Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 43809 del 24/10/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 43809 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ACETO ALDO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
1. Dolce Alfonso, nato a Polizzi Generosa (PA) il 13/03/1965;
2. Dolce Domenico, nato a Polizzi Generosa (PA) il 13/08/1958;
3. Gabbana Stefano Silvio, nato a Milano il 14/11/1962;
4. Minoni Giuseppe Emanuele Cristiano, nato a Milano il 21/04/1957;
5. Patelli Luciano, nato a Bergamo il 21/07/1959;
6. Ruella Cristiana, nata a Piombino (LI) il 12/08/1962;

avverso la sentenza del 30/04/2014 della Corte di appello di Milano;

Data Udienza: 24/10/2014

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Francesco
Salzano, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio per prescrizione
per il reato relativo alle dichiarazioni IVA per l’anno di imposta 2005; 1 utt,
udito per la parte civile l’avv. Maria Gabriella Vanadia, che ha concluso per
l’inammissibilità dei ricorsi;
uditi per gli imputati l’avv. Riccardo Olivo, per Dolce Alfonso, gli avv.ti Luisa
Mazzoli e Francesco Mucciarelli, per Cristiana Ruella, l’avv. Francesco Centonze,

per Giuseppe Emanuele Minoni, l’avv. Massimo Di Noia, per Stefano Silvio
Gabbana e Domenico Dolce, gli avv.ti Giuseppe Bana e Franco Coppi, per Luciano
Patelli, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi;
lette le memorie depositate dalla parte civile e dal difensore di Domenico Dolce e
Stafano Silvio Gabbana.

1.Si contesta agli odierni ricorrenti, nelle rispettive qualità più avanti
indicate, di aver, in concorso tra loro ed in esecuzione di un unico disegno
criminoso, omesso di dichiarare, ai fini dell’imposizione diretta e indiretta, gli
elementi positivi di reddito conseguiti attraverso lo sfruttamento dei marchi
«Dolce & Gabbana» e «D&G Dolce & Gabbana», dalla «GADO
S.a.r.I.», società con sede nel Principato di Lussemburgo ma che l’imputazione
contesta essere stata gestita di fatto in Milano.
1.1.Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’evasione d’imposta era
stata conseguenza di una complessa operazione di ristrutturazione degli assetti
societari facenti capo alla holding «D&G S.r.l.» (società interamente
controllata dai due stilisti) per effetto della quale i sigg.ri Domenico Dolce e
Stefano Gabbana avevano potuto sottrarre all’Erario le imposte derivanti dallo
sfruttamento dei marchi «Dolce & Gabbana» e <> (controllata per intero dalla «D&G S.r.l.») e la «GADO S.a.r.I.»
(interamente partecipata dalla «Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l.»), ed il
trasferimento, il 29/03/2004, alla <>); la sede effettiva costituisce valido luogo alternativo per le
notifiche da effettuare nei confronti delle società con personalità giuridica (Cass.
civ. Sez. L. n. 6021 del 2009, cit.), se non privilegiato, quando conosciuta dal
terzo (Cass. civ. Sez. 1, n. 6559 del 2014, cit.).
16.21.Non diversamente, la giurisprudenza delle Sezioni Penali di questa
Suprema Corte è stata costante nell’affermare che l’obbligo di presentazione
della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza
fiscale all’estero sussiste se detta società ha stabile organizzazione in Italia, il
,

che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione
amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia
raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi
contrattuali e dell’espletamento dei servizi (Sez. 3, n. 29724 del 26/05/2010,
Castagnara, Rv. 248109; Sez. 3, n. 7080 del 24/01/2012, Barretta, Rv. 252102;
Sez. 3, n. 32091 del 21/02/2013, Mazzeschi, Rv. 257043; nonché, Sez. 3, n
1811 del 30/10/2013, Pinhas, Rv. 258367).
16.22.11 criterio di effettività che induce a preferire la sede amministrativa
dell’ente-persona giuridica quale luogo nel quale viene fissato d’ufficio il suo
domicilio fiscale è del resto omogeneo a quello in base al quale esso è attribuito
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del 14/04/1969, Rv. 339775; Cass. civ. Sez. 3, n. 1249 del 18/04/1969, Rv.

alla persona fisica nel comune ove svolge in modo continuativo la propria attività
(art. 59, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973).
16.23.Alla «direzione effettiva» della persona giuridica, quale criterio per
l’individuazione del suo domicilio fiscale, fa riferimento anche la Convenzione
stipulata tra Italia e Lussemburgo intesa a evitare le doppie imposizioni in
materia di imposte sul reddito e sul patrimonio ed a prevenire la frode e le
evasioni fiscali, ratificata con legge 14 agosto 1982, n. 747, il cui art. art. 4
(intitolato “domicilio fiscale”), così recita: «1. l’espressione «residente di uno

Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio,
della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di
natura analoga (….) 3. Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una
persona diversa da una persona fisica è considerata residente di entrambi gli
Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato contraente in cui si
trova la sede della sua direzione effettiva».
16.24.La Convenzione è stata redatta in conformità al Modello di
Convenzione O.C.S.E. contro le doppie imposizioni.
16.25.Sía il Tribunale che la Corte di appello di Milano hanno fatto ricorso al
Commentai-io all’art. 4 del Modello O.C.S.E. secondo il quale la sede di direzione
effettiva dell’impresa deve essere individuata: – nel luogo dove vengono assunte
le decisioni chiave, di natura gestìonale e commerciale, necessarie per la
conduzione della attività di impresa; – nel luogo dove la persona o il gruppo di
persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono ufficialmente le
loro decisioni; – nel luogo di determinazione delle strategie che dovranno essere
adottate dall’ente nel suo insieme. La valutazione di tali elementi deve essere
sempre condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma, come
ricorda esplicitamente lo stesso Commentarlo.
16.26.Le difese hanno ampiamente e diffusamente contestato l’applicabilità
del Modello di convenzione e del Commentario sul rilievo che non si tratta di
fonte di diritto.
16.27.L’eccezione, pur fondata (sul valore non normativo del commentario
OCSE, cfr. Cass. cív., Sez. 5, n. 17206 del 28/07/2006), non ha però concreta
rilevanza nel caso di specie in considerazione del fatto che, come visto, il
modello di convenzione è stato tradotto in testo di legge.
16.28.11 criterio della «direzione effettiva» quale luogo di individuazione
del domicilio fiscale può non essere sufficiente e comunque comportare evidenti
storture applicative nel caso di società controllate ai sensi dell’art. 2359, comma
1, cod. civ., sopratutto nei casi in cui il capitale sociale della controllata è
interamente di proprietà della controllante.

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Stato contraente» designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto

16.29.Identificare

“tout court” la sede amministrativa della società

controllata con il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale
partono gli impulsi decisionali può in questi casi comportare conseguenze
aberranti ove esso dovesse identificarsi con la sede della società controllante, in
evidente contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze
sottese al suo controllo.
16.30.Tale approccio ermeneutico si pone addirittura in contrasto con la
presunzione di “eterodirezione” della società controllata che costituisce la “rado”

V del libro V, come sostituito dall’art. 5, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, e in
particolare con quanto espressamente prevede l’art.

2497-sexies, cod. civ.

secondo il quale <>.
Nello stesso senso, Cass. civ. Sez. V, 06-12-2002, n. 17373, secondo la quale
«Per quanto concerne la nozione di stabile organizzazione ai fini IVA

OCSE non può avvenire sic et simpliciter, poiché la normativa convenzionale – in
assenza di una specifica competenza normativa degli organi comunitari in base
all’art. 293 (ex 220), secondo punto, Trattato CE – ha lo scopo dì limitare
reciprocamente la potestà impositiva diretta dei due Stati contraenti, mentre in
materia di IVA, invece, esiste una disciplina europea uniforme, contenuta
fondamentalmente nella Sesta Direttiva del Consiglio 77/388/CEE e sue
successive modificazioni, recante diverse norme che sono incondizionate e
sufficientemente precise, e pertanto direttamente applicabili negli ordinamenti
interni. L’art. 9, n. 1, della Sesta Direttiva del Consiglio 77/388/CEE e sue
successive modificazioni, fa riferimento non al concetto di stabile organizzazione,
ma a quello di “centro di attività stabile”, il quale richiede l’impiego di risorse
umane e materiali, non essendo sufficiente la presenza di impianti (quali
macchine di distribuzione automatica o oleodotti) nel territorio in cui l’operazione
è compiuta, e ne deriva, quindi, che le norme nazionali che impiegano la nozione
di stabile organizzazione in materia di IVA devono essere sottoposte ad
interpretazione adeguatrice alla luce di quella prevista dal citato art. 9, n. 1,
della predetta Direttiva, dal che discende, inoltre, che nel campo
dell’applicazione dell’IVA non è utilizzabile la nozione di “stabile organizzazione
personale”, prevista dall’art. 5, paragrafo 5, del Modello OCSE (…) Una società di
capitali con sede in Italia può assumere il ruolo di stabile organizzazione plurima,
ai fini IVA, di società estere appartenenti allo stesso gruppo e perseguenti una
strategia unitaria, in quanto una società è una struttura complessa e certamente
in possesso dei requisiti previsti dall’art. 9, paragrafo 1, della Sesta Direttiva del
Consiglio 77/388/CEE e sue successive modificazioni, e d’altra parte non si può
dubitare della attribuibilità del ruolo di stabile organizzazione ad una società
fornita di personalità giuridica; in tali casi, la ricostruzione dell’attività posta in
essere dalla società nazionale, al fine di accertare se si tratti o meno di attività
ausiliaria o preparatoria, deve essere unitaria e riferita al programma del gruppo
societario unitariamente considerato. Deve escludersi che la nozione di stabile
organizzazione delineata dal Modello OCSE opportunamente integrata, ai fini
dell’applicazione dell’IVA, con quella, più restrittiva, prevista dall’ordinamento
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l’utilizzazione dei modelli indicati nel catalogo contenuto nell’art. 5 del Modello

comunitario, debba identificarsi con quella di “autonoma unità produttiva” o
“unità aziendale dì servizio”, non essendo tale nozione – ancora più restrittiva dì
quella comunitaria – fondata su alcun decisivo argomento testuale o sistematico,
e, inoltre, deve escludersi che la struttura organizzativa in questione debba
necessariamente essere di per sé produttiva di reddito ovvero dotata di
autonomia gestionale o contabile, requisiti che, invece, hanno le succursali o sedi
secondarie previste dall’art. 2506 cod. civ., le quali costituiscono solo una specie
tipica di stabile organizzazione» (nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. V,

controllo sull’esatta esecuzione di contratti tra soggetto residente e soggetto non
residente non può considerarsi, in linea di principio, ausiliaria e, come tale, non
suscettibile di far assumere alla società incaricata il ruolo di stabile
organizzazione in Italia della società straniera, ai sensi dell’art. 5, par. 4, del
modello O.C.S.E. di convenzione contro le doppie imposizioni e dell’art. II, par. 1,
lett. e), della Convenzione tra Italia e Paesi Bassi per evitare le doppie
imposizioni, conclusa il 24 gennaio 1957 e ratificata con legge 18 giugno 1960,
n. 704, applicabile “ratione temporis”»).
16.65.Utili spunti possono derivare anche dalla Dir. 30/11/2011, n.
2011/96/UE – DIRETTIVA DEL CONSIGLIO concernente il regime fiscale comune
applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (che ha sostituito la
precedente direttiva 23/07/1990, n. 90/435/CEE – Direttiva del Consiglio
concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di
Stati membri diversi – pubblicata nella G.U.C.E. 20 agosto 1990, n. L 225.
Entrata in vigore il 30 luglio 1990). L’art. 1, comma 2, definisce “stabile
organizzazione” «una sede fissa di affari situata in uno Stato membro,
attraverso la quale una società di un altro Stato membro esercita in tutto o in
parte la sua attività, per quanto gli utili di quella sede di affari siano soggetti ad
imposta nello Stato membro nel quale essa è situata ai sensi del pertinente
trattato fiscale bilaterale o, in assenza di un siffatto trattato, ai sensi del diritto
interno».
16.66.Anche la giurisprudenza

europea/in materia di «libertà di

stabilimento» fornisce criteri interpretativi di rilievo nell’individuare i requisiti
strutturali minimi necessari per ritenere effettiva l’attività economica esercitata
dalla società controllata estera.
16.67.L’art. 49 (ex art. 43) del T.C.E (Trattato che istituisce la Comunità
europea) recita: «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla
libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro
Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni
relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno
Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di

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25-05-2002, n. 7689, secondo la quale, peraltro, «in tema di IVA, l’attività di

stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché
la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi
dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del
paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni
del capo relativo ai capitali». L’art. 54 (ex art. 48) del T.C.E. recita: «Le
società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi
la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale
all’interno dell’Unione, sono equiparate, ai fini dell’applicazione delle disposizioni

Per società si intendono le società dì diritto civile o di diritto commerciale, ivi
comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal
diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi
di lucro».
16.68.La Corte di Giustizia della Comunità Europea, con sentenza n. 196/04
del 12/09/2006 (Cadbury Schweppes plc e altri c. Commissioners of Inland
Revenue), ha spiegato che «i cittadini di uno Stato membro, persone fisiche o
giuridiche, non possono tentare, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, di
sottrarsi all’imperi° delle loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente
o fraudolentemente del dìritto comunitario (sentenze 7 febbraio 1979, causa
115/78, Knoors, Racc. pag. 399, punto 25; 3 ottobre 1990, causa C-61/89,
Bouchoucha, Racc. pag. 1-3551, punto 14, e 9 marzo 1999, causa C-212/97,
Centros, Racc. pag. 1-1459, punto 24, che ha ricordato che secondo la
giurisprudenza della Corte, uno Stato membro ha il diritto di adottare misure
volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi
cittadini tentino di sottrarsi all’impero delle leggi nazionali, e che gli interessati
non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario,
come affermato, in particolare, nel settore della libera prestazione dei servizi,
dalle sentenze 3 dicembre 1974, causa 33/74, Van Binsbergen, Racc. pag. 1299,
punto 13; 3 ottobre 1993, causa C-148/91, Veronica Omroep Organisatie, Racc.
pag. 1-487, punto 12, e 5 ottobre 1994, causa C-23/93, W 10, Racc. pag.
1-4795, punto 21; in materia di libertà di stabilimento, sentenze 7 febbraio 1979,
causa 115/78, Knoors, Racc. pag. 399, punto 25, e 3 ottobre 1990, causa
C-61/89, Bouchoucha, Racc. pag. 1-3551, punto 14; in materia di libera
circolazione delle merci, sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Leclerc e a.,
Racc. pag. 1, punto 27; in materia di previdenza sociale, sentenza 2 maggio
1996, causa C-206/94, Paletta, Racc. pag. 1-2357, punto 24; in materia di libera
circolazione dei lavoratori, sentenza 21 giugno 1988, causa 39/86, Lair, Racc.
pag. 3161, punto 43; in materia di politica agricola comune, sentenza 3 marzo
1993, causa C-8/92, Generai Milk Products, Racc. pag. 1-779, punto 21; in
materia di diritto societario, sentenza 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas
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del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri.

e a., Racc. pag. 1-2843, punto 20). Pur tuttavia – prosegue la Corte – i cittadini
parimenti non possono essere privati della possibilità di avvalersi delle
disposizioni del Trattato solo perché hanno inteso approfittare dei vantaggi fiscali
offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede
(v., in tal senso, sentenza 11 dicembre 2003, causa C-364/01, Barbier, Racc.
pag. 1-15013, punto 71). La circostanza che una società sia stata creata in uno
Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per
se stessa un abuso di tale libertà (v., in tal senso, sentenze Centros, cit., punto

punto 96). La materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati
membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del
diritto comunitario (sentenze 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank of
Scotland, Racc. pag. 1-2651, punto 19; 7 settembre 2004, causa C-319/02,
Manninen, Racc. pag. 1-7477, punto 19, e 13 dicembre 2005, causa C-446/03,
Marks [amp ] Spencer, Racc. pag. 1-10837, punto 29). La libertà di stabilimento,
che l’art. 43 CE attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi
l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione
e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato
membro di stabilimento per i cittadini di questo, comprende, ai sensi dell’art. 48
CE, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che
abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel
territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro
di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (v., in
particolare, sentenze 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN,
Racc. pag. 1-6161, punto 35; Marks [amp ] Spencer, cit., punto 30, nonché 23
febbraio 2006, causa C-471/04, Keller Holding, punto 29). Anche se, alla lettera,
intendono specificamente assicurare il beneficio del trattamento nazionale nello
Stato di stabilimento, le disposizioni del Trattato relative alla libertà di
stabilimento vietano parimenti che lo Stato d’origine intralci lo stabilimento in un
altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la
propria legislazione (v., in particolare, sentenze 16 luglio 1998, causa C-264/96,
ICI, Racc. pag. 1-4695, punto 21, nonché Marks [amp ] Spencer, cit., punto 31).
È giurisprudenza costante in materia che un’eventuale agevolazione fiscale
risultante dalla tassazione poco elevata alla quale viene assoggettata una
controllata stabilita in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata
costituita la società madre non può consentire a quest’ultimo di riservare, in
cambio, alla società madre un trattamento fiscale meno favorevole (v.,

in tal

senso, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, Racc.
pag. 273, punto 21; v. anche, per analogia, sentenze 26 ottobre 1999, causa
C-294/97, Eurowings Luftverkehr, Racc. pag. 1-7447, punto 44, nonché 26

68

27, e 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc. pag. 1-10155,

giugno 2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. 1-6817, punto
52). L’esigenza di impedire la riduzione del gettito tributario non rientra né tra
gli obiettivi enunciati all’art. 46, n. 1, CE, né tra le ragioni imperative di interesse
generale suscettibili di giustificare una restrizione a una libertà prevista dal
Trattato (v., in tal senso, sentenze 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner,
Racc. pag. 1-8147, punto 56, nonché Skandía e Ramstedt, cit., punto 53). Risulta
altresì dalla giurisprudenza che la mera circostanza che una società residente
crei uno stabilimento secondario, per esempio una controllata, in un altro Stato

giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale
garantita dal Trattato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 26 settembre
2000, causa C-478/98, Commissione/Belgio, Racc. pag. 1-7587, punto 45; X e Y,
cit., punto 62, nonché 4 marzo 2004, causa C-334/02, Commissione/Francia,
Racc. pag. 1-2229, punto 27). Per contro, una misura nazionale che restringe la
libertà di stabilimento è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni
di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato
membro interessato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 12 dicembre
2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst, Racc. pag. 1-11779, punto 37; De
Lasteyrie du Saillant, cit., punto 50, nonché Marks [amp ] Spencer, cit., punto
57). Nel valutare il comportamento del soggetto imponibile si deve tener
particolarmente presente l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento (v., in
tal senso, citate sentenze Centros, punto 25, e X e Y, punto 42). Trattasi
dell’obiettivo di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno
stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e
favorire così l’interpenetrazione economica e sociale nel territorio della Comunità
nel settore delle attività indipendenti (v. sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74,
Reyners, Racc. pag. 631, punto 21). La libertà di stabilimento intende, a tal fine,
permettere a un cittadino comunitario di partecipare, in maniera stabile e
continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato
di origine e di trarne vantaggio (sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94,
Gebhard, Racc. pag. 1-4165, punto 25). Tenuto conto di questo obiettivo di
integrazione nello Stato membro ospite, la nozione di stabilimento di cui alle
disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento implica l’esercizio
effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé
l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro (v. sentenze 25 luglio
1991, causa C-221/89, Factortame e a., Racc. pag. 1-3905, punto 20, nonché 4
ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. 1-4585,
punto 21). Essa presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società
interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica
reale. Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche
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membro non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né

abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico
di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente
artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale
imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. Al pari delle
pratiche abusive di cui al punto 49 della sentenza Marks famp Spencer, cit.,
che consisterebbero nell’organizzare trasferimenti di perdite, all’interno di un
gruppo di società, in direzione delle società stabilite negli Stati membri che
applicano le aliquote fiscali maggiori ed in cui, di conseguenza, è maggiore il

tale da violare il diritto degli Stati membri di esercitare la propria competenza
fiscale in relazione alle attività svolte sul loro territorio e da compromettere, così,
un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri (v. sentenza
Marks [amp ] Spencer, cit., punto 46). Gli artt. 43 (oggi 49) CE e 48 (oggi 54)
CE devono perciò essere interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella
base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili
realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali
utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel
primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio
destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di
una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa ove da elementi
oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni
di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento
e ivi esercita attività economiche effettive.

L’inclusione nella base imponibile

della società controllante degli utili realizzati dalla società controllata deve
escludersi a condizione che quest’ultima non costituisca una costruzione
meramente artificiosa (società “schermo” o “fantasma”) artefatta al solo scopo di
eludere l’imposta ordinariamente dovuta e che da elementi oggettivi e verificabili
risulti, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, che la società controllata
esercita effettivamente un’attività economica nello Stato membro. Ne consegue
che se una società ha deciso di costituire delle «subsidiaries» in altro Paese
membro al fine di beneficiare del favorevole regime fiscale che tale stabilimento
comporta, ciò non costituisce di per sé un abuso e quindi non preclude alla
suddetta società la possibilità di invocare gli artt. 43 e 48 Trattato 25 marzo
1957».
16.69.Di rilievo anche la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 17/07/1997
nel procedimento C-28/95, A. Leur-Bloem, in ordine all’interpretazione dell’art.
11 della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/434/CEE, relativa al regime
fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed
agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi, che autorizza gli
Stati membri a non applicare in tutto o in parte le disposizioni della direttiva, ivi
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valore fiscale delle perdite, il tipo di comportamenti descritti al punto precedente

comprese le agevolazioni fiscali ivi previste o a revocarne la concessione, qualora
l’operazione di fusione, scissione, conferimento d’attivo o scambio di azioni abbia
in particolare come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la
frode o l’evasione fiscale (art. 11, n. 1, lett. a) e che attribuisce allo Stato
membro la facoltà dì prevedere una presunzione di frode o di evasione fiscale
quando «una delle operazioni (…) non sia effettuata per valide ragioni
economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle
società partecipanti all’operazione». Ebbene, la Corte ha stabilito che gli Stati

effettuate per valide ragioni economiche legittima una presunzione di frode o di
evasione fiscale, tuttavia per accertare se l’operazione che s’intende effettuare
abbia come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o
l’evasione fiscale, «le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad
applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso,
ad un esame globale dell’operazione (punti 40 e 41)». Dunque la ricerca di
benefici fiscali può costituire valida ragione economica che non legittima di per
sé l’ipotesi della frode fiscale.
16.70.In linea con i principi già affermati sì pone quello più recentemente
ribadito dall’ordinanza resa il 23/04/2008, la Corte di Giustizia (IV Sez.),
nell’ambito del procedimento C-201/05 avente ad oggetto la domanda di
pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice (England & Wales),
Chancery Division (Regno Unito), nella causa tra The Test Claimants in the CFC
and Dividend Group Litigation e Commissioners of Inland Revenue, relativa
all’imposizione delle società residenti sugli utili realizzati da controllate non
residenti ed ai dividendi percepiti da tali controllate. Richiamando in motivazione
i principi già espressi dalla citata sentenza Cadbury Schweppes e Cadbury
Schweppes Overseas, la CG ha nuovamente ricordato che «gli artt. 43 (oggi
49) CE e 48 (oggi 54) CE devono essere interpretati nel senso che ostano
all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato
membro, degli utili realizzati da una SEC (società) stabilita in un altro Stato
qualora tali utili siano ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello
applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione riguardi esclusivamente
costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente
dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve essere perciò
esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in
presenza di motivazioni di natura fiscale, la SEC sia realmente impiantata nello
Stato membro di stabilimento, ivi esercitando attività economiche effettive.
Tuttavia, gli artt. 43 CE e 48 CE devono essere interpretati nel senso che non
ostano alla normativa fiscale di uno Stato membro che imponga taluni requisiti di
conformità qualora la società residente intenda essere esentata da imposte già
71

membri possono prevedere che il fatto che queste operazioni non siano state

versate sugli utili della società medesima, controllata nello Stato della propria
residenza, in quanto tali requisiti siano finalizzati a verificare che la società
estera controllata sia realmente impiantata nello Stato di stabilimento ivi

esercitando attività economiche effettive, senza che ciò implichi eccessivi oneri
amministrativi».
16.71.Nella causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation
contro Commissioners of Inland Revenue, la Corte di Giustizia (Grande Sezione),
era stata chiamata a decidere se gli artt. 43 CE, 49 CE o 56 CE ostino alla

di dedurre a fini fiscali gli interessi versati su prestiti concessi da una società
controllante, in via diretta o indiretta, residente in un altro Stato membro,
qualora detta società residente non avrebbe subito una tale restrizione se gli
interessi fossero stati versati su prestiti concessi da una società controllante
avente sede in tale primo Stato membro. In via preliminare, la Corte ha
ricordato che «se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella
competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale
competenza nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 8
marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e a., Racc.
pag. 1-1727, punto 37; 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer,
Racc. pag. 1-10837, punto 29, e 12 dicembre 2006, causa C-374/04, Test
Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, Racc. pag. 1-11673, punto
36)». Ha poi aggiunto che «ai sensi di una costante giurisprudenza, rientrano
nell’ambito di applicazione materiale delle disposizioni del Trattato CE relative
alla libertà di stabilimento le disposizioni nazionali che si applicano alla
detenzione da parte di un cittadino dello Stato membro interessato, nel capitale
di una società stabilita in un altro Stato membro, di una partecipazione tale da
conferirgli una sicura influenza sulle decisioni di tale società e da consentirgli di
indirizzarne le attività (v., in tal senso, sentenze 13 aprile 2000, causa C-251/98,
Baars, Racc. pag. 1-2787, punto 22; 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y,
Racc. pag. 1-10829, punto 37, e 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury
Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, Racc. pag. 1-7995, punto 31)».
Nel merito della controversia, e per quanto qui rileva, di fronte all’obiezione del
governo britannico che le disposizioni vigenti nel Regno Unito non andrebbero al
di là di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo della lotta all’evasione
fiscale consistente nell’attuazione di strumenti artificiosi destinati a eludere la
normativa fiscale dello Stato di residenza della società mutuataria, in quanto si
fonderebbero sul principio, riconosciuto a livello internazionale, della piena
concorrenza e qualificherebbero come utili distribuiti solo la parte degli interessi
eccedente quanto sarebbe stato versato nell’ambito di una transazione conclusa
in condizioni di piena concorrenza e, infine, in quanto sarebbero applicate in
72

normativa di uno Stato membro che limita la possibilità per una società residente

maniera flessibile, in particolare prevedendo una procedura di previa verifica, la
Corte ha ricordato che <<72. Ai sensi di una giurisprudenza costante, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è giustificabile se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a eludere la normativa dello Stato membro interessato (v., in tal senso, sentenze 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. 1-4695, punto 26; Lankhorst-Hohorst, cit., punto 37; Marks & Spencer, cit., punto 57, nonché Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 51). 73. La mera circostanza che una altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di pratiche abusive, né giustificare una misura che pregiudichi l'esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., in tal senso, sentenze 26 settembre 2000, causa C-478/98, Commissione/Belgio, Racc. pag. 1-7587, punto 45; X e Y, cit., punto 62; 4 marzo 2004, causa C-334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. 1-2229, punto 27, nonché Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 50). 74. Perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale (sentenza Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 55)». Sicché, «l'art. 43 CE osta ad una normativa di uno Stato membro che limiti la possibilità per una società residente di dedurre, a fini fiscali, gli interessi versati su prestiti concessi da una società controllante, in via diretta o indiretta, residente in un altro Stato membro o da una società residente in un altro Stato membro controllata da tale società controllante, senza assoggettare a una siffatta restrizione una società residente che ha ottenuto un prestito da una società parimenti residente, salvo che, da un lato, tale normativa disponga un esame di elementi oggettivi e verificabili che permettano di individuare l'esistenza di una costruzione di puro artificio attuata a soli fini fiscali, prevedendo la possibilità per il contribuente di produrre, eventualmente e senza eccessivi oneri amministrativi, elementi relativi alle ragioni commerciali soggiacenti alla transazione in questione e, dall'altro, qualora l'esistenza di una tale costruzione venisse accertata, detta normativa qualifichi tali interessi come utili distribuiti solo nella misura in cui questi eccedono quanto sarebbe stato convenuto in condizioni di piena concorrenza». 16.72.Nel procedimento C-255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd, County Wide Property Investments Ltd contro Commissioners of Customs & Excise, la Corte di Giustizia (Grande Sezione) ha affermato che le nozioni di "attività economica", "cessione di beni" e di 73 società residente ottenga un prestito da una società collegata avente sede in un "prestazione di servizi" di cui agli artt. 2, punto 1, 4, nn. 1 e 2, 5, n. 1, e 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (GU L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE, che definiscono le operazioni imponibili, hanno tutte un carattere obiettivo e sì applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza 12 gennaio 2006, cause punto 44). Quel che rileva, dunque, è che tali operazioni soddisfino i criteri oggettivi sui quali sono fondate le relative nozioni, anche se siano state effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico. Questi criteri - afferma la Corte di Giustizia - non sono soddisfatti in caso di frode fiscale, perpetrata per esempio rendendo dichiarazioni false o emettendo fatture irregolari. Nondimeno, accertare se l'operazione di cui trattasi è effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale è irrilevante per stabilire se essa costituisca una cessione di beni ovvero una prestazione di servizi e un'attività economica. La Corte ha però ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, gli interessati non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas e a., Racc. pag. 1-2843, punto 20; 23 marzo 2000, causa C-373/97, Díamantís, Racc. pag. 1-1705, punto 33, e 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini H, Racc. pag. 1-1599, punto 32) e che l'applicazione della normativa comunitaria non può estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell'ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario (v., in tal senso, in particolare, sentenze 11 ottobre 1977, causa 125/76, Cremer, Racc. pag. 1593, punto 21; 3 marzo 1993, causa C-8/92, Generai Milk Products, Racc. pag. 1-779, punto 21, e Emsland-Sdrke, causa C-110/99, punto 51). La lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è, infatti, un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva (v. sentenza 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-7/02, Gemeente Leusden e Holin Groep, Racc. pag. 1-5337, punto 76). Nel settore IVA, perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l'ottenimento di un 74 riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., Racc. pag. 1-483, vantaggio fiscale. Il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali. Spetta al giudice del rinvio verificare, conformemente alle norme nazionali sull'onere della prova, ma senza che venga compromessa l'efficacia del diritto comunitario, se gli elementi costitutivi di un comportamento abusivo sussistano nel procedimento principale (v. sentenza 21 luglio 2005, causa C-515/03, Eichsfelder Schlachtbetrieb, Racc. pag. 1-7355, punto 40). In particolare, deve stabilire contenuto e significato reali delle fittizio di queste ultime nonché í nessi giuridici, economici e/o personali tra gli operatori coinvolti nel piano di riduzione del carico fiscale (v., in tal senso, sentenza Emsland-Stàrke, cit., punto 58). Ricorda, però, la Corte di Giustizia la propria giurisprudenza secondo la quale «73. (...) un imprenditore che ha la scelta tra operazioni esenti ed operazioni soggette ad imposta può basarsi su un insieme di elementi, in particolare su considerazioni di natura fiscale attinenti al regime obiettivo dell'IVA (v., in particolare, sentenze BLP Group, cit., punto 22, e 9 ottobre 2001, causa C-108/99, Cantor Fitzgerald International, Racc. pag. 1-7257, punto 33). A un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento IVA. Al contrario, come ha osservato l'avvocato generale al paragrafo 85 delle conclusioni, il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale». 16.73.11 principio secondo il quale «45 (...) l'esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell'operazione o delle operazioni controverse» è stato ribadito dalla sentenza della Corte di Giustizia Sez. 2, n. C-425/06 del 21 febbraio 2008, resa nel procedimento Ministero dell'Economia e delle Finanze contro Part Service Srl, che ha richiamato, a sua volta, quanto già statuito nella citata sentenza Halifax. Non diversamente da quest'ultima, la sentenza ribadisce che «47. (...) la scelta, da parte di un imprenditore, tra operazioni esenti ed operazioni soggette ad imposta può basarsi su un insieme di elementi, in particolare su considerazioni di natura fiscale attinenti al regime obiettivo dell'IVA. Quando un soggetto passivo ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento di IVA. Al contrario, il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale». 16.74. Nella sentenza resa nella causa C-110/99, tra Emsland-Stàrke GmbH e Hauptzollamt Hamburg-Jonas, la Corte di Giustizia ha ribadito ancora una 75 operazioni. Egli può così prendere in considerazione il carattere puramente volta, in conformità alla propria giurisprudenza, che l'applicazione dei regolamenti comunitari non può estendersi fino alla tutela di pratiche abusive di operatori economici. Il fatto che determinate operazioni di importazione ed esportazione non siano effettuate nell'ambito di operazioni commerciali normali, ma soltanto per beneficiare illecitamente della concessione di importi compensativi monetari positivi, può ostare all'applicazione dei detti importi. La constatazione che si tratta di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto perseguito dalla detta normativa non è stato raggiunto. Essa richiede, d'altra parte, un elemento soggettivo che consiste nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. L'esistenza di un simile elemento soggettivo può essere dimostrata, in particolare, dalla prova di una collusione tra l'esportatore comunitario, beneficiario delle restituzioni, e l'importatore della merce nel paese terzo. Spetta al giudice nazionale stabilire l'esistenza dei due detti elementi, la cui prova può essere fornita conformemente alle norme del diritto nazionale, purché ciò non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario (in tal senso vedansi, in particolare, sentenze 21 settembre 1983, cause riunite da 205/82 a 215/82, Deutsche Mílchkontor e a., Racc. pag. 2633, punti 17-25 e 35-39; 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punti 17-21; 8 febbraio 1996, causa C-212/94, FMC e a., Racc. pag. 1-389, punti 49-51, e 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-0000, punto 41). 16.75.11 costante richiamo alle costruzioni di puro artificio volte ad abusare indebitamente a fini fiscali del diritto di libertà di stabilimento pone in linea con la giurisprudenza europea l'identico richiamo del già citato art. 167, comma 8bis, d.P.R. n. 917 del 1986. 16.76.Non appartiene alla "ratio decidendi" di questo processo - per quanto oltre si vedrà - precisare se i concetti di «centro di attività stabile» (richiamato nella direttiva 77/388/CEE, applicabile "ratione temporisg e «stabile organizzazione», già oggetto di contrasto interpretativo nell'ambito della giurisprudenza civile di questa Corte, siano tra loro sovrapponibili oppure no. E' però un dato di fatto che la più recente direttiva in materia di IVA (n. 2006/112/CE) ha fatto riferimento alla «stabile organizzazione» (pur non definendola) abbandonando il concetto di «centro di attività stabile». 16.77.11 legislatore nazionale, invece, ha sempre fatto riferimento, in materia di imposizione indiretta, al concetto dì «stabile organizzazione», normativamente e positivamente disciplinato dall'art. 162, d.P.R. n. 917 del 1986. Non si intravede motivo, pertanto, per il quale tale definizione non possa 76 formale delle condizioni previste dalla normativa comunitaria, l'obiettivo essere, in base all'interpretazione sistematica, utilizzata per definire anche la stabile organizzazione rilevante ai fini dell'imposizione indiretta. 16.78.Ne consegue che se un "ufficio" può essere ritenuto sufficiente a integrare una «stabile organizzazione» (tanto più se, come nel caso di specie, ad esso era stato successivamente addetto del personale in pianta stabile, così soddisfacendo anche il requisito richiesto ai fini della sua definizione come "centro di attività stabile", non trattandosi di una pura e semplice installazione), la sua esistenza può essere utilmente valutata quale luogo di un criterio interpretativo che limiti, di fatto, la libertà di stabilimento. Nella sua ampia discrezionalità organizzativa e nell'ambito della libertà di impresa, riconosciuta anche dalla nostra Costituzione (art. 42), l'imprenditore può decidere di collocare le proprie strutture dove meglio ritiene e dotarle secondo le proprie insindacabili valutazioni. 16.79.11 punto, infatti, non è questo, ma verificare se a tale "ufficio" corrisponda una "costruzione di puro artificio" volta a lucrare benefici fiscali oppure no. "Costruzione artificiosa" e "indebito vantaggio fiscale" vanno di pari passo: il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l'imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente "indebito" il vantaggio fiscale. 16.80.La giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Suprema Corte insegna che «in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali. Esso comporta l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione» (Cass. civ. Sez. U, n. 30055 del 77 effettivo esercizio di un'attività di impresa. Di certo il giudice non può adottare 23/12/2008, Rv. 605850). La mera aspettativa del beneficio fiscale va di pari passo con l'assenza di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione; si tratta di due facce della stessa medaglia. La presenza di valide ragioni extra fiscali esclude il carattere abusivo dell'operazione. Spiega e precisa Cass. civ. Sez. 5, n. 1372 del 21/01/2011 che «si considerano aventi carattere abusivo, e che possono, quindi, essere disconosciute dell'amministrazione finanziaria, quelle pratiche che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario, siano poste in essere al principale scopo di ottenere benefici fiscali esenzioni o agevolazioni. In altri termini, il carattere abusivo è escluso soltanto dalla presenza di valide ragioni extra fiscali. Si è, così, ritenuta formata una clausola generale antielusiva (analoga alla Generai Ariti Avoidance Rule, GAAR, degli ordinamenti di common law), di matrice comunitaria per quanto attiene ai c.d. tributi armonizzati (i.v.a., accise, diritti doganali), a partire dalla sentenza in causa C - 255/02, Halifax, e costituzionale - secondo Sez. Un., 30005 e 30007/08 - per i tributi non attribuiti alla competenza degli organi comunitari, quali le imposte dirette, per i quali trae origine dall'art. 53 Cost. (...) È opportuno richiamare il principio affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 21 febbraio 2008 in causa C - 425/06, Part Service (pronunciata a seguito di rinvio pregiudiziale di questa Corte con ordinanza n. 21371/06), secondo cui la presenza di ragioni economiche marginali o non determinanti non esclude il carattere abusivo dell'operazione. Deve, pertanto, disattendersi la tesi (...) secondo cui lo scopo di risparmio fiscale - perché l'operazione sia ritenuta abusiva - deve essere esclusivo». E tuttavia la Corte dopo aver ricordato che secondo la propria giurisprudenza «incombe all'amministrazione finanziaria l'onere di spiegare, anche nell'atto impositivo, perché la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all'operazione economica intrapresa, mentre è onere del contribuente provare l'esistenza di un contenuto economico dell'operazione diverso dal mero risparmio fiscale», avverte che tale regime «nell'ordinamento comunitario è imposto dal principio di proporzionalità (sentenza della Corte di Giustizia 17 luglio 1997 in causa C - 28 / 95, A. Leur Bloem), nel sistema italiano costituisce applicazione dei principi di libertà d'impresa e di iniziativa economica (art. 42 Cost.), oltre che della piena tutela giurisdizionale del contribuente (art. 24 Cost.). 4.5. Come questa Corte ha già più volte rilevato, l'applicazione del principio deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d'impresa (...) E' necessario, altresì, rilevare che la cautela che deve guidare l'applicazione del principio, qualunque sia la sua matrice, deve essere 78 contrastanti con la ratio delle norme che introducono il tributo o prevedano massima quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene nei casi di dividend washing e di dividend stripping), di artificioso frazionamento di contratti o di anomala interposizione di stretti congiunti, ma di ristrutturazioni societarie, soprattutto quando le stesse avvengono nell'ambito di grandi gruppi d'imprese. Occorre, infatti, considerare che la strategia sul mercato dei gruppi di imprese non può essere valutata come quella dell'imprenditore singolo, e cioè non deve essere finalizzata al conseguimento di una redditività in tempi brevi. Tale regola è stata enunciata dalla Commissione Europea nella sua comunicazione del 1984 novembre 1984 in causa 323/82, Intermillis; e 10 luglio 1986 in causa 2342/84, Belgio c. Commissione) in materia di aiuti di Stato nelle imprese pubbliche, allo scopo di definire il comportamento dell'investitore in economia di mercato che, se è un gruppo d'imprese, può essere guidato, nel fornire misure di sostegno alle imprese del gruppo, da criteri non coincidenti con la redditività immediata della misura, per cui la stessa non può considerarsi aiuto incompatibile col mercato comune. La regola dell'investitore di gruppo è stata applicata da questa Corte in alcune decisioni (n. 10062/2000 e 1133/2001), con le quali è stata riconosciuta la deducibilità di costi generali addebitati a partecipate o stabili organizzazioni italiane da società madri non residenti, anche se le dette strutture non producevano ricavi. Trasferendo la regola alla problematica dell'abuso del diritto, nella quale si tratta pur sempre di verificare se l'operazione rientra in una normale logica di mercato, si deve affermare che il carattere abusivo deve essere escluso per la com presenza, non marginale, di ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa, e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell'impresa. Tale è la regola emergente dal sistema, sul modello comunitario, che prende in considerazione soltanto il contenuto oggettivo dell'operazione, a differenza di altri ordinamenti. Vi è da considerare, d'altra parte, che l'esercizio di libertà e di diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dal Trattato sull'Unione Europea, non può essere limitato per ragioni fiscali. In particolare, il diritto di stabilimento (la cui fonte, all'epoca dei fatti, era l'art. 43 del Trattato CE), comporta, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte comunitaria a partire dalla sentenza Avoir fiscal (causa 270/83, Commissione c. Francia) una libertà di scelta delle forme societarie, sia pure dettata da ragioni esclusivamente fiscali. Nella sentenza 9 marzo 1999, in causa C - 212/97, Centros, la Corte di Giustizia è giunta a negare il carattere abusivo la collocazione della sede di una società in uno Stato esclusivamente perché ivi è prevista una regolamentazione giuridica più favorevole, anche se non viene ivi svolta alcuna attività d'impresa» (nello stesso senso si veda altresì Cass. civ. Sez. 5, n. 1372 del 21/01/2011, Rv. 79 e più volte condivisa dalla Corte di Giustizia (a partire dalle sentenze 14 616371, secondo la quale il carattere abusivo di un'operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell'operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda). 16.81.L'esigenza fondamentale di non invadere il campo della libertà d'impresa, garantito dall'art. 42 Cost., è avvertita dalla giurisprudenza delle minimizzazione del carico fiscale (Cass. civ., Sez. 5, n. 21221 del 29/09/2006; Cass. civ., Sez. 5, n. 8772 del 04/04/2008; Cass. civ., Sez. 5, n. 10257 del 21/04/2008). 16.82.E' importante, sul punto, il principio affermato da Cass. civ. Sez. 5, n. 2869 del 07/02/2013, n. 2869, Rv. 625687, secondo cui <>.
Nel caso sottoposto all’esame della Corte la società CIN aveva sede legale in
Lussemburgo ed era partecipata per il 99,9% del capitale dalla Candy
Elettrodomestici s.r.I., stabilita in Italia. In Italia risiedevano due membri, su tre,
del consiglio di amministrazione; più volte le delibere del c.d.a. ed altre decisioni
di rilievo venivano prese in riunioni tenutesi in Italia e non in Lussemburgo. Ha
spiegato in motivazione la Corte: <> operasse realmente in conformità esclusivamente al suo oggetto
sociale.
20.4.E’ su questo punto che le ragioni difensive hanno il proprio
fondamento. Si è già detto, infatti, che ai fini della domiciliazione fiscale non è
necessario che l’attività di impresa venga svolta in Italia, ma la verifica
dell’esercizio estero di tale attività costituisce pur sempre condizione
93

che intercorre tra una controllata e la sua controllante capo-gruppo, che

imprescindibile per accertare la natura fittizia o meno dell’insediamento e,
dunque, la sua esterovestizione.
20.5.L’altro argomento, correlato all’attività di impresa svolta da <> di cui non v’è traccia in nessuna delle sentenze di merito), a tutti gli
altri co-imputati viene attribuita una responsabilità concorsuale da posizione (o
qualifica) o da interesse (i due stilisti). La responsabilità ipotizzata dall’accusa si
basa sul ruolo formalmente e sostanzialmente disimpegnato da ciascuno dei
correi nell’ambito delle rispettive attribuzioni di competenza: è questo il filo che
lega il fatto proprio dell’amministratore Dolce Alfonso alla responsabilità dei
complici. I Giudici di merito si diffondono a lungo sulle responsabilità individuali
dei singoli co-imputati, ma il

“leitmotiv” è

uno solo: il concorso nella

esterovestizione della società «GADO S.a.r.I.» che, nella logica del
provvedimento impugnato, si pone come l’unica causa di corresponsabilità.
Causa che, a sua volta, si ravvisa nella collaborazione nel

management

dell’impresa. Si badi: l’accusa non imputa ai concorrenti (tranne che ai due
stilisti) l’amministrazione di fatto della società; non li pone, cioè, sullo stesso
livello di Alfonso Dolce né a tanto si spingono i Giudici di merito che non
affermano mai la interposizione di questi. Tutti gli imputati sono ritenuti
concorrenti nel reato per aver ideato, progettato, attuato l’esterovestizione della
società tenendo comportamenti coerentemente espressivi del relativo
management ad essi riconducibile sotto ogni profilo.
21.2.1 Giudici di merito, dunque, cadono nell’errore di ritenere elementi
costitutivi del reato fatti e comportamenti del tutto eterogenei e totalmente
estranei, sotto ogni profilo, morale e materiale, alla fattispecie di reato. Non v’è
alcuna relazione causale tra le condotte (rectius: ruoli e qualifiche) ascritte ai
correi e la volontà istantanea e unisussistente del Dolce Alfonso di non
presentare le dichiarazioni dei redditi in Italia. Ancor di più, non hanno alcuna
rilevanza, ai fini del concorso nel reato omissivo proprio unisussistente, i
comportamenti (esterovestizione di GADO) del tutto estranei al fatto e allo
95

21.11 concorso nel reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000.

stesso addebito che può essere mosso nei confronti dell’autore principale del
reato. Se non sono rilevanti per quest’ultimo, a maggior ragione non possono
esserlo nei confronti dell’estraneo.
21.3.11 reato omissivo proprio unisussistente, come detto, si consuma alla
scadenza del termine stabilito per l’adempimento. La decisione di omettere
l’azione antidoverosa, quando non condizionata da costringimento fisico o errore
indotto (incontestabilmente esclusi nel caso di specie), appartiene al dominio
finalistico dell’autore sicché la libera volontà che in esso si esprime non si pone

configurabile solo in forma morale, sotto il profilo della istigazione o dell’accordo
a non compiere quella specifica condotta (nel caso di specie la mancata
presentazione in Italia delle dichiarazioni annuali indicate nella rubrica), non
altre.
21.4.Avuto perciò riguardo alle ragioni della condanna dei correi del Dolce
Alfonso si impone la loro assoluzione dal reato loro ascritto perché il fatto non
sussiste, con conseguente annullamento, senza la necessità di un rinvio alla
Corte di appello di Milano, della sentenza e delle relative statuizioni civili, con
assorbimento delle altre questioni relative al trattamento sanzionatorio.
21.5.Nei confronti del Dolce Alfonso (che nulla ha eccepito in ordine al
trattamento sanzionatorio) la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra
Sezione della Corte di appello di Milano che in sede di nuovo giudizio si atterrà ai
principi di diritto sopra enunciati.
21.6.Poiché, nelle more, il reato che riguarda la omessa presentazione della
dichiarazione ai fini IVA relativa all’anno di imposta 2005 è estinto per
prescrizione, in mancanza di evidenza della innocenza dell’imputato,
l’annullamento deve essere disposto senza rinvio limitatamente a tale violazione.

22.Sul risarcimento del danno.
22.1.11 Tribunale di Milano, dato atto che le imposte dovute erano state
pagate, aveva affermato la natura morale del residuo danno vantato
dall’Amministrazione Finanziaria «non tanto ovviamente per l’esposizione a
legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che
condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di
accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
22.2.La Corte di appello, oltre a generici riferimenti all’attenzione mediatica
suscitata dalla vicenda a causa della notorietà dei due stilisti, ha confermato le
statuizioni civili di condanna sul rilievo che l’omissione degli obblighi fiscali aveva
«reso necessaria un’attività finalizzata all’accertamento della violazione, posta
in essere con dispendio di risorse e qualificata applicazione di energie
professionali, dovendo superare il formale apparato predisposto dal contribuente
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in relazione di causa-effetto con condotte altrui. Il concorso di persone è dunque

ed appurare la reale natura dell’attività al di là degli aspetti formali che erano
stati impostati per avvalorare GADO quale soggetto effettivamente operante
all’estero».
22.3.0sserva il Collegio che il danno in tal modo (apoditticamente)
individuato e liquidato non può essere definito di natura “morale” (rectius: “non
patrimoniale”) sia perché esso si identifica esattamente nel dispendio di risorse
ed energie fisiologicamente spese dalla Agenzia delle Entrate nello svolgimento
dei propri compiti di istituto, sia perché si tratta di voce di danno del tutto

Sezioni civili di questa Suprema Corte riconoscono risarcibile nei confronti delle
persone giuridiche e degli enti collettivi (cfr. sul punto già Cass. civ. Sez. i., 10
luglio 1991 n. 7642, Cass. civ. Sez. 1, 5 dicembre 1992 n. 12951, Cass. civ.,
Sez. 3, 3 marzo 2000 n. 2367, cha hanno ricordato come “danno non
patrimoniale” e “danno morale” sono nozioni non coincidenti: il primo comprende
infatti qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che non prestandosi ad
una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere
oggetto di risarcimento, sibbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella
c.d. “pecunia doloris”. Sicché nei confronti delle persone giuridiche – ed in genere
dell’ente collettivo – è configurabile la risarcibilità del solo danno non
patrimoniale).
22.4.11 “danno non patrimoniale” risarcibile in favore delle persone giuridiche
e degli enti ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole ad un illecito che,
non prestandosi ad una valutazione monétaria basata su criteri di mercato, non
possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione (Cass. civ., Sez. 3, n.
29185 del 12/12/2008, Rv. 605960); tra questi il diritto all’immagine, alla
reputazione e all’identità (Cass. civ., Sez. 3, n. 4542 del 22/03/2012).
Costituisce principio consolidato che il danno non patrimoniale da danno
all’immagine dell’ente è integrato – come danno c.d. conseguenza – dalla
diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, nel che si
esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale
diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi
della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo
della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di
settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma
interagisca (Cass. civ. Sez. 3, n. 12929 del 04/06/2007, Rv. 597309; Cass. Sez.
L, n. 22396 del 01/10/2013; Cass. Sez. L, n. 22396 del 01/10/2013).
22.5.Appare dunque evidente che il danno individuato dai Giudici di merito e
liquidato in favore dell’Agenzia delle Entrate non può essere in alcun modo
qualificato come “danno non patrimoniale” (men che meno “morale”) nei termini
in cui esso è stato elaborato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte.

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eterogenea rispetto al “danno non patrimoniale” che da oltre un ventennio le

22.6.Poiché il titolo della condanna al risarcimento del danno è inesistente,
la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in ordine alle
statuizioni civili.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio nei confronti di Gabbana Stefano
Silvio, Dolce Domenico, Ruella Cristiana, Minoni Giuseppe Emanuele e Petrelli

limitatamente alla violazione relativa all’omesso versamento dell’IVA per l’anno
2005, perché estinto per prescrizione e, ancora, in relazione alle statuizioni civili
che elimina e con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano in ordine
alla residua violazione ascritta a Dolce Alfonso.
Così deciso il 24/10/2014

Luciano perché il fatto non sussiste, nonché, nei confronti di Dolce Alfonso,

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