Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 43413 del 24/09/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 43413 Anno 2013
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sui ricorsi proposti dai difensori di:
Fasano Flavio, nato a Taviano, il 22/8/1959;
Carmone Giuseppe, nato a Gallipoli, il 14/1/1950;
Orlandino Luciano, nato a Milano, il 24/10/1960;

avverso la sentenza dell’8/7/2011 della Corte d’appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Francesco Salzano, che ha concluso per l’annullamento con rinvio del provvedimento
impugnato;
uditi per gli imputati gli avv. Giovanni ArIcò e Angelo Pallara, che hanno concluso
chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.

Data Udienza: 24/09/2013

RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza dell’8 luglio 2011 la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della
pronunzia di primo grado e per quanto qui di interesse, condannava alle pene di
giustizia ed a seguito di impugnazione del pubblico ministero Fasano Flavio, Carmone
Giuseppe ed Orlandino Luciano per i reati di falso ideologico in atto pubblico
rispettivamente contestati e commessi nella loro qualità, il primo, di sindaco del

comune. Sempre in parziale riforma della pronunzia di primo grado, che con riguardo a
tali imputazioni lo aveva assolto, la Corte territoriale dichiarava non doversi procedere
nei confronti del nominato Fasano per i reati di abuso d’ufficio, danneggiamento
aggravato e diffamazione per l’intervenuta prescrizione dei medesimi.
1.1 Le contestazioni riguardano la tormentata vicenda della gestione del “Lido San
Giovanni” di Gallipoli, di proprietà del Demanio Marittimo;Vicenda trascinatasi per anni
ed oggetto di plurimi pronunziamenti del giudice amministrativo, tesi a dirimere
l’acceso contenzioso instauratosi tra i pretendenti alla concessione del bene, costituito
da una porzione dell’arenile balneabile e da un complesso immobiliare asservito alla
sua fruizione, comprensivo di cabine, “appartamenti estivi”, relativi servizi, locali
adibiti alla ristorazione e all’intrattenimento, ecc.
A partire dal 1993 la gestione del Lido era stata concessa a diversi soggetti (dapprima
la CO.SPI. s.r.l. e successivamente la Immobiliare S. Anna s.p.a.) con provvedimenti
di assegnazione provvisoria, tesi sostanzialmente a garantirne l’esercizio nel corso
della stagione estiva a seguito dei ripetuti annullamenti da parte del giudice
amministrativo dei provvedimenti dell’autorità demaniale con cui erano state invece
accolte le domande di assegnazione in concessione pluriennale del bene. Annullamenti
in parte sollecitati dalla menzionata CO.SPI., ma soprattutto dal terzo pretendente alla
concessione, tale Ravenna Francesco, al quale, all’esito di successivi pronunziamenti
del T.A.R. e del Consiglio di Stato, il Comandante del Porto sostanzialmente “dovette”
assegnare infine la gestione temporanea del Lido 1’8 luglio 1999.
Va ancora rilevato come il complesso immobiliare del Lido fosse stato edificato negli
anni cinquanta e richiedesse all’epoca in cui si sono svolti i fatti di urgenti interventi di
manutenzione straordinaria (in difetto dei quali il bene si era fortemente deteriorato,
tanto da impedire progressivamente l’utilizzazione in sicurezza di diverse sue
porzioni), acuitisi proprio in ragione del protrarsi del regime di affidamenti temporanei
e del conseguente disinteresse dei concessionari ad operare importanti ristrutturazioni
In assenza di una assegnazione pluriennale del bene in grado di consentire quella
continuità di gestione necessaria all’ammortamento dei relativi costi.
1.2 All’esito di tale vicenda dimostrava nel tempo crescente interesse il Fasano,
preoccupato, nella sua qualità di sindaco, del progressivo stato di abbandono del sito e

comune di Gallipoli e gli altri due di funzionari dell’Ufficio Tecnico del medesimo

nel timore, rinnovatosi puntualmente di anno in anno, della mancata tempestiva
apertura del Lido nella stagione balneare a causa dell’incapacità dell’Autorità
proprietaria del bene di adottare una valida concessione che garantisse lo stabile
affidamento del complesso ad un soggetto in grado di valorizzarlo secondo le sue
effettive potenzialità. Preoccupazioni e timori determinati dal ruolo strategico rivestito
dal Lido nell’ambito dell’offerta turistica del territorio di Gallipoli, comune la cui
economia proprio al turismo, soprattutto estivo, è, come noto, inscindibilmente legata.

Infatti, nel giugno del 1999, pressoché alla vigilia dell’assegnazione del Lido in
provvisoria gestione al Ravenna, Carmone e Orlandino, ingegneri dell’UTC di Gallipoli,
operavano un sopralluogo del complesso immobiliare e nella relazione redatta a
seguito di tale intervento, evidenziando la compromissione statica di alcune parti del
complesso ed il conseguente pericolo per l’incolumità pubblica e privata, ne
suggerivano la demolizione. Indicazione prontamente raccolta dal Fasano, che il 18
giugno 1999 emanava un’ordinanza ai sensi dell’art. 38 I. n. 142/1990 con cui
imponeva al Comandante del Porto e al Direttore dell’Ufficio del Territorio di impedire
l’accesso alla struttura demaniale e di transennare immediatamente le parti
considerate pericolanti, provvedendo entro i successivi tre giorni alla loro demolizione.
Trascorso invano il suddetto termine, il Fasano disponeva darsi esecuzione all’ordine di
demolizione, la quale avveniva la notte del successivo 22 giugno a cura di una ditta
all’uopo incaricata e nonostante personale militare inviato dal Comandante del Porto
avesse cercato di impedirlo notificando ai rappresentati dell’amministrazione comunale
presenti in loco una formale diffida a procedere. Peraltro l’attività di demolizione,
eseguita con mezzi meccanici, finiva per interessare anche parti del complesso
immobiliare non espressamente menzionate nell’ordinanza.
Su ricorso del Ravenna, il giudice amministrativo annullava in seguito l’ordinanza di cui
si è detto, mentre, come accennato, all’inizio di luglio il Ravenna riceveva in
concessione provvisoria il Lido, provvedendo agli interventi necessari a rendere agibile
la parte della struttura non interessata dalla demolizione.
Va infine ricordato che, nel corso della notifica della diffida di cui si è detto, si
registrava un acceso alterco tra i militari inviati all’uopo dal Comandante del Porto ed i
Vigili Urbani che controllavano l’esecuzione dell’attività di demolizione. Episodio che
nei giorni seguenti offrì al Fasano lo spunto per rilasciare un’intervista ad un giornale
locale, poi riportata ed amplificata in volantini fatti affiggere dall’Amministrazione
comunale e nei quali l’imputato avanzava aperte critiche alla presunta ed annosa
inerzia del Comandante del Porto e stigmatizzava con toni ironici il suo estremo
tentativo di bloccare l’opera di demolizione.

1.3 In tale contesto si inseriscono i fatti oggetto delle imputazioni per cui è ricorso.

2. I fatti del giugno 1999 venivano tradotti dal titolare dell’azione penale nella
contestazione – per quanto ancora qui di interesse – al Fasano dei reati di abuso
d’ufficio, danneggiamento e falsità ideologica in atto pubblico in relazione all’adozione
dell’ordinanza contingibile ed urgente e di quello di diffamazione in merito al contenuto
del volantino, mentre al Carmone ed all’Orlandino del reato di falsità ideologica in atto
pubblico per quanto affermato nella loro relazione sullo stato della struttura
demaniale.

Tralasciando quanto argomentato in merito al reato di diffamazione, non rilevante ai
fini dell’odierna decisione, per quanto riguarda il reato di abuso d’ufficio il giudice di
prime cure riteneva che i profili di illegittimità dell’ordinanza del 18 giugno 1999
rilevati da quello amministrativo non determinassero di per sè l’illiceità della
medesima, collocandosi su un piano diverso rispetto a quello del delitto di abuso
d’ufficio, posto che al più poteva riscontrarsi un eccesso di potere ovvero uno
sviamento non penalmente rilevante atteso il perseguimento di un interesse pubblico.
Né per lo stesso giudice poteva ritenersi configurabile il reato di danneggiamento, in
quanto riferibile solo alle demolizioni ulteriori rispetto a quelle programmate, le quali
però potevano addebitarsi alla responsabilità del Fasano soltanto eventualmente a
titolo di colpa, per non aver disposto misure idonee ad impedirne la verificazione. In
relazione ai falsi ideologici, la sentenza di primo grado osservava infine come
l’obiettivo accertamento di pericoli per l’incolumità pubblica in seguito al progressivo
degrado strutturale del bene demaniale impedisse di valutare come false le espressioni
di discrezionalità tecnica contestate, ritenendo altresì irrilevante che in precedenza il
Fasano avesse comunque già manifestato al Comandante del Porto l’intenzione di
demolire il Lido, come testimoniato da quest’ultimo.

3. Come accennato la Corte territoriale, recependo i motivi dell’appello del pubblico
ministero, ha ribaltato il verdetto di primo grado, ritenendo sussistenti tanto l’abuso
d’ufficio, quanto il danneggiamento (per cui, come si è detto, vi è stata però
declaratoria di non doversi procedere per l’intervenuta prescrizione, non impugnata dal
Fasano), che la falsità dell’ordinanza e della relazione.
3.1 Quanto ai primi due reati i giudici d’appello hanno osservato come non
sussistessero i presupposti per ordinare la demolizione e come il sindaco potesse
ordinare interventi meno invasivi di quelli disposti per arginare gli eventuali pericoli
connessi alla situazione del complesso immobiliare, scegliendo invece
intenzionalmente di ordinare la demolizione parziale della struttura e consumando così
una palese violazione di legge foriera di danni sia per l’ente titolare del bene, che per il
Ravenna e realizzando in tal modo, oltre a quello di abuso d’ufficio, anche il reato di

Il Tribunale assolveva con formula piena tutti e tre gli imputati da tali imputazioni.

danneggiamento doloso, peraltro ad oggetto tutte le strutture abbattute e non solo
quelle indicate nell’ordinanza.
3.2 Con riguardo alle due imputazioni di falso ideologico per cui è ricorso, la Corte
territoriale ha evidenziato innanzi tutto la correlazione tra le diverse condotte attribuite
agli imputati, in quanto gli atti loro rispettivamente contestati sarebbero inseriti nella
medesima sequenza procedimentale.
3.3 La sentenza impugnata sostiene poi che dalle risultanze delle varie consulenze

deterioramento delle strutture del Lido San Giovanni non fosse a tal punto progredito

w

da imporne la demolizione, risultando peraltro scarsamente credibile che tale
aggravamento Avvenuto in pochi mesi e cioè dall’ultima stagione estiva, nel corso
della quale i tecnici della Immobiliare S. Anna (che all’epoca conduceva il Lido)
avevano attestato la idoneità statica delle medesime ottenendo proprio dal comune le
necessarie autorizzazioni per l’apertura al pubblico del sito. Peraltro poco più di un
mese prima del sopralluogo di Carmone ed Orlandino, analoga ispezione era stata
compiuta dalla Capitaneria di Porto e dal Genio civile, che, pur rilevando il
deterioramento di alcune parti dell’immobile, nulla avevano segnalato in ordine alla
necessità di procedere urgentemente alla loro demolizione a salvaguardia della
pubblica incolumità. Non meno rilevante per i giudici salentini sarebbe inoltre il fatto
che le testimonianze acquisite nel dibattimento di primo grado e la relazione dei
consulenti del pubblico ministero concordino nel ritenere che le prove sceloremitriche
eseguite dagli stessi Carmone e Orlandino non avessero evidenziato la
compromissione statica dei manufatti abbattuti.
3.4 Sulla base di tale compendio probatorio la sentenza ha dunque ritenuto
ideologicamente falsa l’ordinanza contingibile ed urgente del 18 giugno 1999, nella
parte in cui attesta la sussistenza del presupposto cui era subordinato l’esercizio del
potere autoritativo che ne legittimava l’adozione, nonché la relazione dei due tecnici
dell’UTC, evidenziando come, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime
cure, anche un atto valutativo può risultare falso, laddove il giudizio espresso si fondi
su premesse contenenti false attestazioni, come dovrebbe ritenersi nel caso di specie
in ragione delle menzionate risultanze delle misurazioni eseguite dai due imputati. Né
per la sentenza osterebbe alla configurabilità del reato contestato a questi ultimi la
circostanza che l’atto loro attribuibile abbia valenza endoprocedimentale, atteso che
per consolidata giurisprudenza anche gli atti interni possono essere oggetto della
fattispecie di falso ideologico quando offrano un contributo di conoscenza o di
valutazione destinato a riflettersi sul prosieguo della sequenza procedimentale.
3.5 Sul versante dell’elemento soggettivo la sentenza precisa infine come l’intera
ricostruzione della vicenda evidenzi come effettivamente il Fasano avesse l’intenzione
di forzare la situazione per impedire che la concessione provvisoria per l’anno 1999

rese nel corso del processo sarebbe emerso come nel giugno del 1999 lo stato di

venisse attribuita a soggetto diverso dall’Immobiliare S. Anna. Intenzione invero
rivelata già alcuni mesi prima dall’imputato nel colloquio con il Comandante del Porto il
cui significato probatorio era stato evidentemente minimizzato senza motivo dal
Tribunale.

4. Avverso la sentenza ricorrono tutti gli imputati.
4.1 Nell’interesse del Fasano sono stati presentati autonomi ricorsi da parte di

4.1.1 II ricorso dell’avv. Conte articola tre motivi. Il primo deduce la violazione dell’art.
479 c.p., ricordando in tal senso come il reato di falso ideologico in atto pubblico non
può, per conforme giurisprudenza, avere ad oggetto un atto a contenuto autoritativo quale certamente dovrebbe considerarsi l’ordinanza del 18 giugno 1999 in
contestazione – se non per la parte in cui implicitamente od esplicitamente esso
assuma natura certificativa sulla sussistenza dei presupposti che legittimano il potere
di emanarlo. Se questo è il principio cui la Corte territoriale si sarebbe richiamata,
allora, secondo il ricorrente, erroneamente la stessa avrebbe ritenuto sussistere il
reato contestato, giacchè il Fasano non avrebbe autonomamente valutato e certificato
la sussistenza delle condizioni che rendevano necessaria la demolizione delle strutture
del Lido, bensì si sarebbe limitato a recepire il contenuto della relazione del Carmone e
dell’Orlandino. Non di meno viziate sarebbero anche le conclusioni assunte nella
sentenza impugnata in merito alla sussistenza del dolo del reato, erroneamente
confuso dai giudici d’appello con il movente dello stesso. Con il secondo motivo
vengono poi dedotte analoghe violazioni della legge penale e il difetto assoluto di
motivazione della sentenza in merito alla denegata concessione al Fasano delle
attenuanti generiche, mentre con il terzo vengono denunciate ulteriori carenze
motivazionali in relazione all’applicazione della regola di giudizio dell’oltre ogni
ragionevole dubbio.
4.1.2 Con il ricorso redatto dall’avv. Aricò vengono proposti due ulteriori motivi. Il
primo deduce a sua volta l’errata applicazione dell’art. 479 c.p. e vizi della motivazione
della sentenza. In proposito il ricorrente innanzi tutto evidenzia sotto quest’ultimo
profilo come la Corte distrettuale, a fronte dell’autonomia delle imputazioni sollevate
nei confronti del Fasano e dei due funzionari comunali, non abbia spiegato per quale
motivo l’eventuale falsità della premessa tecnica dell’ordinanza contingibile ed urgente
non debba essere iscritta nello schema dell’art. 48 c.p. e perché l’imputato non
avrebbe dovuto tenere conto delle risultanze della relazione dei due tecnici comunali.
Non di meno, avendo invece implicitamente accolto una lettura unitaria dei due fatti
oggetto delle diverse contestazione, in forza del quale sostanzialmente al Fasano
sarebbe attribuito il ruolo di concorrente – quale istigatore – delle false
rappresentazioni contenute nella relazione, parimenti la motivazione della sentenza

entrambe i suoi difensori.

risulterebbe carente nella misura in cui non giustificherebbe tale conclusione, che anzi
integrerebbe un’aperta violazione dell’art. 521 c.p.p., atteso che mai una tale ipotesi
concorsuale risulterebbe essere stata contestata all’imputato. Quanto all’errata
applicazione della norma incriminatrice, i giudici d’appello, nel ritenere falsa
l’ordinanza in quanto presupponente l’urgenza di una demolizione invece non
necessaria, hanno finito indebitamente per traslare il giudizio sulla falsità dell’atto dal
fatto che ne costituisce il presupposto, alla valutazione che ne aveva compiuto

base della ritenuta eccessività della risposta amministrativa rispetto al pericolo
concretamente rilevato’ profilo attinente alla legittimità dello stesso, ma non per
I’
l’appunto alla sua liceità. In tal senso oggetto della censura avanzata in sentenza non
sarebbe, infatti, l’esistenza o meno di un pericolo per la pubblica incolumità, quanto la
mera possibilità che si verificassero crolli invece della certezza ritenuta dai giudici
d’appello necessario presupposto per l’attivazione dei poteri autoritativi del sindaco,
circostanza che per l’appunto renderebbe palese per il ricorrente come il sindacato di
falsità abbia riguardato non già i presupposti della valutazione, bensì la valutazione
medesima. Per lo stesso ricorrente non sfugge poi a censura nemmeno la ritenuta
sussistenza in capo all’imputato dell’elemento soggettivo tipico del reato. Affermazione,
questa sostenuta facendo leva sul registrato interesse meramente potenziale del

l

Fasano a disporre la demolizione della struttura demaniale, senza peraltro che la Corte
territoriale abbia saputo dimostrare, come invece doveroso, la consapevolezza da
parte del Fasano della falsità dell’accertamento tecnico svolto dai funzionari del
comune, tenuto altresì conto del fatto che egli non era in possesso delle conoscenze
tecniche necessarie per sindacarne il contenuto. Con il secondo motivo il ricorrente
lamenta infine il difetto assoluto di motivazione in merito alla determinazione del
trattamento sanzionatorio, nonché, nuovamente, alla mancata concessione
all’imputato delle attenuanti generiche.
4.2 D ricorso proposto dal comune difensore nell’interesse del Carmone e
dell’Orlandino articola quattro motivi.
4.2.1 Con il primo i ricorrenti deducono l’inutilizzabilità ex art. 360 comma 5 c.p.p.
delle considerazioni esposte dai consulenti tecnici del pubblico ministero in merito alla
corrispondenza o meno delle condizioni di staticità del complesso del Lido San
Giovanni con quanto in merito riportato nella relazione redatta dagli imputati. In
proposto il ricorso osserva che la consulenza era stata disposta nelle forme di cui
all’art. 360 c.p.p., avendo ritenuto il pubblico ministero l’irripetibilità degli
accertamenti delegati. Nonostante la difesa degli imputati avesse proposto ai sensi del
quarto comma del citato art. 360 riserva di incidente probatorio – chiedendo altresì
che nelle more venisse disposto il sequestro probatorio della struttura – il titolare
dell’azione penale ordinava comunque l’esecuzione della consulenza ritenendo la

l’autorità amministrativa, finendo così per affermare la falsità del provvedimento sulla

stessa indiffigébile in ragione dell’imminenza della stagione estiva e della prossima
apertura del Lido al pubblico: evento che avrebbe comportato la modificazione dello
stato dei luoghi. Ma in tal modo, secondo i ricorrenti, si sarebbe contravvenuto al
disposto del menzionato quarto comma dell’art. 360, il quale consentirebbe, in
presenza di riserva di incidente probatorio, di procedere comunque nell’accertamento
tecnico solo qualora la sua irripetibilità dipenda dalla prevedibile modificazione che la
cosa o il luogo oggetto dell’accertamento subirà in ragione del trascorrere del tempo.

all’intervento umano o alle caratteristiche dell’indagine tecnica, la consulenza sarebbe
per il legislatore sempre fungibile con la perizia e dunque la riserva di incidente
probatorio ne impedirebbe l’espletamento. In tal senso, sempre secondo i ricorrenti, la
causa dell’irripetibilità individuata nel caso di specie sarebbe di questo secondo tipo e
conseguentemente l’aver proceduto all’accertamento nonostante la riserva della difesa
ne comporterebbe inevitabilmente l’inutilizzabilità. In proposito i ricorrenti denunciano
anche carenze motivazionali della sentenza impugnata, essendosi la Corte territoriale
limitata sul punto a ritenere corretta in maniera apodittica la condotta del pubblico
ministero in ragione della necessità di procedere ai lavori tesi a garantire l’apertura del
Lido.
4.2.2 Con il secondo motivo i ricorrenti eccepiscono la nullità dell’accertamento tecnico
eseguito ai sensi dell’art. 360 c.p.p. in quanto, dopo il prelievo di campioni eseguito
previo sopralluogo in data 21 luglio 1999, le operazioni dei consulenti proseguirono nel
periodo feriale, nonostante la sospensione dei termini, senza dunque consentire la
necessaria partecipazione dei difensori alla loro esecuzione, della cui data peraltro non
venne dato avviso nemmeno ai consulenti di parte, che dunque non poterono assistere
ai rilievi sclerometrici eseguiti sui campioni prelevati. Nullità tempestivamente eccepita
dalla difesa degli imputati nell’udienza preliminare e reiterata dinanzi al Tribunale,
senza che la stessa venisse presa in considerazione, mentre sul punto la sentenza
impugnata nulla ha motivato.
4.2.3 Con il terzo motivo viene invece dedotta la nullità della richiesta di rinvio a
giudizio per violazione dell’art. 416 c.p.p. nella sua formulazione previgente alle
modifiche apportate dalla I. n. 479/1999, in quanto l’avviso di fissazione
dell’interrogatorio degli imputati era stato dato al difensore lo stesso giorno della sua
esecuzione e in orario successivo a quello in cui doveva avere inizio l’atto. Anche in
questo caso i ricorrenti evidenziano di aver tempestivamente eccepito la nullità in
questione nell’udienza preliminare e di averla poi reiterata nel dibattimento.
4.2.4 Con il quarto ed ultimo motivo si lamenta infine l’errata applicazione dell’art. 479
c.p. e correlati vizi motivazionali della sentenza impugnata. In proposito i ricorrenti
osservano come tutte le rilevazioni tecniche succedutesi negli anni ad oggetto le
condizioni statiche del bene demaniale (comprese quelle dei consulenti tecnici del

Diversamente, quando la prevista irripetibilità dell’accertamento sia da imputarsi

pubblico ministero) concordano sostanzialmente con quelle contenute nella relazione
degli imputati e oggetto di contestazione, anche in merito alla necessità che alcune
porzioni della struttura dovessero essere demolite e ricostruite, come del resto
contraddittoriamente ammesso dalla stessa sentenza impugnata, la quale ha dunque
finito per ravvisare la falsità dell’atto non nella parte in cui documenta la realtà della
struttura come per l’appunto rilevata, bensì in quella in cui esprime una valutazione
degli imputati in ordine alla soluzione di intervento da adottare nell’immediato. Ma in

tale valutazione, ancorchè opinabile, non può essere misurata secondo il parametro di
verità. Non di meno del tutto assente sarebbe per i ricorrenti la motivazione della
sentenza in merito alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, atteso
che la Corte territoriale si è limitata sull’argomento a brevi considerazioni dedicate
esclusivamente alla posizione del Fasano, peraltro senza tenere conto del fatto che il
movente attribuito a quest’ultimo (e cioè l’intenzione di favorire l’assegnazione del
Lido alla Immobiliare S. Anna) non è certo estendibile ai due imputati, atteso che nella
loro relazione gli stessi avevano tra l’altro evidenziato l’urgenza di interventi tesi
comunque ad impedire l’ingresso al Lido.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.I ricorsi sono fondati nei limiti che di seguito verranno evidenziati.
Innanzi tutto deve procedersi all’esame delle eccezioni processuali sollevate con il
ricorso di Carmone ed Orlandino ed in tal senso pregiudiziale appare la questione
evocata nel terzo motivo, il quale appare peraltro inammissibile in quanto
manifestamente infondato. Infatti, per come risulta dagli atti, l’avviso di fissazione
dell’interrogatorio degli imputati per la data del 29 dicembre 1999 venne ritualmente
notificato al loro difensore il 23 dello stesso mese a mani di un collega di studio ed a
cura del personale della sezione di p.g. della Procura della Repubblica di Lecce, a nulla
rilevando che lo stesso giorno stabilito per il compimento dell’atto tale avviso sia stato
eventualmente nuovamente notificato direttamente a mani del difensore in orario
successivo a quello fissato per l’espletamento dell’incombente, come sostenuto da
quest’ultimo nel corso dell’udienza preliminare, dove per la prima volta venne
sollevata l’eccezione.

2. Fondato è invece il primo motivo del ricorso menzionato. Gli esiti dell’accertamento
tecnico non ripetibile disposto dal pubblico ministero posti dalla Corte territoriale a
fondamento della propria decisione risultano effettivamente inutilizzabili ai sensi del
quinto comma dell’art. 360 c.p.p., così come eccepito dai ricorrenti.

tal senso sarebbe palese l’errata interpretazione della norma incriminatrice, in quanto

2.1 Sul punto va innanzi tutto rammentato come, ai sensi del quarto comma della
norma da ultima menzionata, la riserva di incidente probatorio non impedisca
l’esecuzione dell’accertamento disposto dal pubblico ministero quando questo risulti
indifferibile; condizione la cui eventuale originaria insussistenza determina però la
successiva inutilizzabilità dei risultati dell’accertamento medesimo (Sez. 3, n. 8342 del
4 aprile 2000, Chiarello, Rv. 217078).
2.2 Pur in assenza di particolari sforzi definitori da parte del legislatore e di una certa

suo complesso, distinguendoli, i concetti di irripetibilità e di indifferibilità, ancorando al
primo il presupposto perché l’indagine tecnica possa formare anticipatamente una
prova ed al secondo quello per cui l’accertamento possa essere utilmente eseguito
nonostante la riserva di incidente probatorio proposta dall’indagato. Peraltro la
distinzione concettuale tra irripetibilità e indifferibilità non è così netta come potrebbe
apparire a prima vista. Infatti alla scarsamente impegnativa formula utilizzata nel
primo comma della norma citata («quando gli accertamenti previsti dall’art. 359
riguardano persone, cose o luoghi i/ cui stato è soggetto a modificazione») devono
essere ricondotte tanto l’ipotesi in cui l’indagine tecnica non sia più eseguibile (o
utilmente eseguibile) in futuro (risultando dunque non rinviabile), sia quella in cui la
stessa, una volta eseguita, non possa essere più ripetuta (risultando dunque non
rinnovabile), vuoi per le sue intrinseche caratteristiche, vuoi per il suo impatto
sull’oggetto dell’accertamento; fattispecie quest’ultima espressamente evocata a
scanso di equivoci dallo stesso legislatore nell’art. 117 disp. att. c.p.p., dove per
l’appunto il concetto di irripetibilità viene utilizzato in maniera più selettiva di quanto
avvenga nella disposizione codicistica. Ma anche in quest’ultimo caso l’esigenza che si
provveda con urgenza all’accertamento non può ritenersi aliena, atteso che altrimenti
non sarebbe giustificabile la previsione di una deroga al principio di formazione della
prova nel dibattimento o l’attribuzione di valenza probatoria diretta ad un atto di
parte. In altri termini anche l’irripetibilità dell’accertamento – intesa come non
rinnovabilità dello stesso – deve accompagnarsi ad un’effettiva esigenza di non
rinviarne l’esecuzione, la quale può essere a sua volta determinata tanto dalla natura
dell’accertamento medesimo o del suo oggetto, quanto dalla stessa necessità di
sviluppare l’investigazione.
2.3 E’ dunque evidente che l’indifferibilità evocata dal quarto comma dell’art. 360
assume invece un carattere assoluto, tale da giustificare anche la rinunzia alla residua
possibilità di predisporre, attraverso l’attivazione della procedura dell’incidente
probatorio, un contesto più garantito all’espletamento dell’accertamento in grado di
ridimensionare la cifra di eccezionalità che caratterizza l’istituto. In altri termini, per
procedere ad accertamento probatorio nonostante la riserva di incidente probatorio
deve rivelarsi non solo l’esigenza, bensì la necessità dell’immediata esecuzione

frammentazione semantica del dato normativo, l’art. 360 sembrerebbe enucleare nel

dell’indagine tecnica e cioè l’effettiva impossibilità di effettuarla utilmente in un
momento successivo con le identiche prospettive di risultato.
2.4 Per come risulta dagli atti, a seguito dell’avviso di fissazione dell’udienza di
conferimento di incarico, il difensore del Carmone e dell’Orlandino, aveva formulato
riserva di incidente probatorio, ma il pubblico ministero, ritenendo indifferibile
l’accertamento, ha disposto procedersi comunque al suo espletamento. Come emerge
dal verbale del 20 luglio 1999, il titolare dell’azione penale ha argomentato sulla non

oggetto di concessione ad un privato, il quale dunque risultava legittimato ad
intervenire sullo stato dei luoghi modificandolo e che anzi era necessitato a provvedere
in tal senso al fine di rendere agibile le parti della struttura ancora fruibili dal pubblico.
Dallo stesso verbale si ricava peraltro come, tra gli accertamenti delegati dal pubblico
ministero ai propri consulenti, solo quelli attinenti ai saggi ed ai prelievi di materiali
erano eventualmente condizionati dalla conservazione dello stato dei luoghi e
rivestivano dunque il carattere d’urgenza, atteso che le successive sperimentazioni sui
campioni di materiali prelevati non presentavano il medesimo carattere – tanto da
essere eseguite a distanze di alcune settimane dal prelievo – né potevano essere
compromesse dagli eventuali interventi che prevedibilmente il concessionario del Lido
avrebbe poi effettuato per consentire l’avvio della stagione balneare.
2.5 Alla luce di quanto esposto, nonchè dei principi enucleati in precedenza, appare a
questo punto evidente come i motivi per cui il pubblico ministero ha ignorato la riserva
di incidente probatorio proposta dagli imputati risultino incompatibili con il dettato del
quarto comma dell’art. 360 c.p.p., atteso che quella enucleata nel verbale del 20 luglio
1999 non è un’effettiva ed oggettiva causa di indifferibilità assoluta degli accertamenti
disposti, ma solo l’opportunità di non differire ulteriormente un’indagine tecnica i cui
tempi di utile esecuzione erano in realtà compatibili con quelli di attivazione della
procedura ex art. 392 c.p.p.
In tal senso è innanzi tutto da escludere, infatti, l’oggettiva ineluttabilità della
modificazione dello stato dei luoghi assunta dal pubblico ministero a giustificazione
della sua decisione, atteso che egli aveva il potere di prevenirla provvedendo – come
pervero invano sollecitato dalle difese – al sequestro probatorio dell’area, garantendo,
come suo dovere, le tracce del reato. Ma anche a prescindere da ciò, alcuna
spiegazione è stata fornita dallo stesso pubblico ministero o è implicitamente
rinvenibile in merito alla non utile rinviabilità degli esami e degli studi svolti sui
campioni prelevati e sui dati raccolti presso il complesso demaniale. Accertamenti
questi che erano oramai svincolati dallo stato dei luoghi e che potevano dunque essere
effettuati senza pregiudizio per la celerità dell’indagine o per il suo esito nelle forme
dell’invocato incidente probatorio, tanto più che gli esami sclerometrici poi effettuati
riguardavano materiali certamente non deperibili nel breve periodo. In altri termini,

rinviabilità degli accertamenti sottolineando che il Lido San Giovanni era già stato

ammessa e non concessa – ed invero esclusa alla luce di quanto illustrato in
precedenza – l’indifferibilità delle operazioni svolte dai consulenti il 21 luglio 1999
presso l’area interessata, ciò non era sufficiente a giustificare anche l’affermata non
rinviabilità degli ulteriori accertamenti effettuati dai medesimi. Né può ritenersi che le
due attività fossero inscindibili, atteso che le prime in realtà si sono risolte nella
raccolta di dati pertinenti al reato e cioè in azioni riconducibili più al concetto di rilievi
che a quello di accertamenti (Sez. 2, n. 34149 del 10 luglio 2009, Chiesa e altro, Rv.

2.6 La rilevata inutilizzabilità dell’accertamento tecnico ex art. 360 c.p.p. giova
ovviamente anche alla posizione del Fasano, che pure non l’ha eccepita con il suo
ricorso ed al quale è stato formalmente contestato – contrariamente a quanto
sostenuto dai suoi difensori – il concorso con il Carmone e l’Orlandino (cfr. Sez. Un., n.
30347 del 12 luglio 2007, Aguneche ed altri, Rv. 236756). Non di meno raccoglimento
del relativo motivo assorbe il secondo del ricorso proposto da questi ultimi, del quale,
per desiderio di completezza, va comunque rilevata l’infondatezza, dovendosi in
proposito ricordare come, ai sensi del quarto comma dell’art. 2 I. n. 742/1969, il
pubblico ministero può procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili anche nel
periodo feriale, senza nemmeno necessità che l’urgenza dell’atto sia certificata dal
giudice, potendo egli provvedere in tal senso con autonomo decreto motivato.
Disposizione questa che è ragionevole ritenere riguardi non solo l’ipotesi in cui
l’esigenza di procedere alla consulenza ex art. 360 c.p.p. insorga nel corso del
suddetto periodo, ma altresì quella in cui, come nel caso di specie, nello stesso
intervallo temporale debba proseguire l’espletamento degli accertamenti già disposti in
precedenza.

3. Fondate risultano anche le doglianze avanzate da tutti gli imputati circa l’errata
applicazione dell’art. 479 c.p. e le correlate carenze della motivazione della sentenza
impugnata.
3.1 E’ innanzi tutto doveroso ricordare l’insegnamento delle Sezioni Unite, per cui il
giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di
delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di
confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima
sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da
giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. Un., n. 33748 del 12 luglio
2005, Mannino, Rv. 231679). Principi che questa Corte ha costantemente ribadito
dopo il pronunziamento del Supremo Collegio, premurandosi tra l’altro di precisare che
il giudice dell’appello non può limitarsi ad imporre la propria valutazione del
compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento
impugnato (Sez. 5, n. 8361 del 17 gennaio 2013, p.c. in proc. Rastegar, Rv. 254638),

244950).

ma deve provvedere ad una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella
della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore
considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 5,
n. 42033 del 17 ottobre 2008, Pappalardo, Rv. 242330), giungendo ad affermare
l’illegittimità della sentenza d’appello che, in riforma di quella assolutoria condanni
l’imputato sulla base di una alternativa interpretazione del medesimo compendio
probatorio utilizzato nel primo grado di giudizio, occorrendo, invece, una forza

(Sez. 6, n. 49755 del 21 novembre 2012, G., Rv. 253909). In definitiva il giudice
d’appello, quando, immutato il materiale probatorio acquisito al processo, afferma
sussistente una responsabilità penale negata nel giudizio di primo grado, deve
confrontarsi espressamente con il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non
limitandosi pertanto ad una rilettura di tale materiale e quindi ad una ricostruzione
alternativa, ma spiegando perché, dopo il confronto puntuale con quanto di diverso
ritenuto e argomentato dal giudice che ha assolto, il proprio apprezzamento è l’unico
ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o
inadeguatezze probatorie che abbiano caratterizzato il primo giudizio, minandone
conseguentemente la permanente sostenibilità.
3.2 La motivazione adottata dalla Corte territoriale risulta, alla luce degli illustrati
principi, irrimediabilmente viziata, giacchè si impegna nella rilettura del significato del
medesimo compendio probatorio valutato dal Tribunale, senza però confutare
analiticamente gli argomenti spesi dal giudice di prime cure per negare che il suddetto
materiale fosse in grado di dimostrare l’oggettiva falsità degli atti in contestazione e
senza, dunque, evidenziare quali sarebbero gli insuperabili limiti dell’apprezzamento
svolto nella sentenza di primo grado.
3.3 Peraltro la linea argomentativa seguita dai giudici dell’appello risulta altresì viziata
da intrinseche carenze strutturali e contraddizioni che ne minano la tenuta sul piano
logico. Infatti, dopo aver richiamato in maniera corretta gli approdi giurisprudenziali
sulle condizioni di configurabilità del falso ideologico nell’atto pubblico autoritativo e in
quello a contenuto valutativo, non ha spiegato perché l’ordinanza contingibile ed
urgente avrebbe certificato in maniera autonoma la necessità di procedere alla
demolizione delle strutture demaniali invece di limitarsi a recepire le conclusioni della
relazione del Carmone e dell’Orlandino ovvero perché tale ricezione dovrebbe ritenersi
avvenuta nella consapevolezza della loro difformità dalla realtà. Non di meno, con
riguardo alla suddetta relazione, i giudici dell’appello non hanno parimenti dimostrato
perché la falsità riguarderebbe il contenuto attestativo e non quello prettamente
valutativo dell’atto, tanto più che la sentenza riconosce come, in realtà, i due tecnici
comunali non abbiano riportato dati non corrispondenti al vero, ma abbiano invece
espresso un giudizio negativo sulla tenuta statica dell’immobile nonostante gli esiti

persuasiva superiore della motivazione, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”

delle prove tecniche non imponessero tale conclusione. A parte il fatto che
l’apprezzamento sulla non concludenza degli esami sclerometrici è stato ricavato dalla
consulenza tecnica dichiarata inutilizzabile, va ribadito in proposito che nel caso in cui
il pubblico ufficiale sia chiamato ad esprimere un giudizio, questo non è destinato a
provare la verità di alcun fatto. Ma se per la sua formulazione sia necessario fare
riferimento, anche implicitamente, a parametri predeterminati che dettano criteri di
valutazione che vincolano il giudizio ad una verifica di conformità della situazione

non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n.
1417/13 del 11 ottobre 2012, P.C. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305). Nel caso di
specie la rilevata non criticità dei dati sclerometrici certamente non imponeva agli
imputati di concludere per la necessità di una immediata demolizione dei manufatti – e
dunque se la relazione avesse escluso tale evenienza non sarebbe stata “falsa” nel
senso illustrato -, ma ciò non dimostra il contrario, come sostanzialmente ritenuto
dalla Corte territoriale, giacchè il mancato superamento della soglia di criticità non
impediva di formulare una valutazione sulla necessità di procedere alla demolizione
sulla base di altri parametri, come sostanzialmente avvenuto. Valutazione che poteva
essere giudicata errata, ma non falsa, a meno di non dimostrare l’irrilevanza dei
parametri assunti o l’assoluta ineludibilità di quelli invece trascurati. Dimostrazione
questa che la Corte territoriale non ha fornito – limitandosi a richiamare le conclusioni
dei consulenti tecnici, che, per come riportate nella stessa sentenza, non si sarebbero
peraltro nemmeno espressi nei termini assoluti necessari – e che invece il Tribunale
aveva motivatamente escluso potesse essere fornita, senza essere, come ricordato,
specificamente confutato dalla sentenza impugnata.
3.4 Fondate sono infine anche le doglianze dei ricorrenti in ordine alla ritenuta
sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati agli imputati e al concorso tra
i medesimi nella consumazione dei medesimi. La Corte territoriale ha infatti ricavato la
prova del dolo del Fasano dal presunto movente che questi avrebbe vantato alla
consumazione dei reati attribuitigli, mentre ha invece di fatto taciuto su quella del dolo
del Carmone e dell’Orlandino. In definitiva i giudici salentini hanno implicitamente
accreditato una ricostruzione dei fatti per cui il sindaco di Gallipoli, intenzionato a
creare le condizioni per favorire la concessione della struttura demaniale alla
Immobiliare S. Anna, avrebbe “commissionato” ai due tecnici comunali una relazione
in grado di costituire il pretesto per il suo successivo intervento autoritativo.
Ricostruzione che non sarebbe del tutto incompatibile con l’imputazione sollevata nei
confronti del Fasano – al quale, come già ricordato, è stato effettivamente contestato
il concorso con i coimputati, ancorchè, singolarmente, non è avvenuto il contrario ma che avrebbe dovuto trovare specifico e convincente riscontro nel compendio
probatorio di riferimento, che invece evidentemente i giudici d’appello non hanno

fattuale ai medesimi, l’atto potrà risultare falso se il suddetto giudizio di conformità

rinvenuto, avendo omesso alcuna precisazione sul punto. L’assenza della prova del
concorso degli imputati – e più precisamente del concorso morale del Fasano nel falso
del Carmone e dell’Orlandino – si riverbera logicamente su quella dell’elemento
soggettivo, atteso che il presunto movente individuato dalla Corte territoriale non è
sufficiente a dimostrare la consapevolezza da parte del primo della eventuale falsità
della relazione redatta dai secondi, condizione ineludibile per giungere ad affermare
che il Fasano abbia emanato l’ordinanza nella consapevolezza della falsità dei

4. La sentenza deve dunque essere annullata limitatamente alla condanna per i reati
di falso rispettivamente contestati agli imputati e l’annullamento disposto senza rinvio,
con conseguente adozione della formula assolutoria già deliberata dal Tribunale. Per
quanto evidenziato in precedenza, infatti, il giudice d’appello è pervenuto ad una
lettura alternativa del medesimo materiale probatorio valutato nel primo grado di
giudizio, con argomentazione articolata che ha valorizzato tutti gli elementi d’accusa
disponibili. Ma poiché tale prospettazione alternativa, per un verso, già in sè non
propone argomenti dirimenti e significativi di oggettive carenze e insufficienze della
prima decisione e, per l’altro, risulta, alla luce della riconosciuta inutilizzabilltà degli
esiti dell’accertamento tecnico non ripetibile, ora deprivata del suo principale sostegno
probatorio, appare del tutto ragionevole presumere che il giudizio di rinvio non
potrebbe introdurre elementi probatori ed argomenti ulteriori caratterizzati dalla
connotazione necessaria per procedere alla legittima riforma della pronunzia di primo
grado.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché i fatti non sussistono.
Così deciso il 24/9/2013
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presupposti legittimanti la sua adozione.

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