Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 43447 del 24/09/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 43447 Anno 2014
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SAVINO MARIAPIA GAETANA

Data Udienza: 24/09/2014

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CIVIELLO GAETANO N. IL 16/12/1964
POSABELLA GIOVANNI N. IL 11/02/1963
POSCA DAVIDE ARDINGO ALFREDO N. IL 22/10/1969
avverso la sentenza n. 139/2013 CORTE APPELLO di TRENTO, del
16/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/09/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIAPIA GAETANA SAVIN
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
2–te
che ha concluso per

e,

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor AvvTh’

se–k-1/4-‘ h`r3

iL

Ritenuto in fatto

Con sentenza emessa in data 24 ottobre 2012 il Tribunale di Trento dichiarava Posca Davide
colpevole del reato di cui all’art. 348 c.p. perché somministrando farmaci e sostanze dopanti a
Fontana Giovanni e ad altri soggetti non identificati e, comunque, fornendo loro indicazioni sulla
posologia del medicinale da assumere, esercitava abusivamente la professione medica; Posabella

qualità di responsabile medico del servizio sanitario nazionale della federazione ciclistica italiana,
al fine di alterare le prestazioni agonistiche dell’atleta Stropparo Annabella, favorito l’utilizzo da
parte della stessa di farmaci e sostanze dopanti ed in particolare per non aver comunicato ai
competenti organi sportivi che la Stropparo stava facendo infiltrazioni di Kanacort (farmaco allora
compreso nelle classi di cui all’art. 2 1. 376/2000 per i quali siffatte comunicazioni sono
obbligatorie) al fine di ottenere l’esenzione a fini terapeutici e per aver inoltrato la comunicazione
di urgenza di assunzione del farmaco vietato solo al momento in cui la suddetta veniva sorteggiata
per i controlli antidoping, ottenendo così l’autorizzazione preventiva e permettendo all’atleta un
utilizzo prolungato del farmaco, non giustificato da specifica patologia; Civiello Gaetano del reato
di cui all’art. 9 co. 1 1. 376/2000 perché in qualità di ciclista della società sportiva “Team Carimate
ADS”, al fine di alterare le proprie prestazioni agonistiche, aveva in più occasioni assunto farmaci e
sostanze dopanti. Condannava il Posca alla pena di euro 500 di multa, il Posabella alla pena di mesi
9 di reclusione e 3.500.00 euro di multa oltre all’interdizione dalla professione sanitaria per la
durata di anni 1 ed all’interdizione permanente dagli uffici direttivi del CONI, delle Federazioni
Sportive Nazionali, Società, Associazioni ed Enti di Promozione riconosciuti dal CONI (pena
sospese), il Civiello alal pena di mesi 3 di reclusione e 2.500,00 euro di multa. Condannava, inoltre,
i predetti al pagamento pro quota delle spese processuali; al risarcimento del danno in favore della
costituita parte civile liquidato in complessivi euro 20.000,00 nonché alla rifusione delle spese di
costituzione e patrocinio dalla stessa sostenute e liquidate in complessivi 10.650 euro oltre IVA e
CNPA se dovuti. Assolveva, infine, il Civiello ed il Posca dai residui reati loro originariamente
ascritti, rispettivamente od in concorso, per non aver commesso il fatto.
Il procedimento in esame prende le mosse da un’indagine nata da una fonte confidenziale che aveva
riferito come alcuni atleti della nazionale di cross country e marathon fossero soliti consumare
sostanze dopanti con la connivenza del CT, Palhuber Hubert e del responsabile medico della
nazionale dott. Posabella. Sulla base di tale informazione veniva effettuato un primo controllo dei
bagagli della nazionale in occasione del rientro da una trasferta a Cipro ed un’attività di
intercettazione sull’utenza del dott. Posabella e del CT. Dall’intercettazione sull’utenza del

Giovanni colpevole del reato continuato di cui all’art. 9 co. 1 e 3 lett. c) 1. 376/2000 per avere, in

Posabella emergeva la posizione della Stropparo e, di conseguenza, veniva messa sotto controllo
anche l’utenza di quest’ultima. Da tale attività di captazione dell’utenza della Stropparo emerge che
la stessa si accordava con il Posabella al fine di eludere i controlli antidoping tramite il sistema della
autorizzazione di emergenza. In pratica l’atleta, una volta sorteggiata per il controllo, contattava
tramite sms il medico il quale faceva partire la certificazione dell’intervenuta patologia che
giustificava a posteriori l’uso del farmaco non consentito dalla normativa antidoping. In questo

all’insaputa della federazione e degli organi di vigilanza. Orbene dalla intercettazione della
Stropparo emergeva inoltre la figura del Brozzu e di conseguenza anche le posizioni degli altri
coimputati.
In particolare, il giudice di prime cure fondava la responsabilità del Civiello sul sequestro presso la
di lui abitazione di svariate sostanze dopanti ritenute dal CT del PM, teste Borrione, uno strutturato
programma di doping comprensivo di sostanze con effetto anabolizzante, di sostanze idonee a
contrastarne gli effetti negativi e sostanze aventi un’azione dolhprente seppur, come emerso
dall’analisi della cartella clinica dell’imputato, non sussistesse alcuna indicazione per l’assunzione
dei predetti farmaci.
Quanto al Posabella, invece, la sentenza di primo grado fonda la ritenuta responsabilità per il reato a
lui ascritto su alcune intercettazioni dalle quali emergeva la consuetudine da parte dello stesso / in
caso di controllo antidoping della Stropparo/ di inoltrare la comunicazione di assunzione di farmaco
vietato con la procedura di urgenza consentendole, così, la libera e continuativa assunzione di
farmaci dopanti (conversazioni nn. 2993 del 23 giugno 2007, 3002 del 24 giugno 2007, 3206 del 29
giugno 2007, 3534 del 7 luglio 2007, 3544 dell’8 ottobre 2007).
Infine i con riguardo al Poscaz il Tribunale fondava la responsabilità in relazione al reato di esercizio
abusivo della professione sull’intercettazione di alcune conversazioni telefoniche con tale Antonio
(in data 22 giugno 2007), con Fontana Gianni (in data 3 e 5 settembre 2007) e tra i coimputati
Brozzu, Stropparo e Pellegrini (in data 9 giugno 2007) cui si aggiunge la deposizione del
maresciallo Boi che aveva notato alla porta dello studio dell’imputato una targa con scritto “Dott.
Posca” con indicazione degli orari di ricevimento. Dalle suddette captazioni, infatti, emergeva
come il Posca desse indicazioni precise e specifiche al Fontana in relazione agli anomali valori
dell’ematocrito riscontrate dal suo medico, tranquilizzandolo e prescrivendogli la riduzione
dell’assunzione di un farmaco non meglio identificato ma causa dell’anomalia riscontrata; appariva
inoltre evidente che il Posca fosse a conoscenza dell’assunzione da parte del Fontana di tale
farmaco e delle quantità normalmente dallo stesso assunte tanto che gli indica come e per quanto
tempo ridurre il dosaggio e di prendere della calciparina. Quanto alla conversazione con tale

modo il Posabella consentiva alla Stropparo di fare continuativamente uso del farmaco proibito

Antonio, non meglio identificato, il Posca gli fissa un appuntamento dopo che lo stesso gli riferisce
che “c’è un valore, proprio quello che dicevi tu, la glicemia” evidentemente alterato. Nella
conversazione del 9 giugno tra Brozzu e Pellegrini il primo dice al secondo che lo sanno tutti che
“vai a caricarti come una sveglia” dal Posca alludendo alla disponibilità da parte dello stesso a
rifornire e somministrare sostanze dopanti.
Proposto appello, la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza di primo grado,

riduceva la pena allo stesso inflitta a mesi 7 di reclusione ed euro 3.000,00 di multa; revocava le
disposizioni civili nei confronti del Posca, riducendo la liquidazione del danno complessivo a carico
dei restanti imputati ad euro 15.000,00 e rideterminava la liquidazione delle spese a favore della
parte civile per il primo grado ad euro 8.650,00 oltre accessori di legge; confermava nel resto e
condannava il Civiello al pagamento delle spese del grado nonché costui e il Posabella, in solido,
alla rifusione delle spese in favore della parte civile per il grado liquidate in complessivi euro
3.000,00 per compensi oltre IVA e CNPA.
Avverso tale pronuncia gli imputati hanno interposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi:

Posabella Giovanni

1) Violazione degli artt. 266 e 271 c.p.p. in relazione alla nullità dell’ordinanza resa in data 9
giugno 2011 ammissiva delle intercettazioni e conseguente inutilizzabilità assoluta delle telefonate
captate in violazione di norme imperative di legge con conseguente inutilizzabilità dei risultati
probatori derivanti dal predetto illecito utilizzo.
La difesa lamenta innanzitutto l’assoluta inutilizzabilità dei risultati dell’attività di intercettazione
sopra delineata in quanto effettuata in palese violazione dei limiti tassativi posti dal codice di rito:
seppur l’indagine è partita contro ignoti in relazione al reato di cui al co. 7 dell’art. 9 1. 367/2000,
reato con un limite edittale rientrante nella previsione dell’art. 266 c.p.p., successivamente si è
avuta una derubricazione nel reato di cui all’art. 9 co. 1 stessa legge. Dunque, a detta della difesa,
l’iniziale e più grave imputazione sarebbe stata finalizzata ad eludere i limiti di legge consentendo
all’autorità procedente di realizzare un’attività investigativa sostanzialmente preclusa. Insomma
te wm.Y0%.!
l’iniziale e più grave addebito più cheTa’lle caratteristiche del fatto illecito in esame sarebbe frutto
della volontà di aggirare i limiti posti dall’art. 266 alla possibilità di intercettare.
A sostegno di tale ricostruzione la difesa fa riferimento ad “una serie di riscontri che, in modo
univoco, asseverano l’elusione da parte della pubblica accusa della benché minima correttezza
processuale che pur si impone anche a garanzia dell’imputato, in un contesto come quello in
3

concedeva al Posabella le attenuanti generiche valutate equivalenti alla contestata aggravante e

oggetto dove gli elementi a discarico erano presenti e rilevanti e, comunque, le knergenze
investigative del momento erano assolutamente ostative ad una diversa ipotesi di reato rispetto a
quella poi cristalizzatesi nel capo di imputazione. Pertanto, l’unica alternativa esperibile, dai
profili molto discutibili, era quella di fondare la richiesta di captazione sulla base di un capo di
imputazione, che disattendendo le prime significative emergenze processuali, almeno
apparentemente potesse resistere positivamente alla verifica del GIP”.

proprie richieste secondo la quale l’uso sistematico di sostanze dopanti non può svolgersi senza che
il reperimento, la diffusione e l’impiego di tali sostanze avvenga in modo organizzato e
continuativo, seguendo programmi prestabiliti: tutti elementi che costituiscono indice sintomatico di
un’attività di commercio di detti farmaci sussumibile sotto la fattispecie di cui al co. 7 dell’art. 9 1.
367/2000.
2) Violazione di legge e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla ammissibilità delle intercettazioni telefoniche ed alla loro utilizzabilità
La difesa censura la motivazione data dalla Corte territoriale con riguardo alla ritenuta utilizzabilità
delle intercettazioni esame. Secondo i giudici di seconde cure, infatti, il divieto dell’art. 271
riguarda solo i provvedimenti adottati ab origine al di fuori dei casi consentiti dal 266, cioè in
ipotesi di vizio genetico dell’autorizzazione e non i casi in cui il giudice, successivamente, ritenga
di modificare la qualificazione giuridica del fatto.
Orbene sul punto la motivazione della sentenza di appello appare del tutto assente nella misura in
cui la Corte territoriale si è limitata a citare una giurisprudenza, peraltro a detta della difesa del tutto
inconferente, senza indicare in modo soddisfacente le ragioni della ritenuta piena utilizzabilità delle
suddette intercettazioni. Così facendo la Corte territoriale si è limitata a confermare acriticamente la
decisione del Tribunale non attribuendo alcuna rilevanza alla ordinanza del GUP che aveva invece
ritenuto inutilizzabili i risultati dell’attività di captazione in esame.
3) Vizio di motivazione in ordine al ritenuto scorretto uso del farmaco da parte della Stropparo in
assenza di idonea certificazione medica comprovante la tendinopatia rotulea .
In sostanza la difesa si lamenta del fatto che la Stropparo effettivamente presentasse la patologia
che giustificava l’uso del farmaco prescritto dal dott. Posabella e, sebbene lo stesso non la avesse
visitata direttamente prima della prescrizione, comunque al momento ahoggréessa sussistevano
elementi idonei a giustificare l’uso del Kenacort, farmaco appunto usato per la cura delle tendiniti
Difatti la Stropparo aveva subito degli incidenti durante la sua carriera di ciclista ed era stata anche
ricoverata, sempre a detta della difesa, per traumi conseguenti agli stessi.

4

Del tutto priva di pregio, poi, è per la difesa la motivazione posta dal PM a fondamento delle

4) Inosservanza ed erronea applicazione di norme giuridiche vigenti presso l’UCI aventi carattere
vincolante e comunque travisamento della prova e/o manifesta illogicità della motivazione sul
punto.
Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, secondo la difesa il Posabella non avrebbe
fatto altro che adempiere il proprio dovere mandando la certificazione e comunicando agli organi di

(tendinite rotulea) della quale la stessa è affetta.
5) Violazione di legge con riguardo all’art. 2 c.p. e mancata valutazione di prova decisiva con
conseguente carenza di motivazione in ordine alla documentazione ammessa all’udienza del 21
ottobre 2010. Mancanza di motivazione in ordine alla documentazione allegata nell’atto di appello
con riferimento al punto 7 dell’interposto appello
La difesa in sostanza si duole del fatto che la Corte di Appello non abbia assolto il Posabella perché
il fatto non è più previsto dalla legge come reato sulla base della nuova normativa antidoping che ha
liberalizzato l’uso del Kenacort per via intrarticolare. Difatti secondo la difesa la Stropparo era
solita utilizzarlo in tal modo mentre la Corte di appello nella motivazione ha escluso la assoluzione
non essendovi prova che l’atleta fosse solita fare infiltrazioni di detto farmaco dal momento che è
stato accertato che il dott. Bellanille praticò mai siffatte infiltrazioni pur avendolo attestato
falsamente.
6) Vizio di motivazione in ordine alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p.
Mancata valutazione di prove decisive conseguenti anche all’ammissione di documenti prodotti
all’udienza del 21 ottobre 2010 dalla difesa Stropparb.
La difesa si lamenta del fatto che la Corte di Appello, pur rilevando la mancanza di prova in
relazione al fatto che la Stropparo facesse solo delle infiltrazioni locali di Kenacort (quindi
attualmente consentite)I non abbia accolto la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria ammettendo la
produzione documentale della difesa Stropparo all’udienza del 21 ottobre 2010. Trattavasi di
documenti provenienti dall’UCI ed indirizzati alla Stropparo che avrebbero permesso di chiarire
molti aspetti della vicenda specie se interpretati con l’ausilio di un rappresentante della
Commissione Antidoping dell’UCI citato quale organo deputato a fornire i necessari chiarimenti.
Adempimento questo ritenuto dal difensore assolutamente necessario al fine di decidere sulla
responsabilità del Posabella.

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vigilanza l’assunzione da parte della Stropparo del farmaco non consentito a causa della patologia

Posca Davide Ardingo Alfredo

1) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla incompetenza per territorio del
Tribunale di Trento (eccezione già sollevata in udienza preliminare e riproposta nel termine di cui
all’art. 491 c.p.p.- impugnazione dell’ordinanza dibattimentale del 10 giugno 2010 ritualmente
riproposta come motivo di appello).

c.p. e 9 co. 1 1. 376/2000 (perché in esecuzione del medesimo disegno criminoso, in concorso tra
loro, al fine di alterare le prestazioni agonistiche dei ciclisti Stropparo Annabella e Pellegrini Piero,
entrambi tesserati, procurava, somministrava o comunque favoriva l’utilizzo di farmaci o sostanze
dopanti ricomprese nelle classi previste dall’art. 2 della predetta legge, che prescrive le sostanze
proibite, non giustificate da condizioni patologiche ed idonei a modificare le condizioni psicofisiche
o biologiche dell’organismo o comunque procurava, somministrava o favoriva l’utilizzo di farmaci
o sostanze dirette a modificare i risultati dei controlli antidoping; farmaci e sostanze che poi
venivano assunti dalla Stropparo e dal Pellegrini) e che per tale condotta e per il fatto che forniva ai
suddetti atleti ed ad altri soggetti indicazioni sulla posologia e l’assunzione dei predetti farmaci è
stato condannato per esercizio abusivo della professione medica, la difesa contesta il criterio di
individuazione della competenza territoriale applicato dai giudici di merito.
Invero, nonostante la censura mossa dalla difesa del Posca nell’atto di appello, la Corte territoriale
ha confermato la competenza del Tribunale di Trento sul presupposto che le violazioni dell’art. 9
co. 1 risultavano poste in essere da più soggetti in concorso tra loro nell’esecuzione di un medesimo
disegno criminoso (reati connessi ex art. 12 lett. b c.p.p.). Dunque trattandosi di un’ipotesi di
connessione occorreva applicare l’art. 16 c.p.p. a mente del quale in caso di procedimenti connessi
in relazione ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia la competenza territoriale
spetta al giudice competente per il reato più grave ed in caso di parità a quello competente per il
primo reato. Orbene, essendo il reato più grave quello di cui all’art. 9 1. 376/2000, la Corte di
appello esclude l’applicabilità dei criteri di cui all’art. 8 ed all’art. 9 co. 1 c.p.p. in quanto
suscettibili di comportare la competenza di giudici diversi; precisa che Carugo, sede dello studio del
Posca, non è detto che sia l’ultimo luogo in cui è avvenuta la consumazione una parte dell’azione o
dell’omissione dell’ultimo reato; atteso il concorso di persone non afferma che è impossibile far
riferimento al criterio del luogo di domicilio o residenza dell’imputato e conclude per l’applicabilità
dell’ultimo comma dell’art. 9 in base al quale è competente il giudice del luogo ove ha sede il PM
che ha provveduto per primo all’iscrizione. Di conseguenza individua la competenza nel luogo della
prima iscrizione, cioè Trento.
6

Premesso che al Posca era stato inizialmente contestato anche il reato di cui agli artt. 81 co. 2, 110

Orbene la difesa critica tale ricostruzione nella parte in cui non riconosce l’autonomia della
condotta del Posca il quale è stato ritenuto responsabile del solo reato di cui all’art. 348 c.p. con
conseguente competenza del giudice del luogo ove sono state poste in essere le condotte di esercizio
Canue,

abusivo della professione medica: cioè il Tribunale di Como trovandosi appunto Gafflo in detta
provincia. Peraltro, nota la difesa, anche volendo considerare l’originario addebito a carico del
Posca si perviene alla medesima soluzione: infatti, a detta del difensore, comunque la condotta del

parte della Stropparo e del Pellegrini. Con la conseguenza che del tutto irrilevante sarebbe
l’argomentazione della Corte territoriale secondo la quale “la tesi della totale autonomia del titolo
di responsabilità del Posca non può trovare ingresso di fronte ad una contestazione che ha
cristallizzato l ‘ipotesi concorsuale “(cfr. p. 9 ricorso).
In particolare, precisa la difesa “per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre
rilevare subito che, al di là del generico riferimento all’art. 110 c.p. nel capo di imputazione già
contestato al Posca sub a) non era descritto né si rinveniva alcun fatto, alcuna condotta o alcuna
circostanza che potesse far ritenere la sussistenza di un concorso di persone tra lo stesso e gli
atleti”.
Ancora la difesa sostiene che l’art. 9 1. 376/2000 punisce chi procura ad altri, somministra, assume o
comunque favorisce l’uso di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente idonee ad
alterare le prestazioni agonistiche degli atleti e/o a modificare i risultati dei controlli antidopping; si
tratterebbe, quindi, di una “norma a più fattispecie” nel senso che ciascuna delle condotte indicate
sarebbe di per sé idonea ad integrare un’autonoma ipotesi delittuosa ancorché l’una possa costituire
l’antecedente od il susseguente logico o fattuale dell’altra. In altri termini, secondo tale assunto, le
diverse azioni del procurare, somministrare o favorire, da una parte, e dell’assumere dall’altra,
esauriscono, ciascuna singolarmente, il contenuto di disvalore della norma e sono idonee ciascuna
indipendentemente dall’altra ad integrare gli estremi del reato in esame.
Più precisamente afferma la difesa “il procurare farmaci o sostanze allo scopo di alterare le
prestazioni agonistiche degli atleti o incidere sui relativi test integra un’ipotesi autonoma e perfetta
di reato- tanto quanto l’assumerli con le medesime finalità- senza che vi sia alcuna necessità, ai fini
della punibilità, di ipotizzare il concorso dell ‘autore nel reato dello sportivo che, a sua volta,
assuma detti farmaci. Nel caso di specie al Posca era contestata la condotta, nella sua esaustiva
formulazione normativa, di aver procurato farmaci dopanti a Stropparo e Pellegrini (…) a questi
ultimi, invece, di aver assunto le sostanze de quibus”.
Sotto tale punto di vista, sostiene la difesa, che la contestazione del PM non consisteva in un
generico rinvio alle diverse ipotesi previste dalla legge ma determinava una reale selezione dei
7

ricorrente sarebbe da considerarsi del tutto autonoma rispetto al consumo dei farmaci proibiti da

peculiari profili di responsabilità sulla base delle condotte rispettivamente ascritte a ciascun
imputato, circoscrivendo l’addebito rispetto al quale da una parte era chiamato a rispondere il Posca
e dall’altra gli atleti.
2) Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità delle intercettazioni e degli
sms (eccezione già sollevata in sede di udienza preliminare ed ivi accolta e poi riproposta davanti al
giudice del dibattimento- in particolare impugnazione dell’ordinanza del 9 giugno 2011 riproposta

In particolare la difesa contesta l’utilizzabilità delle intercettazioni sopra rammentate / essendo state
realizzate in relazione a reati non rientranti nella previsione dell’art. 266 c.p.p. Nota, infatti la
difesa, che i reati originariamente contestati al Posca prevedono come massimo edittale la
reclusione fino a tre anni e la reclusione fino a 6 mesi né ricorrevano nel caso di specie le
condizioni legittimanti ‘intercettazioni previste dalla norma appena menzionata.
Tale censura era stata avanzata dalla difesa già a partire dall’udienza preliminare ed il GUP aveva
accolto l’eccezione affermando che la pena prevista per i reati contestati al Posca non consentiva
umalkame.
l’impiego del mezzo di ricerca della prova in esame cd=id=ixtbgt che originariamente il fatto fosse
rubricato ai sensi dell’art. 9 co. 7 non rileva poiché allora per il reato minore dovrebbe essere
applicato l’art. 270 con valutazione ex post dell’utilizzabilità. Orbene la difesa si lamenta del fatto
che, al contrario, il giudice del dibattimento, ignorando l’ordinanza del GUP, abbia ritenuto in sede
di ammissione delle prove utilizzabili le suddette intercettazioni impiegandole, quindi, ai fini della
decisione sulla responsabilità del Posca.
3) Vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla ritenuta responsabilità dell’imputato
per il reato di cui all’art. 348 c.p.
In particolare la difesa si lamenta del fatto che la ritenuta responsabilità del Posca in relazione al
reato di cui all’art. 348 non troverebbe in realtà alcun riscontro nei presunti elementi di giudizio
emersi dal dibattimento. Nota infatti la difesa che la Corte di Appello ha fondato la propria
decisione sul punto in massima sui risultati delle intercettazioni telefoniche prima menzionate.
Orbene come già detto queste intercettazioni sono inutilizzabili per la difesa “, gli altri scarni
elementi, di riscontro del tutto privi di pregio in quanto la Corte di Appello si limita a richiamare la
deposizione del m.11o Boi ed il fatto che presso lo studio di Carugo venne rinvenuta una micro
centrifuga corredata di micro capillari per la rivelazione del valore dell’ematocrito. Invero, sostiene
il ricorrente, tale apparecchiatura venne ritrovata presso l’abitazione del Posca, una cascina ove lo
stesso aveva un allevamento di cani e si avvaleva di tale micro centrifuga per misurare l’ematocrito
di detti animali.

come motivo di appello e impugnazione della sentenza di secondo grado pure in parte qua).

Dunquei venuta meno l’utilizzabilità delle intercettazioni e l’attendibilità dei menzionati elementi di
riscontro/ crolla l’intero castello accusatorio e la motivazione della Corte di appello finisce per
diventare, secondo la difesa, una motivazione solo apparente.
Peraltro, continua il difensore, anche volendo riconoscere valore ai risultati delle capitazioni in
esame comunque l’interpretazione fatta dal giudice di merito risulta del tutto fuorviante. La Corte,
infatti, a detta della difesa enfatizza il contenuto della telefonata tra il Brozzu ed il Pellegrini del 9

nel senso che il Pellegrini andasse dall’odierno ricorrente a rifornirsi di sostanze dopanti e non
attribuendo valore invece alla risposta del Pellegrini “sarà tre anni che non sento il Davide”. A detta
della difesa tale ultima frase doveva interpretarsi quale smentita dell’attività illecita ingiustamente
attribuita al Posca mentre la Corte territoriale ha erroneamente affermato che la stessa “non elide la
portata accusatoria della frase rivoltagli dal Brozzu e che si spiega solo con la diffusa conoscenza,
non smentita dal Pellegrini, del fatto che il Posca procurasse agli atleti farmaci dopanti”.
Quanto alla telefonata con tale Antonio intercettata in data 22 giugno 2007, anch’essa secondo il
difensore non può considerarsi decisiva per il solo fatto che l’interlocutore del Posca gli confida il
suo timore per l’innalzamento della glicemia ed il Posca si mostra disposto ad incontrarlo: la difesa
osserva, infatti, che le ragioni di questo incontro non sono specificate. Di per sé la circostanza è
neutra mentre la Corte di Appello ha letto nella disponibilità dell’imputato disposto ad incontrare
tale Antonio anche quello stesso giorno un atteggiamento equiparabile a quello di un “medico
curante” (cfr. pag 26 sent. app.).
Né maggiori elementi a carico del ricorrente sembrano emergere, secondo la difesa, dalle altre
conversazioni captate (con Gianni Fontana in data 3 e 5 settembre 2007): in tali telefonate il Posca
invero si limita a fare delle raccomandazioni dettate dal buon senso del tipo “non bere” o “allenati”,
insomma suggerimenti che chiunque potrebbe dare ad un atleta.

Civiello Gaetano

1) Vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del Civiello con riguardo al reato di
cui all’art 9 co. 1 1. 367/2000. In particolare, a detta della difesa, la Corte di Appello si sarebbe
limitata a recepire acriticamente la decisione del giudice di prime cure senza che il quadro
probatorio a carico del Civiello fosse in qualche modo incrementato: a carico dello stesso infatti
sussiste solo il ritrovamento presso l’immobile abitato insieme alla moglie ed al figlio nonché ai
suoi genitori di alcuni farmaci dall’effetto dopante. Orbene, a detta della difesa, il PM non avrebbe
dimostrato la colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio non avendo in alcun
9

giugno 2007 dando eccessivo rilievo alla frase “vai a caricarti come una sveglia dal Posca” intesa

modo provato che detti farmaci erano assunti dal Civiello e dallo stesso ceduti a terzi: ciononostante
i giudici di merito condannavano l’imputato per “aver assunto in più occasioni farmaci o sostanze
dopanti”.
Al contrario, nota la difesa, la Stropparo, altra atleta coinvolta, veniva assolta da analoga accusa in
quanto non è emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale che i farmaci proibiti rinvenuti presso
l’abitazione del Civiello fossero a lei destinati e non ritenendo la Corte sufficiente il ritrovamento di

sostanze dopanti. Ne consegue un’ingiustificata discrasia nella motivazione dell’impugnata
sentenza.
2) Mancata assunzione di prova decisiva in relazione alla mancata audizione del figlio e della
moglie del Civiello quali testi a discarico richiesti dalla difesa al fine di dimostrare che non era il
Civiello a fare uso dei farmaci proibiti rinvenuti presso l’immobile da lui abitato insieme ai suddetti
familiari.
3) Violazione di legge in ordine alla richiesta di graduazione della condanna al risarcimento del
danno in favore della parte civile ed alla refusione delle spese processuali. Difatti la Corte di
Appello, nota la difesa, ha posto le spese a carico degli imputati gravati da condanna ritenendoli
obbligati in solido in violazione dell’art, 535 c.p.p. co. 2 in base al quale “i condannati in uno stesso
giudizio per reati non connessi sono obbligati in solido alle sole spese comuni relative ai reati per i
quali è stata pronunciata condanna”. Orbene, sostiene la difesa, nel caso di specie non vi era alcuna
connessione in senso stretto tra i reati a ciascuno rispettivamente addebitati tale da giustificare un
vincolo di solidarietà. Peraltro, ricorda il ricorrente, la Cassazione ha precisato che tale vincolo non
sussiste se la riunione dei procedimenti è dovuta a semplice connessione soggettiva o probatoria
ovvero avviene per ragioni di mera opportunità processuale.

Ritenuto in diritto

Prima di passare in rassegna i motivi addotti da ciascun ricorrente a sostegno delle proprie
doglianze merita trattare la questione della utilizzabilità delle intercettazioni oggetto sia del ricorso
del Posca sia di quello del Posabella.
Innanzitutto i ricorrenti lamentano un difetto del presupposto di cui all’art. 266 co. 1 c.p.p. essendo
stati i medesimi condannati per reati puniti con una pena inferiore nel massimo ai cinque anni
previsti dalla menzionata norma ai fini dell’impiego di tale strumento di indagine, non connessi, a
detta della difesa, né formalmente nè probatoriamente con le più gravi imputazioni per le quali
soltanto sussisteva tale presupposto. Dunque, sostiene la difesa, l’originario inquadramento del fatto
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farmaci di tal tipo presso la di lei abitazione per condannarla in relazione al reato di assunzione di

di reato nell’ambito del co. 7 dell’art. 9 1. 376/2000, contenuto nella richiesta di autorizzazione alle
intercettazioni, non avrebbe avuto altra ragione se non quella di aggirare i limiti dell’art. 266 c.p.p.
Difatti secondo i ricorrenti al momento della suddetta richiesta erano già stati identificati sia gli
indagati sia le meno gravi fattispecie di reato astrattamente ipotizzabili nei loro confronti.
La censura è manifestamente infondata in quanto si basa su un presupposto fallace. Per cogliere
l’erroneità dell’assunto difensivo si rendono necessarie alcune precisazioni a cominciare dal

Si tratta dell’ipotesi in cui, effettuata la captazione, il reato per cui si procede risulti diverso rispetto
a quello originariamente delineato e non rientri tra le fattispecie riguardo alle quali l’art. 266 c.p.p.
permette di disporre le intercettazioni.
Orbene sul punto il codice di rito non detta una disciplina specifica; non si rientra, infatti, nel caso
delineato dall’art. 270 c.p.p., pur richiamato dalla difesa, che riguarda la diversa eventualità di
emersione di una fattispecie ulteriore (cioè l’ipotesi in cui, disposte le intercettazioni in relazione ad
un reato e magari proprio a seguito della loro realizzazione, emerga un nuovo ed ulteriore fatto
storico);peraltro la prevalente giurisprudenza ritiene che le intercettazioni possano essere utilizzate
in relazione ad un fatto nuovo senza che trovino applicazione i limiti stabiliti dall’art. 270, qualora
le indagini siano strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico
al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto. (Cfr. Cass.,
Sez. 4, sent. n. 7320 del 2010,Verdoscia, CED 246697).
Dunque, nel silenzio della legge, la giurisprudenza prevalente ritiene che, in caso di mutamento
dell’addebito, si abbia inutilizzabilità solo qualora i requisiti siano venuti meno al momento in cui il
procedimento autorizzativo si è perfezionato. Resta perciò preclusa ogni valutazione successiva a
siffatto momento: la mancanza sopravvenuta del presupposto legittimante non inficia la
utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni (Cass. Sez. 1, sent. n. 24163 del 2010,Satta,
CED 247943).
La soluzione, del tutto condivisibile, è dettata dall’esigenza di conservazione del dato probatorio.
Certo, come è facile intuire, ciò può andare a discapito di un’altra istanza altrettanto importante:
quella di evitare che siano aggirati i limiti di cui all’art. 266 c.p.p.
Sotto questo profilo può essere utile distinguere due ipotesi. Quella in cui l’addebito si modifichi
per motivi sopravvenuti e quella in cui la diversità sia desumibile già all’origine. Nel primo caso il
mutamento è dovuto alla naturale evoluzione del procedimento: può darsi che andando avanti nelle
indagini emergano elementi idonei a determinare una modifica del fatto storico o del titolo di reato.
Del resto l’addebito si definisce provvisorio in quanto fisiologicamente mutevole con il progredire
del procedimento. Pertanto in questa situazione è plausibile ritenere che i risultati
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corretto inquadramento della fattispecie in esame.

dell’intercettazione restino utilizzabili a prescindere dalla riconducibilità del nuovo reato al catalogo
di cui all’art. 266 c.p.p.
Nel secondo caso, invece, il fatto che la diversità fosse desumibile dagli atti già al momento in cui
l’intercettazione è stata autorizzata è indice di una elusione, dolosa o anche soltanto colposa, dei
limiti imposti dalla legge. Ecco in tal caso, in ossequio alla riserva di legge, i risultati delle
intercettazioni dovrebbero essere considerati inutilizzabili qualora l’addebito modificato non rientri

Proprio a tale seconda ipotesi fa riferimento la difesa di entrambi i ricorrenti, Posca e Posabella, per
sostenere l’inutilizzabilità delle intercettazioni. In realtà, però, la vicenda in esame rientra nella
prima ipotesi: quella del mutamento fisiologico dell’addebito, dopo il perfezionamento della
autorizzazione alle intercettazioni, a causa di elementi sopravvenuti prima non conosciuti
dall’autorità procedente.
Difatti, come precisato nella stessa sentenza di appello, inizialmente, da un’indagine svolta dalla
GdF di Trento nell’estate 2006, erano emersi indizi in ordine alla possibile assunzione di sostanze
dopanti da parte di atleti tesserati con la Federazione Ciclistica Italiana specialità cross country e
ciò faceva presumere, se non altro, la connivenza dei responsabili della squadra (responsabile
medico incluso: il Posabella).
Dunque all’inizio, come evidenziato nella richiesta di autorizzazione, l’addebito venne formulato
con riferimento all’art. 9 co. 7 proprio perché, essendo coinvolta una serie non meglio identificata di
componenti della nazionale ciclistica italiana, si ritenne che l’attività di utilizzazione delle sostanze
dopanti non poteva svolgersi senza che il reperimento, la diffusione e la somministrazione
avvenisse in modo organizzato tramite un’attività di commercio pianificata (rientrante appunto nel
co. 7 del menzionato articolo).
Quanto poi all’ulteriore profilo della dichiarata inutilizzabilità delle intercettazioni da parte del
GUP, anche in questo caso la doglianza appare del tutto infondata. Come giustamente affermato dal
giudice di prime cure e confermato dalla Corte di Appello, sull’ammissibilità dei risultati delle
intercettazioni decide il giudice del dibattimento in sede di ammissione dei mezzi di prova richiesti
dalle parti. Dunque l’ordinanza del GUP, lungi dal cristallizzare la presunta inutilizzabilità delle
intercettazioni in esame, è da considerarsi un atto abnorme non avendo lo stesso il potere di
pronunciarsi sul punto.
Appurata manifesta infondatezza della censura relativa alle intercettazioni merita prendere in analisi
le singole posizioni dei ricorrenti a cominciare dal Posabella, responsabile medico della nazionale
ciclisti specialità cross country.

12

tra i casi dell’art. 266 (Cass. Sez. VI, Dell’Erba 1994, CED 200131).

Con il terzo motivo la difesa Posabella lamenta il vizio di motivazione in ordine al ritenuto scorretto
uso del farmaco da parte della Stropparo in assenza di idonea certificazione medica comprovante la
tendinopatia rotulea. La doglianza è manifestamente infondata nella misura in cui si limita a
riproporre una censura già avanzata con l’atto di appello e sulla quale la Corte territoriale si è
soffermata con argomentazioni del tutto logiche e condivisibili.
La Corte, infatti, precisa che, anche ritenendo la Stropparo affetta da tendinite rotulea cronica, il

prima ed indipendentemente da eventuali controlli antidoping (che, come già detto, vengono
effettuati a campione sulla base di un sorteggio). Al contrario, osservano i giudici di secondo grado,
dalle intercettazioni è emerso che i due erano soliti mandare il modulo solo dopo che la Stropparo
riceveva notizia di essere stata sorteggiata per il controllo antidoping.
Peraltro i giudici di appello osservano che la difesa Stropparo non ha fornito alcuna
documentazione effettivamente idonea a dimostrare che la stessa fosse affetta dalla predetta
patologia cronica e precisano come “affermare che il Bellani, medico condotto (anche se di provata
esperienza) fosse in grado di diagnosticare una malattia non particolarmente impegnativa come la
tendinopatia rotulea contrasta con quanto lo stesso ha dichiarato in giudizio e cioè che non aveva
alcuna competenza ortopedica o medico sportiva (oltre che medico di base era odontoiatra) e che
aveva almeno due volte prescritto il Kenacort alla Stropparo per la tendinite, senza accertarla, ma
solo attestandola sulla base di documenti clinici che però neppure ricordava di aver personalmente
visionato. Il CT del PM dott. Borrioni, del resto, ha dichiarato (non smentito) di aver trovato tra le
carte solo la richiesta di esenzione a fìni terapeutici per l’uso del Kenakort, formalmente corretta,
ma non sufficiente a provare la malattia presupposta e lo stesso imputato ha riferito in udienza di
aver ritenuto la patologia in virtù del certificato del dott. Bellani e di averla anche successivamente
constatata sottoponendo a visita l’atleta ma non risulta che l’abbia mai certificata”.
Poi la Corte di Appello richiama il dato oggettivo ed innegabile dell’avvenuta condanna passata in
giudicato del Bellani e della Stropparo per aver il primo rilasciato alla seconda certificazioni
mediche prive della data di emissione in cui attestava falsamente di averle praticato delle iniezioni
di Kenacort con ciò agevolando l’uso di farmaci dopanti non giustificato da condizioni patologiche.
Se tale pronuncia di certo non fa stato nel presente giudizio può comunque considerarsi un indice
della condotta illecita del Posabella e della Stropparo.
Al pari manifestamente infondata appare anche la successiva censura mossa dalla difesa Posabella
tramite la quale si lamenta l’inosservanza ed erronea applicazione di norme giuridiche vigenti
presso l’UCI aventi carattere vincolante e, comunque, il travisamento della prova e/o la manifesta
illogicità della motivazione sul punto poiché, secondo la difesa, il Posabella non avrebbe fatto altro
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Posabella avrebbe comunque dovuto inviare le dovute comunicazioni alle autorità di vigilanza

che adempiere il proprio dovere mandando la certificazione e comunicando agli organi di vigilanza
l’assunzione da parte della Stropparo del farmaco non consentito a causa della patologia (tendinite
rotulea) della quale la stessa è affetta.
Difatti la Corte territoriale prende atto del fatto che il Posabella non aveva un obbligo di
comunicazione all’UCI e che non abbia mai violato alcuna specifica norma regolamentare in quanto
nessuna disposizione specifica indica le formalità di documentazione delle patologie croniche degli

esenzione. Al contempo, però, precisa che la questione è diversa: il punto è che il Posabella
utilizzava una procedura lecita per un fine illecito cioè quello di aggirare i controlli antidoping
permettendo alla Stropparo l’uso continuativo di un farmaco in grado di alterarne la resa.
Emblematica in proposito è la telefonata richiamata dalla Corte di appello n. 3206 del 29 giugno
2007 nella quale il Posabella, dopo aver riferito alla Stropparo di aver inoltrato all’UCI la
comunicazione “come urgente e quindi che copre praticamente soltanto quel giorno li” aggiunge
che “se alla Pedaleda rifai il controllo ridimmelo… ed idem per la Villabassa, cioè la faccio partire
solo se …” al che l’atleta completa la frase dicendo “solo se faccio il controllo” ed il medico replica
“eh si, perché se no …non serve”. Ancora nella successiva telefonata del 7 luglio 2007 n. 3534 la
Stropparo si mostra preoccupata per un possibile controllo e comunica al Posabella che lei esibirà
“i/ suo solito documento e poi ti chiamo e te fai come al solito”.
Ed ancora la Corte di appello richiama altre conversazioni dalle quali emerge con notevole
chiarezza il meccanismo elusivo realizzato dai due coimputati e tale da non lasciar adito a dubbi
circa la responsabilità penale del Posabella.
Da quanto sopra esposto consegue la manifesta infondatezza anche delle successive doglianze
inerenti la mancata rinnovazione dell’istruttoria documentale in relazione alla produzione di
documenti atti ad approfondire la normativa attuale che rende legittima la somministrazione di
Kenacort, quella preesistente che lo vietava nonché le procedure di invio delle comunicazioni
suddette e le conseguenti autorizzazioni.
Quanto alla richiesta di rinnovazione volta ad approfondire le condizioni cliniche della Stropparo la
Corte la ha respinta in quanto del tutto generica, priva di riferimenti a certificazioni cliniche coeve
ai fatti e, quindi, priva del carattere delle decisività necessario ai fini della rinnovazione
dell’istruttoria in appello.
Quanto alla posizione del coimputato Posca la prima censura relativa alla competenza territoriale è
inammissibile. Invero, contrariamente a quanto affermato dalla difesa, risulta corretto il presupposto
da cui partono i giudici di merito secondo il quale il reato di assunzione e/o somministrazione di
sostanze dopanti, inizialmente contestato al Posca in concorso con la Stropparo ed il Pellegrini, non
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atleti, né le qualità professionali dei medici certificatori né i tempi di trasmissione delle richieste di

si consuma nel momento dell’assunzione della sostanza vietata poiché, attesa la sua natura di reato
di pura condotta e di pericolo presunto, il pericolo dell’alterazione delle prestazioni agonistiche
permane fino a quando la sostanza dopante è idonea a modificare le condizioni psicofisiche e
biologiche dell’atleta che l’ha assunta. (Cfr. Cass. Sez. III, n. 27279/2007).
Dunque risulta comunque corretta l’individuazione del giudice competente nel Tribunale di Trento
in applicazione del criterio residuale di cui all’art. 9 co. 3 c.p.p. A ben vedere, infatti, in

e continuazione tra i reati contestati al Posca (aspetto che emerge in maniera lampante leggendo
l’imputazione), non si può che pervenire a tale soluzione.
Difatti le condotte di violazione dell’art. 9 co. 1 sono state molteplici e nei confronti di soggetti
diversi con il risultato che la consumazione di ciascuno dei plurimi illeciti, peraltro tutti in astratto
di pari gravità, si è avuta in luoghi diversi (presumibilmente uno per ognuna delle gare sostenute
dagli atleti assuntori).
Di conseguenza, risulta impossibile applicare il criterio di cui al co. 1 dell’art. 8 (che considera il
luogo di consumazione del reato). Al pari impossibile, per le medesime ragioni, risulta il ricorso di
cui all’art. 9 co. 1 che considera il luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione od omissione.
Neppure si può guardare al luogo di domicilio o residenza degli imputati poiché il reato di cui
all’art. 9 co. I è stato contestato al Posca in concorso con la Stropparo ed il Pellegrini (tutti residenti
in luoghi diversi) e la competenza per territorio si determina al momento dell’instaurazione del
procedimento.
Del tutto priva di pregio è l’artificiosa ricostruzione della difesa secondo la quale la condotta del
Posca andrebbe considerata in via autonoma con conseguente individuazione del giudice
competente nel luogo di domicilio ovvero

, quindi Tribunale di Como. Difatti è alla

contestazione contenuta nell’imputazione che si deve guardare e non alla figura di reato in astratto
considerata ed indubbiamente nell’imputazione si fa espresso riferimento al concorso di persone in
senso tecnico dal momento che viene richiamato l’art. 110 c.p.
Non resta quindi che applicare, come giustamente ritenuto dalla Corte di Appello, la regola
suppletiva dell’ultimo comma dell’art. 9 c.p.p. che considera il luogo ove è avvenuta la prima
iscrizione: cioè Trento (infatti è in tale luogo che ha avuto inizio l’attività di indagine).
Della totale infondatezza della seconda censura inerente le intercettazioni si è già detto ed analoga
conclusione si impone anche con riguardo alla terza censura tramite la quale si lamenta vizio di
motivazione e la violazione di legge in ordine alla riconosciuta responsabilità del Posca per il reato
di esercizio abusivo della professione.

15

considerazione di quanto appena detto ed in applicazione dell’art. 16, stante i vincoli di connessione

Difatti la difesa Posca, attraverso la deduzione di motivi di legittimità, cerca di ottenere
surrettiziamente da questa Corte una diversa valutazione degli elementi di prova; operazione, come
è noto, preclusa in sede di legittimità. Il compito della Cassazione, infatti, non consiste
nell’accertare la plausibilità e l’intrinseca adeguatezza dell’interpretazione delle prove, riservata al
giudice di merito, bensì nel controllare l’esistenza di un logico apparato argomentativo. Dunque la
stessa deve accertare se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione,

abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza ed i criteri
legali dettati in tema di valutazione delle prove in modo da fornire giustificazione razionale delle
soluzioni adottate a preferenza di altre.
In altre parole, una volta accertata la tenuta logica della motivazione, non è possibile una nuova
valutazione delle risultanze processuale da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito.
Ne consegue che, laddove, come nel caso di specie, le censure mosse dal ricorrente non siano
idonee a scalfire la logicità e la linearità della motivazione del provvedimento, queste devono
ritenersi inammissibili, perché proposte per motivi diversi da quelli consentiti.
E la motivazione della sentenza impugnata risponde ai requisiti sui quali si fonda il controllo di
legittimità, ovvero appare esaustiva, bene argomentata e coerente nella coordinazione dei passaggi
logici attraverso i quali si sviluppa.
Infine, per quanto riguarda il Civiello, le prime due censure risultano manifestamente infondate. La
prima infatti si limita a riproporre in cassazione una censura già mossa in appello e sulla quale la
Corte territoriale si è soffermata con argomentazioni logiche perfettamente in grado di supportare la
ritenuta responsabilità del Civiello per il reato di cui al co. 1 dell’art. 9 1. 376/2000: presso la sua
abitazione sono stati ritrovati farmaci corrispondenti ad un programma antidoping, in casa l’atleta
professionista era solo lui ed il suo medico curante ha confermato l’assenza di patologie che
potessero in qualche modo giustificare l’impiego di detti farmaci.
Quanto all’audizione della moglie e del figlio con lui conviventi ciò che mette in rilievo la Corte è
che, comunque, la prova non sarebbe stata decisiva ed inoltre che tale audizione non è stata richiesta
al momento della presentazione delle liste testi né è stata avanzata formale richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale a ciò finalizzata.
Manifestamente infondata è anche l’ultima doglianza inerente la ripartizione delle spese processuali
tra i coimputati. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in ipotesi come quella in esame, infatti,
opera la solidarietà tra i coimputati: in caso di condanna di più imputati ciascuno dei soccombenti è
tenuto al pagamento delle spese in favore della parte civile in proporzione al rispettivo interesse

16

se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se, nell’interpretazione delle prove,

nella causa, applicandosi, invece, la solidarietà nel caso di interesse comune (Cass. Sez. VI, n.
18615/2013).
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

CNA.-

liquida in euro 3.000,00 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, in data 24 settembre 2014.

Condanna i ricorrenti in solido alla refusione delle spese del grado ella costitutita parte civile che

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