Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 43508 del 28/05/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 43508 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

Data Udienza: 28/05/2014

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Barba Carmelo, nato a Vibo Valentia il 19.3.1982, avverso
l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame di Catanzaro il
17.12.2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Massimo Galli, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;

7-

udito per il ricorrente, in qualità di sostituto processuale dell’avv.
Antonio Porcelli, difensore di fiducia, l’avv. Giuseppe Bagnato, che
ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso, di cui chiede

FATTO E DIRITTO

1. Con ordinanza adottata il 17.12.2013 il tribunale del riesame di
Catanzaro confermava l’ordinanza con cui il giudice per le indagini
preliminari presso il tribunale di Catanzaro, in data 25.11.2013,
aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei
confronti di Barba Carmelo, gravemente indiziato del delitto di cui
agli artt. 56, 610, c.p., 7, I. 203/91, commesso, secondo la
prospettazione accusatoria, in danno Di Costa Pietro.
2.

Avverso tale ordinanza, di cui chiede l’annullamento, ha

proposto ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore di
fiducia, il Barba, che lamenta violazione di legge e vizio di
motivazione, denunciando: 1) l’omessa valutazione, da parte del
tribunale del riesame, dell’attendibilità della persona offesa, su cui
è lecito nutrire dubbi, sia perché il Di Costa, che gestisce
un’attività di vigilanza privata, è portatore di un interesse
economico in conflitto con quello del Punita Michele, concorrente
del Barba nel delitto di cui si discute, sia perché la persona offesa
non ha subito rivelato agli organi inquirenti il ruolo svolto dal
Barba, circostanza per la quale, ad avviso del ricorrente, le sue
dichiarazioni al riguardo devono considerarsi inutilizzabili, essendo
state rese da un soggetto che, avendo commesso il reato di false
dichiarazioni all’autorità giudiziaria procedente per favorire il
Barba, avrebbe dovuto essere ascoltato con le garanzie previste

2

l’accoglimento

dalla legge processuale; 2) l’improcedibilità dell’azione cautelare,
derivante dalla circostanza che per il medesimo fatto il Barba è
stato tratto a giudizio innanzi al giudice di pace di Vibo Valentia,
con una contestazione che, pur facendo riferimento al delitto di

cui è stato emessa la misura cautelare per cui è ricorso; 3)
l’insussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7, I.
203/91, stante l’impossibilità di configurare un metodo mafioso
nella condotta dell’indagato e di dimostrare l’agevolazione del
“clan Lo Bianco-Barba” da parte del ricorrente.
3. Il ricorso non può essere accolto, essendo del tutto infondati i
motivi che lo sostengono, con cui, peraltro, il ricorrente ripropone
le medesime doglianze già prospettate in sede di impugnazione
cautelare, dove sono state disattese dal tribunale del riesame con
motivazione approfondita ed immune da vizi.
4. Ed invero, con particolare riferimento alle doglianze indicate

sub n. 1), va ribadito il principio da tempo affermato nella
giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di misure
cautelari personali, le dichiarazioni accusatorie della persona
offesa, ancorché costituita parte civile, possono integrare i gravi
indizi necessari per l’applicazione della custodia cautelare in
carcere (cfr. Cass., sez. V, 26/04/2010, n. 27774, rv. 247883).
Peraltro, come è stato ulteriormente chiarito, ai fini dell’adozione
di una misura coercitiva, la sussistenza di una prova diretta, come
le dichiarazioni rese dalla persona offesa, esclude la necessità di
fare ricorso al concetto di “gravità” inerente alla prova logica
costituente l’indizio, non occorrendo né la verifica di attendibilità
intrinseca né il riscontro esterno, stante il diverso e più

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cui all’art. 612, c.p., è assolutamente sovrapponibile a quella per

soddisfacente grado di prova acquisita (cfr. Cass., sez. III,
14/04/2010, n. 17205, rv. 246995).
Orbene, nel caso in esame, il giudice dell’impugnazione cautelare
ha proceduto ad un approfondito esame delle dichiarazioni della

la coerenza e la logicità, giungendo, motivatamente, ad una
conclusione positiva, non solo in ordine alla credibilità personale di
quest’ultimo ed all’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni,
ma anche in relazione alla attendibilità estrinseca (non necessaria
ai fini di integrare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza: cfr.
Cass., sez. V, 20.12.2013, n. 5609, rv. 258870) di tali
dichiarazioni, sottolineando come esse siano corroborate da
puntuali riscontri esterni (cfr. pp. 3-5 dell’impugnata ordinanza).
Rispetto a tale limpido argomentare, il dubbio insinuato dalla
difesa del ricorrente sulla mancanza di genuinità delle
dichiarazioni della persona offesa, in quanto portatrice di uno
specifico interesse economico contrastante con quello del suo
concorrente commerciale Punita ovvero per non avere subito
denunciato con chiarezza il Barba, si appalesa come una censura
di merito, peraltro del tutto ipotetica, non consentita in questa
sede ed alla quale, comunque, il tribunale del riesame ha fornito
risposta più che adeguata attraverso l’approfondito esame, nei
termini in precedenza indicati, delle dichiarazioni del Di Costa.
4.1 Quanto alla pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni del Di
Costa, appare sufficiente ribadire un principio costantemente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità, correttamente
richiamato nella motivazione dell’impugnata ordinanza, secondo
cui le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria od
all’autorità giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini,

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persona offesa, della cui narrazione ha evidenziato la precisione,

ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili, per
violazione dell’art. 63, co. 1, c.p.p., solo contro chi le ha rese, ma
sono pienamente utilizzabili contro i terzi, in relazione ai quali la
sanzione processuale della inutilizzabilità prevista dall’art. 63, co.

Pertanto la qualità di teste-parte offesa del reato in relazione al
quale si indaga, prevale rispetto a quella di possibile coindagato in
reato connesso, sicché le dichiarazioni rese dalla persona
informata sui fatti, che abbia reso dichiarazioni autoindiziante
sono pienamente utilizzabili “contra alios”, ne’ se ne può eccepire
l’inutilizzabilità “erga omnes” sulla base del fatto che le stesse
provengono da un soggetto indagato in reato connesso, non
ascoltato con le garanzie previste per la persona sottoposta ad
indagini (cfr., Cass., sez. III, 24.2.2004, N. 15476, rv. 228546;
Cass., sez. II, 1.10.2013, n. 283, rv. 258105).
Né va taciuto che, nel caso in esame, come correttamente rilevato
dal tribunale del riesame, nel momento in cui il Di Costa venne
sentito dagli organi investigativi, non sussistevano concreti e
specifici elementi di reità a suo carico, potendo ragionevolmente
trovare spiegazione “la sua iniziale, parziale reticenza”
nell’accusare il Barba in occasione della denuncia sporta in data
1.9.2009, “nel timore di subire ritorsioni proprio ad opera
dell’autore delle minacce denunciate”, per cui risulta inconferente
in radice la lamentata violazione dell’art. 63, c.p.p., anche in
relazione all’ipotesi di cui al secondo comma della medesima
disposizione normativa (cfr. pp. 2-3 dell’impugnata ordinanza).
L’inutilizzabilità “erga omnes” delle dichiarazioni rese da chi
doveva essere sentito sin dall’inizio come indagato o imputato
prevista dall’art. 63, co. 2, c.p.p., infatti, sussiste solo se al

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1, c.p., non opera.

momento delle dichiarazioni il soggetto che le ha rese non sia
estraneo alle ipotesi accusatorie allora delineate, in quanto la
suddetta inutilizzabilità assoluta richiede che a carico di detto
soggetto risulti l’originaria esistenza di precisi, nel senso di non

condizione possa farsi derivare automaticamente dal solo fatto
che il dichiarante possa essere stato in qualche modo coinvolto in
vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formazione di
addebiti penali a suo carico, né rilevando, a tale proposito,
eventuali sospetti o illazioni personali dell’interrogante (cfr. Cass.,
sez. V, 15.5.2009, n. 24953, rv. 243891; Cass., sez. u.,
23.4.2009, n. 23868, rv. 243417).
4.2. Manifestamente infondato deve ritenersi il motivo di
impugnazione indicato sub n. 2, in quanto le doglianze difensive
non colgono assolutamente nel segno.
Come chiarito, infatti, dal Supremo Collegio nella sua espressione
più autorevole, in sede di definizione del principio del ne bis in
idem, non può essere nuovamente promossa l’azione penale per
un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia
pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede
giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del p.m., di talché
nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta
l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere
rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. La non
procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla
consumazione del potere già esercitato dal p.m., ma riguarda solo
le situazioni di litispendenza relative a procedimenti pendenti
avanti a giudici egualmente competenti e non produttive di una
stasi del rapporto processuale, come tali non regolate dalle

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equivoci, anche se non gravi, indizi di reità, senza che tale

disposizioni sui conflitti positivi di competenza, che restano invece
applicabili alle ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici
di diverse sedi giudiziarie, uno dei quali è incompetente (cfr.
Cass., sez. un., 28/06/2005, n. 34655).
come

correttamente

rilevato

dal

giudice

dell’impugnazione cautelare, “nel caso in esame, attesa la
diversità della sede giudiziaria e dell’ufficio del p.m. procedente”
(Vibo Valentia e Catanzaro), “potrebbe, al più porsi una questione
di competenza – e non anche di litispendenza – regolabile con le
disposizioni sui conflitti di competenza in caso di duplicazione del
processo” (cfr. pp. 1-2 dell’impugnata ordinanza).
4.3. Infondato, infine, risulta del pari l’ultimo motivo di ricorso,
avendo il tribunale del riesame, attraverso un condivisibile
percorso argomentativo, evidenziato come le minacce rivolte dal
Barba al Di Costa, in presenza del Punita, siano di “tipo mafioso”,
consistendo nella “rappresentazione di rappresaglie intimidatorie
tipiche del modus operandi delle associazioni di stampo mafioso
(ossia il compimento di attentati dinamitardi con l’uso di esplosivi:
“devi lasciarlo stare con queste denunce altrimenti ti mettiamo le
bombe agli abbonati”)” ovvero in “implicite allusioni di contiguità a
contesti di criminalità organizzata (“Punita ci appartiene, dà da
mangiare a noi ed alle nostre famiglie”)”, che, tenuto conto del
“contesto territoriale di riferimento, in cui la consapevolezza
dell’agire della criminalità organizzata è diffusa in ogni strato
sociale”, appaiono “oggettivamente idonee a richiamare nella
mente della vittima l’esistenza dei pericolosi sodalizi criminali che
notoriamente dominano il territorio” (cfr. p. 5 dell’impugnata
ordinanza).

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Pertanto,

Anche in questo caso la decisione del giudice dell’impugnazione
cautelare deve ritenersi conforme all’approdo interpretativo cui è
giunta in subiecta materia la giurisprudenza della Suprema Corte,
condivisa dal Collegio, secondo cui la circostanza aggravante di

due ipotesi previste dall’art. 7, I. 203 del 1991, ricorre quando
l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in
reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in
essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare
coartazione psicologica – non necessariamente su una o più
persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero
indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e
tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante
dall’organizzazione criminale della specie considerata.
In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa,
costituente il logico presupposto della più grave condotta
dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità
ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può
essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la
condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per
sé tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie
e sodalizi mafiosi, amplificatori della valenza criminale del reato
commesso, la cui effettiva operatività in una determinata zona,
come nel caso in esame, rafforza il carattere “mafioso”
dell’intimidazione posta in essere (cfr., ex plurimís, Cass., sez. I,
18.3.1994, n. 1327, rv. 197430; Cass., sez. I, 26.11.2008, n.
4898, rv. 243346)
5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in
premessa va, dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai

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avvalersi delle condizioni previste dall’art. 416 bis, c.p., una delle

sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

Così deciso in Roma il 28.5.2014

spese processuali.

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