dell’esercito in servizio presso il Ministero della difesa, direzione generale del commissariato e
dei servizi generali, si era espresso con toni rassicuranti dichiarando che sarebbe intervenuto
onde garantire lo svolgimento del procedimento amministrativo in senso favorevole alla società
interessata. La corte territoriale è pervenuta al rigetto della domanda di riparazione
considerando la circostanza, accertata incontrovertibilmente nella sua materialità, che il Falco è
venuto meno al dovere di riservatezza fornendo alla Gama s.p.a. informazioni che altri non
avrebbero potuto ottenere ( giudizi sui membri della commissione, informazioni su altra ditta
interessata all’appalto ) ed ha, con ciò, dato causa al provvedimento restrittivo della libertà

leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da porre in essere un meccanismo di

adottato in suo danno in un quadro indiziario che appariva a lui sfavorevole, tenuto conto delle
dichiarazioni del D’urso, il quale aveva riferito di dazioni di denaro al Falco in occasione di una
precedente gara di appalto. E non sussiste vizio di illogicità della motivazione per non aver la
corte a quo considerato che i colloqui tra il Falco ed il Rossi erano esplicazione di un rapporto di
amicizia risalente ai tempi della scuola, giacché il tenore delle conversazioni intercettate,
tralasciando i convenevoli introduttivi, si incentrava sulla gara d’appalto e non poteva, dunque,
essere motivata se non dalla volontà di favorire l’interlocutore.

nell’aver il giudice a quo ritenuto causa ostativa della riparazione il comportamento ambiguo
tenuto dall’accusato tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria. Invero, per le ragioni
esposte, l’aver il richiedente intrattenuto i colloqui telefonici di cui la corte territoriale ha dato
conto, evidenzia la spiccata leggerezza del pubblico ufficiale che, in ragione del servizio da lui
svolto, avrebbe dovuto astenersi dall’intrattenere conversazioni telefoniche aventi ad oggetto
la gara di appalto con la ditta che ad essa era interessata.
Tale comportamento rientra nel concetto di colpa grave, ostativa al diritto alla riparazione a
norma dell’art. 314 c.p.p., nell’interpretazione più volte fornita da questa corte di legittimità.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla
rifusione delle spese in favore del Ministero resistente che liquida in complessivi euro 1.000,00.
Così deciso nella camera di consiglio del 25.9.2014.

Il secondo motivo di ricorso è parimenti infondato, non ravvisandosi violazione di legge

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA