Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4312 del 17/12/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 4312 Anno 2015
Presidente: DI VIRGINIO ADOLFO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RASO GIROLAMO N. IL 05/12/1961
avverso la sentenza n. 908/2013 CORTE APPELLO di PALERMO, del
08/07/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/12/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ALESSANDRA BASSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
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Udito, per la

civile, l’Avv

Udit i difensor Avv.

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Data Udienza: 17/12/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8 luglio 2014, la Corte d’appello di Palermo ha
confermato la sentenza dell’Il aprile 2012, con la quale il Tribunale di Agrigento
ha condannato Raso Girolamo alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione
in relazione al reato di calunnia commesso in data 26 maggio 2007, perché,
quale veterinario ufficiale del caseificio di Campo Pietro, incolpava ingiustamente
gli operanti dei N.A.S. dei Carabinieri di avere commesso un falso ideologico nel

2006, posto a base dell’ordinanza applicativa della misura cautelare interdittiva
nei suoi confronti, La Corte territoriale ha rilevato che, nel corso delle indagini
disposte dalla Guardia di Finanza di Sciacca in merito a presunti abusi d’ufficio
commessi dal Raso (nell’omettere, quale dipendente del distretto veterinario di
Sciacca, di rilevare alcune irregolarità nei confronti di Campo Pietro, titolare di
un caseificio), l’appellante si era recato presso gli uffici dei N.A.S. dei Carabinieri
ed aveva reso dichiarazioni spontanee, spiegando che Campo Pietro si era
impegnato a consegnare tutta la documentazione necessaria, in effetti mai
consegnata, che lo stesso Raso aveva sempre tenuto informato il superiore
Caracappa dei successivi sviluppi del procedimento e che, ad un certo punto, il
controllo del caseificio era passato al collega Bono; che, sulla scorta delle
dichiarazioni rese da Raso Girolamo, veniva aperto a carico dei suddetti
Caracappa e Bono un procedimento penale ed applicata loro una misura
interdittiva; che, successivamente, richiesto dal dirigente del dipartimento della
ASL1 di Agrigento Dott. Cuffaro di fornire chiarimenti anche in merito al
contenuto delle spontanee dichiarazioni rese ai N.A.S., nella nota di risposta del
9 gennaio 2007, Raso asseriva di non essere mai stato sentito dall’Autorità
Giudiziaria, di avere reso ai N.A.S. spontanee dichiarazioni di tenore diverso da
quello verbalizzato e che essi gli avevano impedito di essere assistito da un
legale, e forniva quindi al proprio dirigente una diversa ricostruzione della
vicenda. Sulla scorta di tali evidenze probatorie, la Corte ha pertanto ritenuto
che Raso, nel momento in cui aveva riferito al proprio superiore – pubblico
ufficiale tenuto ad inoltrare le notizie di reato all’Autorità Giudiziaria – che
appartenenti all’Arma dei Carabinieri avevano trascritto delle dichiarazioni da lui
in effetti mai rese, aveva accusato falsamente ed ingiustamente i militari di falso
ideologico, con la consapevolezza di accusare degli innocenti.

2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Peppino Milano,
difensore di fiducia di Raso Girolamo, e ne ha chiesto l’annullamento per i
seguenti motivi.
2

compilare il verbale di dichiarazioni spontanee da egli rese in data 14 luglio

2.1. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 51 e 368 cod. pen., per
avere la Corte d’appello ritenuto integrato il reato di calunnia sebbene le
dichiarazioni rese da Raso fossero volte, non ad accusare ingiustamente gli
operanti dei N.A.S. sapendoli innocenti, bensì solo a fornire chiarimenti al proprio
superiore Dott. Cuffaro in merito al procedimento penale aperto nei confronti
dello stesso Raso, da cui era scaturito un procedimento disciplinare, laddove la
nota di risposta non costituiva una denuncia di reato. Sotto diverso profilo, il
ricorrente ha posto in luce come, dal contenuto della nota di risposta, emerga
ictu °cui/

procedimento penale è stato aperto a carico dei verbalizzanti. Infine, il ricorrente
ha evidenziato che Raso, nel negare di avere reso quelle dichiarazioni, si è
limitato ad esercitare legittimamente il proprio diritto di difesa.
2.2. Vizio di motivazione in relazione all’art. 51 cod. pen., per avere la Corte
omesso di motivare in ordine alla dedotta sussistenza della scriminante
dell’esercizio legittimo del diritto di difesa.
2.3. Violazione di legge penale in relazione all’art. 368 cod. pen., per avere
la Corte ritenuto integrato il reato di calunnia nonostante la mancanza di prova
del dolo, atteso che Raso aveva agito, non con l’intento di accusare
ingiustamente gli operanti, ma al solo scopo di difendersi.

3. Il Procuratore generale Dott. Eugenio Selvaggi ha chiesto che il ricorso sia
rigettato. L’Avv. Peppino Milano per Raso Girolamo ha insistito per l’accoglimento
dei motivi già dedotto nell’atto di ricorso, evidenziando che, in ogni caso, il reato
è prescritto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
1.1.

In primo luogo, deve essere chiarito che, secondo la costante

giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità della calunnia – che è
reato di pericolo – non è necessario l’inizio di un procedimento penale a carico
del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli
elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di
una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicché soltanto nel
caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in
circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente
adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del
buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere

3

l’inverosimiglianza delle presunte accuse, tanto che nessun

insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia (Cass. Sez. 6, n. 10282
del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259268).
1.2.

Ne discende che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto

integrato, nella specie, il reato di calunnia atteso che, per un verso, il fatto
falsamente esposto da Raso nella nota di risposta del 9 gennaio 2007 era
certamente sussumibile nella fattispecie di falso ideologico commesso da pubblici
ufficiali (appunto gli operanti dei Carabinieri nel verbale di dichiarazioni
spontanee) e dunque idoneo e sufficiente ad avviare un procedimento penale a

Dott. Cuffaro, pubblico ufficiale tenuto per legge a denunciare fatti penalmente
rilevanti che – in effetti – inoltrava l’atto all’Autorità giudiziaria, risultando
irrilevante che in concreto non sia mai stato avviato nessun procedimento a
carico dei militari.

2. D’altra parte, quanto al secondo motivo di ricorso, i giudici di merito
hanno legittimamente escluso la sussistenza dei presupposti della causa di
giustificazione dell’esercizio del diritto di difesa. A tale riguardo, la Corte
territoriale ha rilevato che le dichiarazioni del Raso risultano – da un punto di
vista oggettivo – connotate da uno specifico contenuto calunniatorio in danno
degli operanti e – da un punto di vista soggettivo – assistite da un’inequivocabile
volontà di accusare ingiustamente i militari, avendo il ricorrente agito
certamente oltre i confini del legittimo esercizio di difesa.
2.1.

Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, l’esercizio

legittimo dello ius defendendi non può spingersi sino alla consapevole accusa di
una persona che si sa innocente della commissione di un reato. Integra, infatti, il
delitto di calunnia la condotta dell’imputato che non si limiti a ribadire la
insussistenza delle accuse a suo carico, ma rivolga all’accusatore, di cui conosca
l’innocenza, accuse specifiche e idonee a determinare la possibilità dell’inizio di
un’indagine penale nei suoi confronti, in quanto non ricorrono le condizioni
richieste perché si configuri il legittimo esercizio del diritto di difesa e quindi la
causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. (Cass. Sez. 6, n. 9929 del
05/11/2002, Tummarello, Rv. 223946; Sez. 2, n. 28620 del 01/07/2009,
Ostuni, Rv. 244730). Ricorrono dunque gli estremi del reato di calunnia quando
l’imputato, travalicando il rigoroso rapporto funzionale tra la sua condotta e la
confutazione dell’imputazione, non si limiti a ribadire la insussistenza delle
accuse a suo carico, ma assuma ulteriori iniziative dirette a coinvolgere altri, di
cui conosce l’innocenza, nella incolpazione, specifica e circostanziata, di un fatto
concreto e da ciò derivi la possibilità di inizio di un’indagine penale da parte
dell’autorità (Cass. Sez. 6, n. 5574 del 19/03/1998, Ruggeri, Rv. 210652).
4

loro carico; per altro verso, la suddetta nota di risposta era diretta al dirigente

2.2. Ora, come correttamente concluso dai decidenti di merito, le parole
formalizzate dall’imputato nella nota di risposta al proprio dirigente non possono
ritenersi avere una valenza meramente difensiva, laddove delineano a carico
degli operanti un comportamento attivo sostanziatosi, per un verso, nel riportare
in modo infedele quanto da ea dichiarato, per altro verso, nel privarlo delle
garanzie minime riconosciute al cittadino sentito quale persona informata dei
fatti. Come efficacemente posto in luce dalla Corte territoriale, Raso accusava i
verbalizzanti di avere travisato le sue dichiarazioni nonostante avesse letto e

dichiarazioni spontanee per le quali non era necessaria la presenza del difensore
(non essendo egli all’epoca indagato di alcunché); per quanto più rileva ai fini
dell’analisi dei motivi che potevano avere ispirato l’agire del ricorrente, nel
rendere le dichiarazioni alla P.G., Raso scagionava se stesso da qualunque
responsabilità addossando la colpa dell’omessa rilevazione delle irregolarità
presso il caseificio Campo Pietro sui colleghi Caracappa e Bono, i quali – anche a
cagione delle dichiarazioni spontanee dal medesimo rese – venivano assoggettati
a procedimento penale.
2.3. Concludendo sul punto, nell’apparato argomentativo della sentenza in
verifica non sono rilevabili i denunciati profili di illogicità ed irragionevolezza,
laddove le conclusioni del giudice

a quo,

oltre ad essere sostenute da

considerazioni aderenti alle risultanze obbiettive degli atti, risultano conformi alla
logica ed ai consolidati principi affermati da questa Corte. Non è infatti revocabile
in dubbio che negare di avere reso le dichiarazioni verbalizzate, in un atto
ufficiale, da appartenenti all’Arma dei Carabinieri equivalga ad accusare i
suddetti operanti di avere commesso un falso ideologico, il che travalica i limiti
del legittimo esercizio dello ius defendendi.

3. Infine, quanto al terzo motivo, nessuna censura di natura logico giuridica
può essere fondatamente mossa all’iter motivazionale seguito dai giudici di
merito nel ritenere integrato l’elemento soggettivo del reato di calunnia.
3.1. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, la configurabilità del
dolo del reato di calunnia deve essere esclusa soltanto quando sia verificabile in
concreto la presenza di un rapporto funzionale tra le affermazioni dell’agente,
astrattamente calunniose, e la confutazione delle accuse rivoltegli (Cass. Sez. 6,
n. 5065 del 10/12/2013, De Benedetto, Rv. 258772).
3.2. Correttamente la Corte d’appello ha dunque escluso che la nota di
risposta del 9 gennaio 2007 sia giustificata dall’esigenza di svolgere le proprie
difese piuttosto che dalla volontà di accusare ingiustamente degli innocenti di
gravi fatti di reato. Ed invero, tenuto conto delle concrete circostanze dei fatti e
5

sottoscritto ogni pagina dell’atto redatto dai militari; l’imputato rendeva, inoltre,

delle modalità esecutive che definiscono l’azione criminosa nel caso di specie, è
possibile affermare, con processo logico deduttivo, che Raso, nel momento in cui
affermava che i militari avevano travisato le proprie dichiarazioni (ed impedito di
avvalersi di una difesa tecnica), si sia rappresentato ed abbia dunque
consapevolmente inteso accusare ingiustamente il personale dell’Arma dei
Carabinieri di avere commesso un falso ideologico (oltre che condotte arbitrarie).
Il che non può non ritenersi espressivo della volontà e della piena
consapevolezza dell’imputato di esporre ingiustamente gli appartenenti all’Arma

penale.

4. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma a
favore della Cassa della Ammende, che si ritiene congruo fissare nella misura di
1000 euro.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso preclude la rilevabilità della
intervenuta l’estinzione del reato per prescrizione, in ipotesi intervenuta in epoca
successiva alla data di pronuncia della sentenza oggetto d’impugnazione.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso in Roma il 17 dicembre 2014

Il consigliere estensore

I Presidente

dei Carabinieri, che sapeva innocenti, al rischio di subire un procedimento

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