Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 43663 del 14/05/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 43663 Anno 2015
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: PEZZULLO ROSA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CAPONERA FRANCESCO N. IL 13/02/1976
avverso l’ordinanza n. 1408/2014 TRIB. LIBERTA’ di REGGIO
CALABRIA, del 10/01/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Av

Data Udienza: 14/05/2015

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.
Mario Maria Stefano Pinelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente, l’avvocato Francesco Calabrese, che si è riportato ai
motivi di ricorso, insistendo per l’accoglimento di essi.
RITENUTO IN FATTO

1.11 Tribunale di Reggio Calabria Sezione del Riesame, con ordinanza in data
10.1.2015, ha confermato, ai sensi dell’art. 309 c.p.p., l’ordinanza applicativa
della misura cautelare della custodia in carcere emessa dal Giudice per le

2014, nei confronti di Caponera Francesco, in ordine al reato di cui all’art. 416
bis, comma 1, 2, 3, 4, 5 e 8, c.p., per aver partecipato all’associazione
denominata “ndrangheta”, presente ed operante sul territorio della provincia di
Reggio Calabria, sul territorio nazionale ed all’estero, costituita da numerosi
“locali”, articolata in tre mandamenti, con organo di vertice collegiale
denominato “Provincia”, ed in particolare delle sue apicali articolazioni territoriali
denominate “cosca De Stefano” e “cosca Tegano”, tra loro storicamente
collegate, in prevalenza operanti nel locale di Archi di Reggio Calabria.
1.1. I gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato associativo nei confronti
del Caponera emergono dalle dichiarazioni dei collaboratori Moio, Villani, Fiume,
Lo Giudice, nonché dagli esiti delle intercettazioni in carcere delle conversazioni
di Crudo Michele, Siciliano Giancarlo e Polimeni Carmine e dalle acquisizioni
investigative nell’ambito dell’indagine “il padrino”; da tali elementi, secondo il
Tribunale, emerge, in sintesi, che il Caponera, soprannominato “Cicciu u niru”
genero del boss Barbaro Carmelo cl. 48- sottoposto a regime detentivo speciale
bis -raggiunto da una duplice chiamata in correità in ordine all’appartenenza alla
cosca Tegano, intestatario fittizio della società del suocero, risulta essere
persona destinata a favorire gli interessi della cosca ed il governo della latitanza
di Giovanni Tegano, mettendo a disposizione sé stesso, mettendo in contatto
soggetti, o favorendo lo scambio di informazioni, fornendo un contributo
volontario e consapevole per la conservazione ed il rafforzamento delle capacità
operative dell’associazione.
2.Avverso tale ordinanza l’indagato, a mezzo del suo difensore di fiducia, ha
proposto ricorso affidato a due motivi, con i quali deduce:
-con il primo motivo, il vizio di cui all’articolo 606, comma primo, lett. c) ed e)
c.p.p., in relazione all’art. 414 c.p.p., atteso che, l’ordinanza impugnata, pur
mostrando di aderire all’indirizzo pacificamente acquisito in seno alla
giurisprudenza di legittimità – circa la sussistenza di una preclusione all’inizio di
una nuova azione, anche di carattere cautelare, quando in relazione allo stesso
fatto è intervenuto un decreto di archiviazione- tuttavia, ritiene che, nel caso di
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indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria in data 13 dicembre

specie, non ci si trovi al cospetto di un medesimo fatto-reato, bensì di due
contestazioni associative diverse, tali da consentire la possibilità di intraprendere
una diversa e nuova azione cautelare a fronte della intervenuta archiviazione
della prima; in particolare, il giudice procedente si è limitato ad asserire che,
pur a fronte della medesimezza della consorteria ‘ndranghetistica, il
provvedimento di archiviazione «… si riferiva alla cosca De Stefano – Tegano, ma
con una diversa composizione soggettiva del sodalizio mafioso, non essendo stati
nemmeno individuati e specificati i ruoli che, nella presente indagine, vedono

Branca con posizioni apicali»; tale affermazione appare insoddisfacente, a meno
di non volere considerare sufficiente il richiamo alla non coincidenza temporale
delle due diverse contestazioni, ovvero alla non coincidenza della componente
soggettiva, o meglio, al fatto che la non definitezza, sia della componente
soggettiva, che della estensione territoriale della prima contestazione, renda
sostanzialmente preclusa qualsivoglia comparazione tra le stesse, onde
verificarne compiutamente la medesimezza; invero, pur a fronte della non
perfetta identità del periodo di durata tra le due contestazioni, non risulta
preclusivo della possibilità di rinvenire un rapporto di perfetta sovrapposizione e
ciò quantomeno con riferimento al periodo in cui vi è tale perfetta coincidenza tra
le due diverse contestazioni, atteso che la giurisprudenza dì legittimità in
materia di reati plurisoggettivi a concorso necessario e di durata permanente,
ammette la possibilità che vi sia tale diretta preclusione alla possibilità di avvio di
una nuova azione cautelare -sia pure limitatamente al periodo temporale
“coperto” dalla intervenuta pronuncia di archiviazione- escludendo la possibilità
che sia derivabile un giudizio di non identità tra due contestazioni di carattere
permanente, laddove non vi sia una perfetta coincidenza del periodo temporale
di protrazione della perduranza delle stesse; l’ordinanza impugnata ha esplicato
un principio valutativo che appare confliggente con la ormai pacifica e
consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui una eventuale fisiologica
mutazione della componente soggettiva (ovvero anche nella componente
funzionale) del sodalizio, non incide sul giudizio di identità, laddove residui un
addentellato che possa consentire di apprezzarne la stessa;
-con il secondo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all’articolo 606, primo
comma, lett. b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt. 273 c.p.p. e 416 bis c.p.,
per avere la sentenza impugnata:
a) valorizzato una sentenza non definitiva a carico del ricorrente, atteso che la
pendenza di un procedimento penale non può fondare anche solo un giudizio di
gravità indiziaria nei confronti dell’indagato; nel provvedimento impugnato,
invece, vi è stata una acritica trasposizione della semplice pendenza di quel

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non solo il Caponera come partecipe, ma anche altri soggetti, quali il Lavilla e il

procedimento e la pretesa di poterla valorizzare come dato di gravità indiziaria;
l’ordinanza impugnata afferma che

«condivisibile pienamente è l’iter

motivazionale del Gip il quale sottolinea come le risultanze intercettive poste a
fondamento (tra l’altro) della stessa sentenza di condanna evidenzino, in buona
sostanza, il presentarsi del Caponera e del Poi/meni – nel gestire gli affari della
società – come impresa Barbaro, riconducendo, cioè, essi stessi l’operare sociale
alla figura del suocero Barbaro Carmelo, soggetto latitante da tempo…»,

ma

nulla consente di comprendere come tale ammessa presentazione a nome del

fittizia, idonea ad integrare la fattispecie di reato oggetto di contestazione e non,
piuttosto, un semplice rapporto di collaborazione nella conduzione dell’azienda,
che pur sempre era nella titolarità di un familiare; l’ordinanza impugnata
pretende di valorizzare il rapporto tra il ricorrente ed il suocero addirittura quale
elemento di riscontro rispetto alle dichiarazioni di Moio – introdotte in tal senso
senza alcuna preliminare verifica di attendibilità intrinseca soggettiva ed
oggettiva e, comunque, tali dichiarazioni avrebbe potuto avvalorare l’accusa di
interposizione fittizia, che non è oggetto dell’odierno apprezzamento; le
circostanze riferite dal collaborante- secondo cui il Caponera avrebbe curato tutti
i lavori che venivano realizzati nella via Vecchia provinciale di Archi e che
«l’impresa Caponera è riconducibile al Carmelo Barbaro e a Giovanni Tegano»risultano, la prima, priva di dimostrazione, mentre la seconda non può
assumere conducenza al fine di sostanziare il giudizio di partecipazione;
b) conferito valenza indiziante anche al contenuto delle dichiarazioni dei
collaboratori dì giustizia ed, in particolare,
-quanto alla dichiarazioni di Moio Roberto, esse non appaiono connotate da
quell’imprescindibile elemento di storicizzazione che ne possa consentire la
valorizzazione nella prospettiva decisoria, né possono assumere valenza í
riferimenti assolutamente generici, tanto alla circostanza, secondo cui il
Caponera si sarebbe aggiudicato i lavori che si svolgevano in una determinata
via di Archi, quanto la circostanza, secondo cui avrebbe fatto da tramite tra il
suocero (Carmelo Barbaro) e Paolo Schinizzi in qualche circostanza; trattasi,
infatti, di riferimenti assolutamente generici, privi di qualsivoglia storícizzazione,
che certamente non connotano di specificità la dichiarazione accusatoria pure
riferita dal Molo; inoltre, la vicenda della interposizione fittizia non poteva in
alcun modo assumere una connotazione di “genuinità” al fine di avvalorare
l’attendibilità intrinseca oggettiva e ciò per la considerazione che il procedimento
penale in relazione alla suddetta contestazione era stato avviato anni prima
rispetto al momento in cui il Moio ebbe a rendere quelle dichiarazioni e dello
stesso vi era stata un’ampia resocontazione sugli organi di stampa, tema questo

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suocero possa sottendere la sussistenza di una vera e propria interposizione

sostanzialmente eluso dall’ordinanza impugnata; inoltre, la ritenuta attendibilità
del Molo in altri procedimenti non può essere elemento idoneo al fine di
avvalorare il giudizio di attendibilità in relazione alla specifica vicenda oggetto di
contestazione; la dichiarazione del Moio, inoltre, non ha rappresentato un
giudizio di piena e diretta partecipazione del ricorrente al sodalizio de quo, ma lo
ha delineato quasi per interposta persona, avendo testualmente affermato «è un
appartenente alla ‘ndrangheta ed alla cosca Tegano per il tramite di Carmelo
Barbaro»; da tale specifica dichiarazione, si coglie solo la “vicinanza”

ostativo a qualsivoglia possibilità di ancorarlo ad un giudizio di partecipazione
vera e propria;
– quanto alla dichiarazioni di Villani Consolato, esse non appaiono connotate
da attendibilità, avendo riconosciuto il ricorrente senza neppure sapere indicare
come si chiamasse, salvo rammentarlo a seguito di involontaria (ma fortemente
perniciosa) suggestione del soggetto interrogante; in tale prospettiva avrebbe
dovuto deporre anche un’altra circostanza, ossia il fatto che questi aveva riferito
di un dato storicamente falso e cioè che il ricorrente svolgeva la professione di
tassista;
– quanto alla dichiarazioni di Lo Giudice Antonino, esse non sono dotate di
elementi di riscontro e, comunque, l’ordinanza impugnata, contraddittoriamente,
da un lato, ammette la circostanza, secondo cui nessuna riferibilità possono
assumere le dichiarazioni del Lo Giudice rispetto al fatto oggetto di contestazione
e dall’altro pretende, tuttavia, di poter derivare in termini di gravità indiziaria la
prova dell’intraneità del ricorrente dal fatto che si sarebbe incontrato con il
latitante Barbaro Carmelo; una cosa è poter ritenere che l’agevolazione al
latitante possa aver comportato, sotto il profilo prettamente utilitaristico, un
qualche ausilio anche all’associazione, ma cosa diversa è far derivare la prova
della (evidentemente presupposta) appartenenza all’associazione
dall’interessamento per l’agevolazione della latitanza; peraltro, totalmente
trascurata risulta la circostanza secondo cui, sia pure implicitamente, il Lo
Giudice ha smentito il Villani, allorquando ha riferito della propria conoscenza in
ordine alla íntraneità di esso Caponera al sodalizio mafioso oggetto di
contestazione solo de relato, per averlo cioè saputo egli stesso da Lo Giudice
Antonino, mentre quest’ultimo non ha mai riferito di una propria conoscenza in
ordine alla intraneità di esso Caponera a qualsivoglia sodalizio;
-la valutazione conclusiva, secondo cui l’indiziato è raggiunto da duplice
chiamata in correità in ordine all’appartenenza alla cosca Tegano, con dato di
conferma del ruolo di intestatario fittizio della società del suocero -rìnveniente
dagli accertamenti, pregressi alla collaborazione del Molo, che hanno portato alla
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dell’indagato al Barbaro e quel riferimento ad un rapporto “di tramite” appare

decisione di condanna citata, gravata da appello come indicato dallo stesso
indiziato- atteso che trattasi di due dichiarazioni generiche, inidonee secondo la
giurisprudenza di legittimità a configurare i gravi indizi di colpevolezza necessari
per l’emissione di una misura cautelare; del tutto erroneo, pertanto, appare
l’assunto, secondo cui le suddette dichiarazioni sarebbero reciprocamente
riscontrate, essendo evidente come, l’elemento su cui si riscontrano sia solo ed
esclusivamente il giudizio di intraneità genericamente addotto;
c) attribuito valenza indiziarla, al fine di dimostrare l’intraneità dell’indagato al

segnatamente all’eventuale interessamento per conoscere in anticipo
l’esecuzione di eventuali provvedimenti cautelari; inoltre, il dato che si intende
far derivare dalle conversazioni ambientali del detenuto Crudo Michele, circa il
fatto che il ricorrente si prodigava nell’interesse per le attività del medesimo e
per il recupero di somme che non competevano allo stesso, ma che
riguardavano

l’intera

consorteria

criminale,

attraverso

un’occulta

intermediazione, volta a salvaguardare gli interessi economici della cosca, risulta
viziato, non emergendo un interessamento rispetto ai beni della consorteria
complessivamente considerata; dal tenore della ricostruzione operata dagli stessi
giudici del riesame si evince come gli stessi riferimenti depongano nella
prospettiva di ritenere che il preteso interessamento del ricorrente, per bocca
dello stesso soggetto intercettato, non avesse alcunché di riferibilità a vicende di
natura associativa, ma fosse specificamente riferito a fatti personali del Crudo: il
recupero di un credito per delle forniture commerciali nei confronti di una società
in via di decozione e l’eventuale possibilità di provvedere al pagamento delle
spese legali;
d)

erroneamente apprezzato le attività di avvistamento relative al

procedimento denominato “il padrino”; in particolare, va censurata
l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui «… nel caso di
specie appare come l’indagato abbia fornito, proprio attraverso tale suo
adoperarsi nel mettere in contatto soggetti o favorire lo scambio di informazioni,
un contributo concreto, specifico, volontario e consapevole per la conservazione
ed il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione», in assenza della
possibilità di conoscere quale sia il contenuto dei messaggi che – secondo la
prospettazíone accusatoria – sarebbero stati scambiati nel corso di tali incontri,
che appare precludere qualsivoglia possibilità di riferire gli stessi allo specifico
factum probandum: vale a dire, un giudizio di partecipazione del ricorrente ad un
sodalizio mafioso; l’ordinanza impugnata, invece, ha ritenuto, attraverso un vero
e proprio automatismo deduttivo, di riferire tali ritenute attività di dubbia
connotazione ad un giudizio di partecipazione del ricorrente ad un sodalizio
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sodalizio mafioso, ai dati residuali tratti dall’ ordinanza impugnata e

mafioso, senza tuttavia sviluppare un percorso dimostrativo della censurata
conclusione; contraddittorie e congetturali sono, poi, le valutazioni circa l’attività
di agevolazione della latitanza di Tegano Giovanni da parte dell’indagato, anche
mediante gli incontri con lo stesso, al fine di consentirgli di governare la
consorteria, atteso che è la stessa ordinanza a riferire come l’unico elemento
certo da cui partire, sotto il profilo indiziario, sia la ritenuta equivocità delle
modalità attraverso cui gli incontri sono avvenuti, non essendo possibile
comprendere quale sia il contenuto ontologico degli stessi.

Il ricorso non merita accoglimento.
1. Il primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente si duole della violazione,
nella fattispecie in esame, del disposto dell’art. 414 c.p.p., non si presenta
fondato. Il Caponera in sede di riesame ha eccepito di essere stato indagato,
per il medesimo reato associativo di cui all’art. 416 bis c.p., commesso nel
gennaio 1999 e permanente in Reggio Calabria, nell’ambito di altro
procedimento, recante il numero 7826/11 R.G., nel quale è stato emesso dal
G.I.P. competente, in data 19 maggio 2012, decreto di archiviazione su richiesta
del P.M. del 12.10.2011, laddove l’iscrizione del ricorrente nell’ambito del
presente procedimento è avvenuta, senza che sia stato emesso alcun
provvedimento di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. e
conseguentemente in presenza di una condizione di improcedibilità dell’azione
penale.
1.1. A fronte di tale eccezione, il Tribunale, dopo aver richiamato gli indirizzi
di questa Corte in tema di reati permanenti e di efficacia preclusiva
dell’archiviazione, preso atto che nella fattispecie in esame non era intervenuto
il decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini archiviate, ha valutato se
ricorresse effettivamente il “medesimo” reato di associazione mafiosa di cui
all’art. 416 bis c.p., oggettivamente e soggettivamente considerato- per il quale
il Caponera ha visto prima un’archiviazione e successivamente l’elevazione
dell’odierno capo di imputazione nei suoi riguardi- escludendo l’identità del fatto,
avuto riguardo ai partecipanti e alle caratteristiche oggettive dell’organizzazione.
Ha evidenziato, in particolare, il Tribunale che il procedimento per cui è
intervenuta archiviazione si riferiva alla cosca De Stefano – Tegano, ma con una
diversa composizione soggettiva del sodalizio mafioso, non essendo stati
nemmeno individuati e specificati i ruoli che, nella presente indagine, vedono
non solo il Caponera come partecipe, ma anche altri soggetti, quali il Lavilla e il
Branca con posizioni apicali; inoltre, rispetto alla posizione del Caponera sono
stati acquisiti ulteriori elementi di indagine in tempi successivi rispetto

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CONSIDERATO IN DIRITTO

all’archiviazione e specificamente le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia,
valorizzati efficacemente in ordinanza cautelare.
1.2. La valutazione conclusiva del Tribunale, che ha respinto l’eccezione di
improcedibilità dell’azione penale per mancata autorizzazione alla riapertura delle
indagini dopo l’avvenuta archiviazione di quelle già svolte nei confronti
dell’indagato, non merita censura.
1.3. In proposito risultano correttamente richiamati nell’ordinanza impugnata i
principi espressi della giurisprudenza di legittimità in tema di inosservanza

applicazione quanto evidenziato dalle S.U. n. 33885 del 24/06/2010, secondo
cui il difetto di autorizzazione alla riapertura delle indagini determina
l’ìnutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il
provvedimento di archiviazione e preclude l’esercizio dell’azione penale per lo
stesso fatto di reato, oggettivamente e soggettivamente considerato, da parte
del medesimo ufficio del pubblico ministero (Sez. U, n. 33885 del 24/06/2010),
non considerando tale principio la peculiare problematica dei reati permanenti.
Nell’ipotesi di reato permanente a consumazione diacronica e protratta, invero,
questa Corte più volte ha evidenziato che l’intervenuta archiviazione non
corredata dall’autorizzata riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. non
preclude l’apprezzabilità di comportamenti e fatti successivi che valgano a
dimostrare la consumazione del reato e dei suoi segmenti temporali successivi
all’archiviazione (Cass. Sez. 3, 28.9.2004 n. 43952, Rodriguez, rv. 230334;
Cass. Sez. 5, 18.1.2005 n. 17380, Sorce, rv. 231780; Cass. Sez. 6,7.10.2008 n.
38865, Magri, rv. 241751).
Invero, in ipotesi di reati permanenti l’efficacia preclusiva dell’archiviazione,
intesa come inutilizzabilità delle antecedenti acquisizioni conoscitive, impedisce
soltanto che – in caso di mancata riapertura delle indagini – l’azione investigativa
prosegua sulle frazioni temporali della condotta illecita già considerate in
precedenza e sfociate nella archiviazione, ma non interdice lo svolgimento di
indagini in presenza di nuovi fatti o fenomeni indicativi di una condotta criminosa
(permanente) del soggetto agente della stessa natura di quella archiviata.
Il reato permanente è connotato da una struttura unitaria i cui momenti attuativi
sono unificati, nella loro sequenziale e non scomponibile pluralità, da un unitario
e perdurante proposito antigiuridico, atteso che detto reato, quale quello di
associazione per delinquere, per definizione si protrae nel tempo a causa del
persistere della volontaria condotta illecita dell’agente e del coevo protrarsi
dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, donde la logica
inferenza che la decretata archiviazione per una parte cronologicamente definita
dell’ipotizzata condotta associativa non vale ad impedire che l’analoga condotta
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dell’art. 414 c.p.p., rilevando come nella fattispecie in esame non trovi specifica

successiva, espressa da nuove manifestazioni e notitiae criminis che ne offrano
nuova dimostrazione o – se si preferisce – ne rivitalizzino l’attualità, rinvenga
significative tracce probatorie anche nella anteatta condotta dell’agente e, per
restare al caso oggetto di ricorso, della “mafiosità” dell’imputato (Sez. 6, n.
6547 del 10/10/2011).
1.4.La sanzione di inutilizzabilità derivante dalla violazione dell’art. 414 cod.
proc. pen. colpisce, pertanto, solo gli atti che riguardano lo stesso fatto oggetto
dell’indagine conclusa con il provvedimento di archiviazione, e non anche fatti

(Sez. 2, n. 3255 del 10/10/2013).
1.5.La sentenza impugnata ha ritenuto di respingere l’eccezione di
improcedibilità, per violazione dell’art. 414 c.p.p., non ritenendo sussistente
nella fattispecie il medesimo reato di “associazione” mafiosa, innanzitutto in
considerazione della diversità del reato associativo, quanto ai partecipanti e alle
caratteristiche oggettive dell’organizzazione. Orbene, pur volendo condividere in
proposito i dubbi espressi dal ricorrente in merito all’affermazione che si
verterebbe in associazione “diversa” per il solo fatto che risultino individuati
come partecipi soggetti ulteriori rispetto a coloro che sono stati individuati nel
procedimento oggetto di archiviazione, quello che appare decisivo -al fine di
ritenere non preclusivo, nel caso di specie, l’intervenuto decreto di archiviazione,
né necessaria la riapertura delle indagini- è la circostanza che il reato
associativo oggetto del presente procedimento abbraccia, comunque, un’epoca
successiva (“fino al 9.12.2014”), sicchè il segmento temporale posteriore, non
compreso nella precedente contestazione ben può essere attribuito all’indagato
sulla base delle ulteriori emergenze acquisite. Nella fattispecie, infatti, come si
evidenzierà innanzi, le dichiarazioni dei collaboratori poste a fondamento
dell’ordinanza impugnata sono intervenute nel 2014, successivamente al decreto
di archiviazione relativo al procedimento n.7826/2011, che cristallizzava la
condotta associativa ascritta, al Caponera al 2011, circa.
2. Infondato si presenta, altresì, il secondo motivo di ricorso in tutti i suoi
plurimi argomenti di censura.
2.1. In primo luogo, non merita censura la considerazione che ha tratto
l’infondatezza dell’assunto del Caponera – circa la riferibilità della società a sé
stesso ed al cognato anche dalla sentenza non definitiva di condanna del
medesimo, del Polimeni e del Barbaro per l’interposizione fittizia ai sensi
dell’art. 12-quinquies L. 7 agosto 1992, n. 356, aggravato dall’art. 7 L. 203/91.
Questa Corte, invero, ha più volte evidenziato che ì gravi indizi di colpevolezza
richiesti dall’art. 273 c.p.p. ben possono essere desunti da provvedimenti non
definitivi, dato che la previsione dell’art. 238-bis c.p.p. si riferisce
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diversi o successivi, benché collegati con i fatti oggetto della precedente indagine

esclusivamente alle fonti di prova impiegabili ai fini del giudizio sulla
responsabilità penale e non alle condizioni per l’applicabilità delle misure
cautelari (Sez. 6, n. 88 del 06/11/2008, Rv. 242376, Cass., sez. 1^, 2 marzo
2001, Giannino; Cass., sez. 2^, 17 ottobre 1996, Arcidiacono; Cass., sez. 1^,
23 novembre 1992, Bottaro).
Non illogica è, poi, la valutazione secondo la quale la circostanza emergente dal
tenore delle conversazioni oggetto di intercettazione -circa il presentarsi del
Caponera e del Polimeni quale “impresa Barbaro”- costituisce elemento di

(Ciccio u niru), appartenente alla cosca Tegano, a curare tutti i lavori edili che si
realizzano in via Vecchia Provinciale di Archi, essendo l’impresa riconducibile a
Carmelo Barbaro ed a Giovanni Tegano, con situazione analoga a quella della
Multiservizi.
2.2. Va rilevato, inoltre, in linea generale, che si presenta immune da vizi la
valutazione del Tribunale che ha tratto i gravi indizi di colpevolezza a carico del
Caponera dalle chiamate in correità dei collaboranti, analizzate nel rispetto dei
canoni di cui all’art. 273 comma 1 bis c.p.p.. L’ordinanza impugnata, invero,
dopo aver richiamato le sentenze che hanno sancito la sussistenza della “cosca
Tegano” – alcune delle quali divenute definitive (cfr. procedimento “Agathos”
Cass. Sez. 2, n. 30023 del 14/05/2014) ed altre non ancora irrevocabili, nonché
dopo aver richiamato le valutazioni già svolte in proposito da questa Corte con
riguardo all’attendibilità del collaborante Molo, in relazione al procedimento
“Agathos” ed aver analizzato ciascuna delle chiamate in correità, considerando
anche i profili di censura sollevati con il riesame, ha concluso, con ragionamento
immune da censure, per la ricorrenza di un solido e grave quadro indiziarlo a
carico dell’indagato in ordine al delitto associativo provvisoriamente ascrittogli.
Nessun vizio logico o giuridico è ravvisabile nel compendio argomentativo
sviluppato dal Tribunale calabrese a sostegno del requisito ex art. 273 cod. proc.
pen., laddove ha puntualmente dato conto delle evidenze a carico ed, in
particolare, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e degli ulteriori
elementi acquisiti. Il giudice della impugnazione cautelare ha proceduto alla
valutazione di detti elementi singolarmente e, quindi, in modo unitario e globale,
alla luce di condivisibili massime d’esperienza, così da formare un quadro di
elevata probabilità di colpevolezza, in perfetta aderenza al disposto dell’art. 192
cod. proc. pen. Le considerazioni di segno contrario sviluppate dal ricorrente,
oltre ad essere connotate in più punti da genericità, sono, comunque, volte ad
una rilettura degli elementi dì fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice dì merito, dovendosi la Corte
di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di
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riscontro alle dichiarazioni accusatorie del Moio, secondo cui è il Caponera

merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi
percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle
acquisizioni processuali (ex plurimis Cass. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003,
Petrella, Rv. 226074).
2.3. Il ricorrente ha, innanzitutto, censurato le dichiarazioni rese dal
collaborante Molo Roberto, ritenendo che le stesse non si presentano connotate
dall’imprescindibile elemento di storicizzazione, laddove il collaborante si è
limitato ad evidenziare di conoscere

“í generi del Barbaro, ….tale “Ciccio

è un appartenente alla ‘ndrangheta ed alla cosca TEGANO per il tramite di
Carmelo BARBARO; in passato il CAPONERA è stato molto legato a Giuseppe e
Carmine DE STEFANO, di tale gruppo faceva parte anche Paolo Rosario DE
STEFANO; l’impresa del CAPONERA è riconducibile a Carmelo BARBARO e
Giovanni TEGANO”. La deduzione del ricorrente, tuttavia, omette di confrontarsi
con la valutazione operata dal Tribunale, secondo cui la chiamata in correità in
questione non è stata considerata in sé, ma congiuntamente agli esiti delle
risultanze delle intercettazioni, che consentono pienamente di “storicizzare” il
nucleo delle dichiarazioni del propalante, laddove da esse emerge che
effettivamente il Caponera ed il Polimeni gestivano gli affari della società,
presentandosi come impresa Barbaro, riconducendo essi stessi l’operare sociale
alla figura del suocero Barbaro Carmelo ed, anzi, come detto, la condanna
(quantunque non definitiva) per interposizione fittizia dell’indagato costituisce
riscontro delle propalazioni del Moio, escludendone la dedotta genericità.
2.3.1. La doglianza, secondo cui il procedimento per interposizione fittizia è
stato avviato anni prima rispetto alla collaborazione del Moio, sicchè va esclusa
la genuinità della propalazione, avendo il propalante appreso della vicenda dagli
organi di stampa, risulta affrontata non illogicamente dal Tribunale con
l’argomentazione, secondo cui l’attendibilità del Molo è stata accertata in altri
procedimenti e di ciò occorre tener conto, al fine della valutazione
dell’attendibilità del collaborante medesimo, in linea con quanto più volte
evidenziato da questa Corte, secondo cui, in tema di chiamata in correità,
allorquando il giudice del merito è chiamato a valutare l’attendibilità intrinseca di
un collaborante, già ritenuto attendibile in altro procedimento definito con
provvedimento irrevocabile, tale apprezzamento, pur rimesso alla libera
determinazione del giudicante, non può prescindere dagli elementi di prova già
utilizzati nel procedimento esaurito (Sez. 5, n. 11084 del 02/10/1995,
Rv. 203048).
2.3.2. E nella specie questa Corte (Sez. 2, n. 30023 del 14/05/2014) in quel
procedimento ha rilevato come la valutazione dell’attendibilità del Molo sia stata

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Caponera” che cura tutti i lavori edili che si realizzano in via Vecchia Provinciale;

correttamente effettuata dai giudici di merito, in conformità ai parametri
dell’intrinseca consistenza e delle caratteristiche delle dichiarazioni del
chiamante, in base alla precisione, alla coerenza, costanza, spontaneità, logica
interna della narrazione, mancanza di interesse diretto all’accusa, assenza di
eclatante contrasto con altre acquisizioni;
dei riscontri cosiddetti estrinseci cioè esterni al collaborante, atti a sostenere o
supportare la chiamata in correità o reità, sia di natura oggettiva che di ordine
logico ed anche di carattere individualizzante, cioè tali da assumere idoneità

(cfr., Cass., Sez. 2^, n. 21171 del 07/05/2013, dep. 17/05/2013, Lo Piccolo e
altro). Dalle dichiarazioni del Molo, emerge chiara l’esistenza e attuale
operatività della cosca Tegano in Reggio Calabria, che, sebbene decimata dagli
arresti del 2010, ha ancora una forza militare tale che il collaborante si era
persuaso che prima, o dopo, avrebbero attentato alla sua vita e tutte le sue
dichiarazioni, sono state puntualmente riscontrate da altre emergenze
processuali: intercettazioni, servizi di osservazione, pedinamento e controllo e
dichiarazioni di altri collaboratori, da qui la conclusione secondo la quale appare
“difficile trovare un compendio probatorio così completo e in sè intimamente
coerente”.
2.3.3. Partendo dal contesto di ritenuta attendibilità del Molo,

sono state,

quindi, analizzate dal Tribunale, nel presente procedimento, le dichiarazioni del
collaborante con riguardo specifico alla posizione del Caponera, concludendo per
la piena attendibilità di esse, siccome confortate, come già detto, dalle
emergenze captative e da altre dichiarazioni accusatorie.
In tema di chiamata in correità i riscontri dei quali necessita la narrazione,
possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia
rappresentativo, che logico, a condizione che sia indipendente e, quindi, anche
da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia
autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, ed a condizione che
abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fattoreato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato, mentre non è richiesto
che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente” perché, in caso
contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si
fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità
(Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014).
2.3.4. Infine, la deduzione secondo la quale dalle dichiarazioni del Moio si
coglierebbe solo una vicinanza del Caponera alla cosca Tegano e non
l’appartenenza alla stessa, risulta smentita dal contenuto delle dichiarazioni
stesse.
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dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto-reato al soggetto

2.3.5. Quanto alle dichiarazioni di Villani Consolato, il quale anch’egli indica il
Caponera quale affiliato ai Tegano, il giudizio di attendibilità di esse si presenta
immune da censure, laddove il tribunale ha dato compiutamente conto del fatto
che il collaborante ha indicato l’indagato con il suo pacifico soprannome “Ciccío
u niru” ed il rapporto “familiare” con Barbaro Carmelo; inoltre, il fatto che il
Villani abbia indicato nel suo racconto della problematica che aveva interessato
Lo Giudice Antonino- confermata dalle dichiarazioni di quest’ultimo, laddove
riferisce di essere stato portato dal Caponera al cospetto dell’allora latitante

ritenere

del tutto superabile l’indicazione dell’attività di tassista svolta

dall’indagato, da ritenersi senz’altro frutto di un errore,

stante la piena

complessiva veridicità del suo racconto.
2.3.6. Inoltre, non appare illogica la valutazione che ha tratto dalle precise
dichiarazioni di Lo Giudice Antonino in merito all’incontro con il latitante Barbaro
Carmelo, grazie all’ausilio del Caponera, ulteriori elementi di responsabilità a
carico di quest’ultimo, in considerazione del fatto che la possibilità di reperire il
suocero latitante, mettendolo in contatto colui che doveva risolvere una
“problematica”, pare vieppiù dar conto della conoscenza e condivisione delle
dinamiche della cosca attraverso il contatto immediato con il capo di essa.
2.4. Quanto alla valenza di plurime chiamate in correità, il Tribunale ha fatto
corretta applicazione dei principi più volte affermati da questa Corte, secondo
cui, in caso di più chiamate convergenti, i riscontri possono anche consistere
nella circostanza che le dichiarazioni riconducano, anche se in modo non
sovrapponibile, il fatto all’imputato, essendo sufficiente la confluenza su
comportamenti riferiti alla sua persona e alle imputazioni a lui attribuite, cioè
l’idoneità delle dichiarazioni a riscontrarsi reciprocamente nell’ambito della
cosiddetta “convergenza del molteplice” e che il giudice possa affermare
l’autonomia di ciascuna, escludendo reciproche interferenze e fenomeni di
allineamento delle indicazioni più recenti rispetto a quelle raccolte per prime.
(Sez. 4, n. 35569 del 16/04/2003). Nel caso di specie, il Tribunale ha, in
sostanza, escluso artificiose consonanze, tra le dichiarazioni nonché
condizionamenti o reciproche influenze (Sez. 4, n. 35569 del 16/04/2003),
ritenendole convergenti sul nucleo essenziale circa l’intraneità dell’indagato al
sodalizio, uomo di fiducia di Barbaro Carmelo, peraltro allo stesso legato da
vincoli familiari. Tali chiamate, contrariamente a quanto sostenuto dal
ricorrente, non si presentano convergenti “su un dato del tutto generico”, atteso
che sul nucleo essenziale delle dichiarazioni dei collaboranti sì innesta
l’indicazione di dettagli convergenti che lo comprovano, quale l’interposizione del

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Barbaro Carmelo con l’autovettura di un’autoscuola -ha consentito al tribunale di

Caponera nell’impresa del suocero, ovvero il ruolo di raccordo con i latitanti della
cosca.
D’altra parte, lo stesso ricorrente ha evidenziato come plurime, attendibili e
convergenti dichiarazioni di collaboranti di giustizia che si limitino ad affermare la
generica appartenenza di un soggetto ad un’associazione di stampo mafioso
sono idonee a configurare i gravi indizi dì colpevolezza necessari per l’emissione
di una misura cautelare solo quando almeno una di esse indichi specifici atti o
comportamenti che, se pure non necessariamente forniti di autonoma rilevanza

persegui mento degli interessi della consorteria
(Sez. 6, n. 38117 del 09/07/2013).
2.5. In merito, poi, alle altre deduzioni svolte dal ricorrente con il motivo di
ricorso in esame si osserva che gli ulteriori argomenti contenuti nell’ordinanza
impugnata costituiscono, come, peraltro, in sostanza evidenziato dallo stesso
Caponera, solo elementi aggiuntivi rispetto al quadro appena descritto, in sé
sufficiente ad integrare i gravi indizi a carico dell’indagato, sicchè è bastevole
tale constatazione per renderne ultroneo l’esame, non risultando intaccato,
dall’eventuale irrilevanza di essi, il nucleo indiziario essenziale.
In ogni caso, si osserva che non illogica si presenta la ricostruzione della
vicenda Crudo e della natura dell’interessamento del Caponera in base
all’interpretazione del contenuto del colloquio in carcere, mentre la versione
alternativa resa dall’indagato non fornisce una plausibile indicazione delle
ragioni del suo suddetto incontestato interessamento “economico”.
2.6.Per quanto concerne, poi, le deduzioni relative alle attività di avvistamento
relative al procedimento denominato “il padrino”, si osserva che la circostanza
secondo cui il ruolo svolto dall’indagato fosse anche quello di mettere in contatto
“soggetti” pure latitanti emerge già da quanto innanzi evidenziato. Ulteriore
elemento di prova di tale ruolo si coglie pure dagli esiti delle attività espletate nel
suddetto procedimento, dai quali emerge che l’indagato come altri sodali era
solito incontrarsi con gli accoliti presso il Mercatone della Frutta 2 e presso il
banco dei meloni, sito in via Pentimele, costituente appunto il luogo di incontro e
di conversazioni riservate fra i componenti della cosca, con scambio di pizzini o
fugaci scambi di battute; il Caponera, in particolare, risulta videoripreso in data
19/6/2009, mentre inserisce un bigliettino nel vano portaoggetti dell’autovettura
in uso a Polimeni Carmine ed ancora in data 7.8.2009, mentre inserisce qualcosa
nel borsello del Crudo. In tale contesto, la mancata conoscenza del contenuto dei
messaggi che – secondo la prospettazione accusatoria – sarebbero stati scambiati
nel corso di tali incontri, non appare rilevante, risultando al ricorrente contestato
il ruolo di “mediatore” non di autore di specifiche attività svolte nel corso degli
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penale, comunque siano indicativi del consapevole apporto dell’accusato al

incontri o successivamente ad essi e tale ruolo trova conforto nell’attività
captata, circa la consegna di bigliettini nel luogo (banco dei meloni)
normalmente deputato proprio all’incontro dei sodali.
3.11 ricorso, per quanto detto, va respinto ed il ricorrente va condannato al
pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1 ter disp.

Così deciso il 14.5.2015

att. c. p. p.

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