Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4348 del 16/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 4348 Anno 2013
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: DE MARZO GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Singh Tarminder, nato a Daroli Kalan (India) in data 06/02/1979

avverso la sentenza del 20/01/2011 della Corte d’appello di Brescia R.G.
1971/2009
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Giuseppe De
Marzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Sante
Spinaci, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

Ritenuto In fatto
1. Per quanto ancora rileva, con sentenza del 20/01/2011 la Corte d’appello di
Brescia, in parziale riforma della sentenza del 13/06/2008 del Tribunale di
Bergamo, ha confermato l’affermazione di responsabilità di Singh Tarminder in
relazione al reato di cui agli artt. 48, 110 e 479 cod. pen., e la pena irrogata,
tuttavia, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e la
non menzione della condanna.
2. Nell’interesse del Singh è stato proposto ricorso per cassazione, affidato a due
motivi.

1

Data Udienza: 16/11/2012

2.1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod.
proc. pen., che la Corte territoriale non abbia rispettato il principio di specialità,
alla stregua del quale avrebbe dovuto applicarsi quanto previsto dall’art. 1 del
d.l. 9 settembre 2002, n. 195, conv. con modificazione dalla I. 9 ottobre 2002, n.
222, ovvero la meno grave fattispecie di cui all’art. 480 cod. pen.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed
e) cod. proc. pen., che la Corte, non esaminando specificamente la posizione del
ricorrente, non aveva considerato l’assenza di prove in ordine alla natura fittizia

a

rispondere per i fatti commessi da altro soggetto.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
1.1. La tesi del ricorrente, il quale ha invocato l’applicazione dell’art. 1 del di. n.
195 del 2002, conv. dalla I. n. 222 del 2002, come rilevato dalla Corte territoriale,
non può essere accolta, giacché la fattispecie incriminatrice delineata da
quest’ultima disposizione ha carattere sussidiario. L’art. 1, comma 9 del d.l. n.
195 del 2002 cit., fa espressamente salvo il caso, ricorrente nella specie, che il
fatto costituisca più grave reato.
1.2. Anche l’art. 480 cod. pen. è inapplicabile. La norma sanziona la condotta del
pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente in
certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a
provare la verità.
Sono atti pubblici i documenti costitutivi di diritti ed obblighi, ovvero destinati ad
avere funzione probatoria, aventi una propria individualità ed autonomia, in
quanto, se pure contengono dati risultanti da altri documenti e a questi si
riferiscono, comprovano e rappresentano una nuova situazione giuridica, laddove
i certificati sono quei documenti derivati aventi efficacia meramente dichiarativa,
essendo limitati alla mera documentazione di fatti dei quali, di regola, già esiste
traccia in atti ufficiali (Sez. 6, n. 473 del 14/04/1971, Festuccia, Rv. 118007;
nonché, a riprova della continuità dell’orientamento, Sez. 2, n. 46273 del
15/11/2011, Battaglia, Rv. 251550, in motivazione), mentre le autorizzazioni sono
atti unilaterali della pubblica amministrazione, che rimuovono, nei confronti di
singoli soggetti, permanentemente o temporaneamente, i limiti posti dalla legge
a determinate attività (Sez. 1, n. 1270 del 14/10/1969, Bisogno, Rv. 113962; in
generale, v. Sez. U, n. 673 del 20/11/1996, Botta, Rv. 206661).
Coerentemente con tali premesse, questa Corte ha ritenuto che il permesso di
soggiorno rilasciato a cittadini extracomunitari è un atto deliberativo del pubblico
ufficiale e non un atto meramente narrativo o derivato, con la conseguenza che è
configurabile il reato di falso ideologico in atto pubblico per induzione nel caso in
cui taluno ottenga la concessione del permesso, come nella specie, mediante

2

del rapporto di lavoro del Singh, il quale non poteva essere chiamato

false dichiarazioni o attestazioni, le quali integrano il presupposto di fatto
dell’atto pubblico (Sez. 5, n. 29860 del 16/06/2006, Chen, Rv. 235148).
2. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte, con
argomentazioni adeguate e coerenti, ha sottolineato che nessuno degli imputati
e, quindi anche l’odierno ricorrente, svolgeva per l’apparente datore di lavoro
l’attività indicata nella domanda prodotta all’ufficio pubblico, ma al più sporadici
e occasionali interventi. Le generiche censure prospettate, prive di specifici
riferimenti agli atti del processo, non scalfiscono la logicità di tale accertamento.

situazione, implicando il mancato perfezionamento del rapporto processuale,
cristallizza in via definitiva la sentenza impugnata, precludendo in radice la
possibilità di rilevare di ufficio l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta
successivamente alla pronuncia in grado di appello (cfr., tra le altre, Sez. U, n. 21
dell’11/11/1994, Cresci, Rv. 199903; Sez. 3, n. 18046 del 09/02/2011, Morra, Rv.
250328, in motivazione).
4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al
versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione
delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma il 16/11/2012

Il Componente estensore

3. Il presente ricorso, in conclusione, va dichiarato inammissibile e tale

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